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Alla scoperta della Mauritania, il “Paese della grande Solitudine” di Marina

– Posted in: Africa, Cultura, Nord Africa, Resoconti di viaggio, Storia

By Marina
Originally Posted Monday, June 14, 2004

Independent from France in 1960, Mauritania annexed the southern third of the former Spanish Sahara (now Western Sahara) in 1976, but relinquished it after three years of raids by the Polisario guerrilla front seeking independence for the territory.

Alla scoperta della Mauritania, il “Paese della grande Solitudine”.

All’estremita’ occidentale del Sahara, in quella strana carta geografica della Mauritania nata dalle fredde linee della ripartizione coloniale francese, un popolo nomade e fiero continua ad abitare il deserto e, in bilico fra il cambiamento ed il forte sentimento delle proprie tradizioni, ha creato l’ultima Repubblica delle Sabbie, scrigno di preziosi manoscritti islamici.

In viaggio verso Chinguetti

La sabbia scivolava leggera fra le mani di Ahmed. Dal palmo aperto della mano destra, un filo di rena rossa, fine e impalpabile, cadeva leggero e veloce attraverso il piccolo imbuto creato dall’altra mano chiusa a pugno e si ricomponeva silenziosa sul tappeto d’ombra delle palme. Poi aveva sollevato il capo e sorridendo mi aveva detto “Vedi… quando fai la carita’ la fortuna ti attraversa e non si ferma mai, essa continua a passare attraverso di te perche’ tu possa continuare a dare; ma quando tu la rifiuti -e repentinamente chiuse la mano- la fortuna si allontana, cade fuori di te e si perde”. Eravamo seduti sotto un palmeto di Chinguetti, la piu’ bella oasi della Mauritania, a sorseggiare il tradizionale te’ alla menta, al ritorno dalla consegna di indumenti e riso ad una famiglia tanto indigente che neppure l’aggettivo povera l’avrebbe potuta definire, e il sorriso di Ahmed ero lo specchio della sua serenita’, del suo sentirsi in pace, del suo abbandonarsi ad un sonno tranquillo nelle notti stellate del deserto. La carita’, uno dei cinque pilastri dell’Islam, era la prima, indimenticabile lezione che mi aveva dato il Paese della grande Solitudine.

Era il mio primo viaggio in Mauritania. Ne avrei fatti altri tre. Ero rimasta ammaliata dall’oasi di Cinguetti e…oggi non so dire se sia davvero cosi’ bella perche’ dicono che la prima oasi che s’incontra sia fatale, sara’ anche per questo, tuttavia ogni volta che vi torno la trovo sempre ammaliante, ogni volta diversa, intrigante, da scoprire con pazienza e lentezza. Cosi’ come tutta quella scatola di sabbia ancora abitata, la sua capitale e le sue oasi disseminate sull’ormai dimenticata Triq Lemtouni, l’antica carovaniera del sale che collegava le pendici dell’Atlante a Tombouctou.

Seimila chilometri di strade e piste separavano Ferrara da Chinguetti.

Erano gli ultimi giorni di febbraio del Duemila e i primi duemila chilometri li avevamo bruciati viaggiando nel silenzio dei paesi francesi addormentati nella notte e fra i tappeti assolati della Spagna, di ulivi e aranceti gonfi di arance mature. Tagliando le ampie piane rosse, il cui lungo respiro colmava gli spazi tra le montagne ed il mare, inseguimmo il tramonto del secondo giorno che ormai ci attirava magneticamente ad Ovest, verso l’Africa. A Ceuta, il terzo giorno di viaggio, dovemmo lasciare un po’ dei nostri sogni: i cento chilogrammi di abbigliamento, gli altrettanti cento chili di riso e i mille quaderni destinati a Chinguetti, avevano suscitato il malumore dei doganieri marocchini “Non potete passare con questo carico , e’ una quantita’ commerciale!” Nulla era valso a convincerli, neppure i nulla osta italiani, li volevano in arabo, saremmo dovuti andare a Rabat e poi, chissa’…forse. Ore di lunghe trattative, perche’ no non potevamo neppure donarne una parte in Marocco. Ed allora, basta, dietro front per ritornare nella Ceuta spagnola e consegnare meta’ carico alla Cruz Blanca. Fu quello che i doganieri spagnoli, con la consueta rivalita’ di frontiera, scuotendo la testa, definirono “El dono de el loco”, perche’ i poveri ospitati li’ erano comunque tutti marocchini. Una visita al souk di Fes, gemellata con Firenze per le sue 3000 botteghe artigianali, la piazza semideserta di Marrakech nelle prime ore del mattino, senza giocolieri e venditori, e via verso il passo di Tizi-n-Test, tra le cime ancora coperte di neve a 2092 metri. La mattina del quinto giorno, le sagome simmetriche di pietra rosa di due dromedari, porta d’ingresso di Tan-Tan, ci diedero il benvenuto. Stavano iniziando i territori spagnoli d’oltre mare solitari e desolati. La costa atlantica, accarezzata dall’aliseo marittimo, si stagliava bianchissima nel blu dell’oceano. Grappoli di capanne giacevano abbandonate sui fianchi delle scogliere, inquietanti come le carcasse arrugginite dei relitti di navi incagliate. Depositi di sale e miraggi grandiosi fecero si’ che al centro di un lago si vedesse spuntare un immenso palmeto. Poi a Dakla si attese il convoglio del venerdi’ e, alle tre del pomeriggio, la nostra lunga colonna di 35 mezzi parti’, al seguito dei militari, per percorre i 370 chilometri tra i paesaggi del Far West del Sahara e piste ai bordi di territori minati, per raggiungere Nouadhibou ed entrare ufficialmente in Mauritania. Ma arrivati alla frontiera, ci contammo e con sorpresa ci accorgemmo di essere rimasti solo in dodici mezzi. I grossi camion carichi di stuoie colorate, i lussuosi fuoristrada e le lucide mercedes erano scomparsi. Marocchini, mauri e saharawi si erano eclissati nelle no-mens land, sulle ultime rotte del contrabbando d’auto e altri traffici illeciti. Eravamo rimasti solo noi, assieme agli scalcinatissimi mezzi guidati da giovani europei, belgi e spagnoli, diretti a Bamako per venderli. Assieme a loro arrivammo a Noaukchott, attraversando bianchissime distese di sabbie, incrociando quel treno surreale che trasporta ferro sulla ferrovia mineraria piu’ lunga del mondo e scivolando tra i villaggi dei pescatori Imraguen sul deserto bagnato del Banc d’Arguin. Duecento chilometri mozzafiato, in corsa con l’alta marea, in un paesaggio spettacolare fra lance, casse di grossi cefali dorati, gabbiani e grovigli di reti, una corsa finale, sospesi tra sabbia ed oceano, su una lingua di sabbia lambita da acque insidiose, la’ dove le grandi dune rosse dell’Azeffal vanno a morire sulle rive dell’Atlantico.

Ed ecco profilarsi Nouakchott, la capitale della Repubblica delle sabbie, difficile da amare di primo acchito, squadrata e noiosa, ma da scoprire ed apprezzare solo vivendola ed accorgersi che e’ un’autentica capitale sahariana. Con i suoi mercati ed i suoi quartieri contrapposti, quelli ricchi con le lussuosissime ville che non sanno rinunciare alle tradizionali tende negli ampi cortili profumati di fiori e bouganville, e quelli poveri e poi le kebe’s, le desolanti bidonville frutto dell’esodo dalle oasi, iniziato con la grande siccita’ degli anni Settanta. Rifugi estremi fatti di stuoie e cartoni, “tende con rattoppi indaco circondate da collage di staccionate, striscie di lamiera ondulata e telai di automobili”, ancora oggi cosi’ come la vide l’occhio assoluto di Bruce Chatwin. La folla ed i colori del Grand Marche’ du Capital, con le stoffe ricche e le scarpe di morbido cuoio, e la promiscuita’ etnica del Marche’ Cinquieme, che vela le nascoste tensioni razziali causa di un difficile equilibrio politico, un quartiere nero fatto di piccoli ninnoli e del vociare confuso dei piccoli venditori d’acqua. Costruita alla fine degli anni Cinquanta, in una vasta piana di terra salata, per ospitare poco piu’ di 15.000 abitanti, Nouakchott e’ oggi assediata da un cordone di dune che inesorabilmente la spingono verso l’oceano e dalla pressione di una crescita demografica che sfiora i 700.000 abitanti, un terzo della popolazione. Si gonfio’ a dismisura quando la siccita’ degli anni Settanta e Ottanta arrivo’ a decimare il 90% del bestiame, spingendo crudelmente al suicidio proprietari di grandi mandrie e promettendo un vago sogno di ricchezza gli abitanti impauriti delle oasi. Fu allora che tutto il mondo conobbe il dramma del Sahel. Oggi, un impianto di desalinizzazione dell’acqua marina approvvigiona di acqua potabile solo un quinto della popolazione ed il resto l’ottiene grazie alla vendita, casa per casa, dei piccoli venditori che la trasportano in grandi botti su carretti trainati da asini: sono i figli degli ex haratin, i tanto discussi ultimi schiavi. Obiettivamente, una questione spinosa ben affrontata nello studio di Kevin Bales “I nuovi schiavi”, un libro da leggere se andrete in Mauritania. Ma la sua anima sahariana e’ li’, nella moderna citta’ d’affari dove si vende di tutto, dalle automobili alle scarpe, dalle sigarette ai mobili italiani anni ’60, dagli astucci porta fumo ed i cofanetti di fine tradizione mauritana alle schede telefoniche per i cellulari. Costruita secondo un piano regolatore moderno con lotizzazioni rigidamente regolari, tagliata in due dalle Avenue Nasser e Avenue Kennedy, l’asse attorno al quale si struttura la citta’, il mercato, lo ksar e il Cinquie’me. Arricchita di eleganti ville color pastello, che sorgono tra strade di sabbia mista a conchiglie fossili, si contorna di rottami e baracche di lamiera che brillano a specchio nelle giornate infuocate e lasciano passare le sabbie delle tempeste di vento. E quando arriva l’estate e l’aria carica dell’ umidita’ dell’oceano diviene soffocante, ci si sposta verso le oasi dell’Adrar per partecipare alla guetna, la raccolta dei datteri. Ci si ricongiunge ai parenti, negli ampi spazi lunari del deserto, di fronte alle grandi ciotole di zrig e ai piccoli bicchieri di te’ alla menta “forte come la vita, dolce come l’amore, soave come la morte”. E’ il momento per raccontarsi storie cariche di mistero, senza conclusioni logiche, perche’ dicono…il pensiero e’ nomade e non termina mai il suo viaggio. E nei lunghi dialoghi attorno ai fuochi, il presente e’ formato da due parole, tradizione e futuro: la nostalgia del passato batte in tutti i cuori anche se nelle ampie tasche delle enormi draha squillano sempre piu’ spesso i cellulari.

Partiti da Nouakchott, una tempesta di sabbia rese la luce del sole fioca ed acquosa. Tonnellate di granelli di sabbia tenuti in sospensione da un vento infuocato crearono un ambiente lattiginoso dalle fredde tinte invernali, e solo la lastra bollente dei vetri del fuoristrada allontano’ la sensazione di essere piombati in una fredda nebbia del nord. Il termometro segnalava quaranta gradi all’esterno e il vento avvolgeva nel turbinio di sabbia le esili figure dei nomadi e dei dromedari che avanzavano a fatica. A capo chino, avvolti nei loro chech, con gli occhi fissi al suolo non penetravano piu’ fieri l’orizzonte, ma mostravano la grande e silenziosa forza di chi vive nel deserto. Poi la brousse sostitui’ le dune, in un tragitto noioso mosso solo dalle vallate argillose e gli scabri tavolati dell’Adrar, fino alla fenditura del Passo Nautil, poco lontano dal vecchio passo d’Amojar, li’ dove s’innestava, proveniente dal Marocco, l’antica carovaniera di Triq Lemtouni. Fra colate di detriti e canaloni neri, la pista discese rapida verso Chinguetti. Al tramonto del quattordicesimo giorno, l’oasi ci apparve stretta in un morbidissimo erg colore albicocca. Sembrava uscita dalle pagine di Italo Calvino, una citta’ invisibile che, come “ogni citta’ si contrappone al deserto che la circonda”. Consegnammo il materiale, con non poche difficolta’, al Sindaco che riuni’ addirittura un consiglio comunale straordinario, e passammo bei giorni con Ahmed, il proprietario dell’Auberge des Caravanes, dalle cui terrazze amo osservare il lento ritmo dell’oasi, per farmi prendere dalla mali’a di fermare il pensiero, rapita dalle azzurre draha degli uomini e le coloratissime mellafa’ delle donne, mentre scendono dalla citta’ vecchia e attraversano il grande uadi per recarsi nella citta’ nuova. Una uadi di quasi mezzo chilometro, increspato di piccole dune, come un piccolo torrente di sabbia, ricordo dell’ultima pioggia torrenziale del 1995 quando le due citta’ vennero separate dalle acque e le dune divennero verdissime. Figure veloci ed eleganti nelle giornate dai cieli tersi, curve ed incespicanti quando l’harmattan percuote l’oasi ed i leggeri veli colorati s’impastano nell’aria torrida, carica di sabbia, ed allora anche il velo scuro e tremolante di una donna che prega su una tomba, diventa irreale, chinata in un cimitero fatto di anonime lastre di pietra. Due citta’, due anime contrapposte che si guardano. La citta’ vecchia fatta di case fatiscenti, racchiuse in un labirinto di stradine in ombra, avvinghiate attorno all’antica moschea e animate dai mercati delle donne, dove case tradizionali dalle fessure triangolari guardano alle recenti costruzioni delle parte nuova, il punto vitale dell’oasi con il municipio, le scuole, il dispensario e la residenza del cadi, il prefetto. Case nuove, dai colori rosati, che guardano alla parte vecchia, quella dove le antiche porte di legno, ancora sbarrate o invase dalla sabbia, ricordano i tristi anni dell’esodo, quando la carestia mise in ginocchio gli abitanti, quando meta’ delle palme morirono, quando non c’era piu’ acqua, ne’ latte, ne’ carne; quando il ricordo del suo splendore di antica citta’ carovaniera si offusco’ definitivamente. Eppure a Chinguetti, li’ dove e’ impossibile lasciare l’impronta e l’orma del piede viene rapidamente cancellata dal vento, si scopre che la memoria e’ fortissima e che come aveva sostenuto Milan Kundera c’e’ un segreto legame fra lentezza e memoria. Migliaia di manoscritti, in pergamena di gazzella, decorate da magnifiche miniature, alla merce’ di sabbia e termiti, riempiono ancora bauli e nicchie delle biblioteche private di Chinguetti, che le famiglie nobili si tramandano di padre in figlio. Testi di algebra, medicina, astronomia, grammatica, poesia, diritto e Corani ricopiati con grande cura, sono i tesori di questa oasi sahariana. La ricchezza delle scuole e le undici moschee avevano trasformata la citta’, fra il XVI e il XVIII secolo , in una sorta di Sorbona del deserto e la sua celebrita’ era tale che la Mauritania era conosciuta come Bilad Scinquit, il Paese di Chinguetti. Oggi l’insidia della sabbia e del tempo rischiano di far scomparire questi luoghi della memoria che resistono, come vascelli nella tempesta, anche grazie agli aiuti dell’Unesco e della cooperazione internazionale. E’ proprio negli stretti vicoli della citta’ vecchia che giacciono questi manoscritti e bussare alle porte delle biblioteche, per chiedere di ammirare questo prezioso patrimonio dell’umanita’, e’ una grande emozione. Quando i pesanti portoni di legno di acacia si aprono con rudimentali chiavi di legno e chiodi, non ci si stanca mai di ammirare la straordinaria perizia dei calligrafi e degli incisori di quei manoscritti medioevali. “La conoscenza e’ una fortuna che non impoverisce chi la offre”, recita una grande insegna posta sulla Biblioteca Ehl Ahmed Mahmoud, un motto della saggezza africana che ricorda le parole del grande saggio maliano Amadou Ampate’ Ba. A Chinguetti sono dodici le biblioteche private, anche se solo quattro sono state risistemate ed aperte ai visitatori. Molti i testi pregiati per la loro calligrafia di tipo orientale e di elevata qualita’ artistica, testi che si acquistavano durante i pellegrinaggi alla Mecca, o che venivano fatti copiare nonostante richiedessero parecchi anni di lavoro, lavoro tra l’altro davvero costoso se si pensa che i calligrafi venivano remunerati in oro o con cammelli, vacche e montoni: un lavoro regolato da ferrei contratti. Biblioteche create sul modello di quelle visitate in Marocco ed in Egitto, con cataloghi suddivisi secondo le discipline tradizionali arabo-musulmane: dalla teologia all’astronomia, dalla giurisprudenza alla matematica, ma anche numerosi documenti privati che ricostruiscono la vita civile dell’oasi: contratti, riconoscimenti di debiti, lettere conservate dentro canne di bambu’. Libri pregiati ricoperti da cartelle di cuoio che permettevano di riporre nella loro fodera qualche moneta d’oro al riparo dai predoni del Sahara, che mai avrebbero profanato un Corano.

Autentica creatura di sabbia Chinguetti varia nei colori e nei ritmi della sua vita quotidiana: ritmi ogni giorno identici a se stessi e che come tali s’imprimono nella memoria. Il risveglio pigro del mattino, il vociare dei bambini che vanno a scuola, il silenzio delle prime ore pomeridiane soffocate dal caldo e infine il silenzio assoluto delle notti stellate, quando il generatore di corrente smette di gemere .

Una memoria che ritorna sempre con piacere ai giorni trascorsi la’, giorni che mi hanno insegnato a vivere diversamente il tempo, per assaporare la pigra lentezza sahariana, fatta di fatica e pazienza. E non c’e’ nulla di piu’ bello, nel ricordo di quelle lunghe giornate, del sorriso raggiante di Marieme, una deliziosa bimba di sette anni che non poteva andare a scuola perche’ la sua capanna solitaria distava ben cinque chilometri dall’oasi…Marieme, con la maglietta nuova rosso fiammante donatale, alla quale avevamo regalato un quaderno sul quale aveva disegnati segni inceri, forse i primi…Marieme felice, seduta accanto al vecchio padre, incartapecorito dal sole e dal vento, sotto la solitaria acacia che attendeva l’arrivo della moglie andata all’oasi per cercare qualcosa da mangiare. Da tre giorni non avevano piu’ nulla ed il pozzo era senz’acqua. Angosciato ci aveva mostrato il pozzo dell’acqua ormai insabbiato, mentre il suo bianco boubou, ricamato e lacero, si gonfiava comunque elegante nel vento, lasciando intravedere il suo corpo secco e nudo. Rientrando a Chinguetti al tramonto, mentre le dune color albicocca si riscaldavano agli ultimi raggi del sole, avvistammo in lontananza -mentre gia’ si stagliavano all’orizzonte i profili silenziosi della citta’ vecchia- un’esile, solitaria figura di donna, dondolante su un asino, che si dirigeva verso l’acacia solitaria. Affidai alla mia immaginazione la sua gioia nel trovare alla capanna doni inattesi. Lasciai Chinguetti senza voltarmi. Impressa nel cuore e nella memoria, non era piu’ una citta’ invisibile uscita da pagine di sabbia.

Tesori sotto la sabbia. Le biblioteche del deserto

La pioggia qui, sotto il 18ø parallelo, e’ cosi’ rara che la si puo’ definire un errore meteorologico. E quando l’harmattan, il torrido vento del Sahara fa cadere colate d’aria rovente sulle oasi e s’insinua tra le dune disegnando nuovi solchi e nuove forme e spostando le grandi barcane dalle linee dolci e sensuali, il paesaggio si ricompone, si ridefinisce, lo scenario cambia e le carte topografiche impazziscono. In una sola notte il paesaggio puo’ cambiare. “Inutile contare sulle carte sono tutte fasulle- grida di disperazione Philippe Frey, raccontando la sua allucinante traversata della Mauritania, in Nomade Bianco- tutta la formazione sabbiosa si e’ spostata rendendo impossibile qualunque calcolo per sapere se ne usciro'”. E, in questa strana carta geografica posta all’estremita’ occidentale del Sahara, nata dalle fredde linee rette della ripartizione coloniale francese, altre tre “oasi della memoria” minacciate dalla sabbia, Oudane, Tichitt e Oulata, conservano nelle loro biblioteche preziosi manoscritti.

Quando le carovane, di diecimila e piu’ cammelli, percorsero fra il 10ø o 16ø secolo quel fantastico ponte chiamato Sahara – che gioco’ un ruolo capitale nell’economia mondiale trasportando per lo piu’ oro, sale e schiavi- nelle scuole delle tende beduine, le mahadras, circolavano idee e scambi culturali ed i libri valevano quanto l’oro. Ed e’ sulla carovaniera del sale di Triq al-Lamtouni – cosi’ definita dallo storico africanista francese Raymond Maury, allievo di Theodore Monod- che sono dislocate le oasi storiche della Mauritania, su uno dei piu’ importanti assi delle vie di comunicazione sahariane che collegava le pendici dell’Atlante al Niger, e che fece colloquiare l’Africa araba con l’Africa nera. Per questo le biblioteche private di Chinguetti, Oudane, Tichitt e Oualata sono figlie del commercio transahariano, della sua fortuna e della sua decadenza. Autentici porti fra le rive di un mare di sabbia assettato d’acqua, la loro vita, cosi’ come il loro declino, dipese, con alterne vicende, da quel traffico. Cosi’, quando nel XIX sec. si esaurirono i prodotti di base (oro e sale), quando per ragioni istituzionali ed economiche si abbandono’ il commercio degli schiavi e l’occupazione coloniale sconvolse i quadri politici ed economici, le citta’ storiche della Mauritania persero definitivamente la loro vera ragione di esistere. Le universita’ a cammello si fermarono e i libri terminarono il loro viaggio, finendo nei bauli delle famiglie nobili. Scoperte da The’odore Monod all’inizio degli anni Trenta, protette dall’Unesco che le ha dichiarate patrimonio dell’umanita’, queste biblioteche sono oggi autentici tesori sotto alla sabbia che, tra mito e realta’, attendono che il tempo o il loro destino si compia. E se, assetati di conoscenza, desidererete scoprire altri tesori, continuate il viaggio, per raggiungere – fra cordoni dunari che sfiorano la citta’ morta di Tinigui e la bella oasi di Tanouchert (o rullando veloci sulla monotona pista costruita dagli italiani nel 2000, cosa che non farete di certo) – Oudane. Situata sull’orlo estremo del Taguenz, sull’ultimo anello del Guelb Er-Richat, l’oasi non conserva molti ricordi dei cinque secoli (dal XIV al XVIII) quando fu crocevia di varie correnti commerciali e di quando i Portoghesi vi avevano creato un emporio inserendola nei portolani europei. Tuttavia la sua condizione di citta’ quasi deserta, che si avvertiva fino a pochi anni fa, non e’ piu’ tale, dato che un progetto culturale portoghese ha completamente ristrutturato quel lungo sperone roccioso che era interamente coperto di case in rovina ed oggi merita di essere riscoperta. E, se andrete a visitare la Biblioteca del conservatore Moustapha Ould Khetta, lui in modo molto signorile vi offrira’ innanzi tutto datteri dolcissimi per ricordarvi che la citta’ era definita il “doppio fiume delel scienze e dei datteri”, vi raccontera’ di come le carovane impiegavano trenta giorni per andare da Oudane a Tombouctou, di come arrivavano tessuti europei, grano, tappeti, lana, calzature e fucili attraverso il Marocco e poi vi mostrera’ un famoso manoscritto di storia e geografia del XIII sec. preziosa fonte d’informazioni sul commercio sahariano e sulle molte citta’ scomparse. E se, affascinati da questi tesori, desiderate conquistare anche Tichitt e poi Oualata, allora l’avventura inizia e l’itinerario diventera’ affascinante ma impegnativo, per questo meglio se accompagnati da una guida. Ma se siete dei nostalgici, non dimenticate di passare prima dall’albergo Agwedir, dove sara’ emozionante aprire il libro d’oro e trovarvi l’ultimo commento lasciato da T.Monod il 13 dicembre 1998: una scrittura incerta e tremolante, tradotta dalla figlia.

Belli i primi trenta chilometri di slalom tra le dune e l’ingresso nell’immenso erg di Ouarane, dove nessuna carovana si avventura. Distese di sabbia, cespugli spinosi e piste insabbiate vi condurranno prima allo ksar di Rachid, abitata dai Kounta e poi a Tidjikja, la capitale del Tagant, una citta’ abbastanza desolata in balia del vento. E quando arriverete a Tichitt potrete solo scoprire che si tratta davvero della testimonianza piu’ logora dei tempi d’oro delle carovane. Costruita sfruttando una falda sotterranea, nei suoi palmeti c’erano ventimila palme e si dice “tanti pozzi quanti giorni ci sono in un anno”. Poi , verso la fine dell’Ottocento, guerre, epidemie e siccita’ causarono la sua rovina, i pozzi si prosciugarono ed il terribile vento di Baten, carico di sale, si deposito’ sulle palme che non riuscirono piu’ ad invecchiare. L’arrivo dei francesi e lo spostamento dei poli commerciali ne decretarono la fine. Oggi , la citta’ sta scivolando lentamente verso l’obli’o e i suoi 1500 abitanti vivono di sussidi in attesa dell’arrivo dei camion con le provviste alimentari. Il faticoso viaggio che avrete affrontato vi rendera’ forse un po’ sgomenti all’arrivo, ma poi scoprirete di trovarvi all’interno del piu’ bell’esempio di architettura in pietra del Sahara mauritano. Case compatte con muri ciechi (per ripararsi da un vento che s’insinua violentemente in quel corridoio 200 giorni all’anno) costruite con pietre di gres beige e rosato e lastre di scisto verde, realizzano un disegno urbanistico logico ed equilibrato di una citta’ che oggi sopravvive alle sue rovine e che un tempo fu provincia del regno Soninke’ del Ghana. Qui non sara’ facile vedere i manoscritti perche’, nonostante il proprietario della Biblioteca Ould Ydda sostenga che in citta’ si trovano 7.000 volumi, essi sono conservati in vani bui e disabitati e non sono ancora oggetto di restauro. Ma, se volete vedere la manifestazione piu’ raffinata di queste “oasi della memoria” allora non fermatevi qui e, affrontando i restanti duecento chilometri di quella ininterrotta linea di falesia di arenaria, a ferro di cavallo, che e’ il Dhar el-Tichitt, raggiungete Oualata. La pista diviene sempre piu’ accidentata e fra distese di sabbie inasprite da ciuffi di drinn, banchi di pietrisco, scivolose lastre di granito e rocce taglienti, sulle quale le ruote cercano appiglio metro dopo metro, ecco profilarsi la rossiccia Oualata. Di certo la fatica sara’ ricompensata anche da quella meraviglia che e’ il paleosuolo neolitico dell’Aouker che, circa tre milioni e mezzo di anni fa, rappresentava la sponda di un immenso lago, il cui insediamento contava almeno 300.000 abitanti e tutto attorno aveva villaggi fortificati.Un passato che il vento scopre e ricopre.

Oualata, ultima stazione della carovaniera, era conosciuta come la riva dell’eternita’ ma anche – come sottolineo’ Ibn Battuta, il Marco Polo arabo che vi arrivo’ nel 1352- per il carisma delle donne, belle, libere e non soggiogate alla gelosia marietale. Caratterizzata da case decorate da pitture davvero uniche, dalle pareti di banco intonacate da terra rossa come la sabbia o lucenti di una bianca argilla abbagliante, affascinano per i bei rosoni di gesso, in rilievo, posti lateralmente ai lignei portoni d’ingresso. Decorazioni fatte con un bulino, incisioni simili agli arabeschi della filigrana riempiti di pigmenti: fregi gialli, rossi, ritocchi di blu indaco spiccano sull’argilla e tracciano motivi misteriosi, linee curve e rotonde, espressione nascosta della spiritualita’ e dell’ intraprendenza delle donne mauritane. Nei cortili interni, al riparo da occhi stranieri, finissimi arabeschi ricamano intricati merletti. Dall’esterno non se ne puo’ immaginare la bellezza, che si dice volutamente nascosta per i predoni che, arrivando per le razzie, sottovalutavano cosi’ l’importanza degli edifici. Pitture rotondeggianti, affidate alle fantasie delle donne e portate da un poeta architetto di Granata, arrivato nel Trecento al seguito di un re del Mali; ma fu anche la carovana di un sultano arrivato dal Cairo, con undici cammelli carichi di stoffe mongole, ad insegnare nuove forme orientali alla cultura sudanese. La citta’, fino ad allora costruita in pietre e malta, si animo’ di disegni e colori che tutti i notabili vollero riprodotti sulle loro dimore. Della Oulata, che tanto aveva rivaleggiato con Tombouctou, e dove si trova una raffinata biblioteca riccamente decorata, oggi rimane un’oasi sperduta nel deserto, le cui pareti domestiche si oppongono al vento riproducendo la gioia delle linee e della sensualita’ femminile, ma anche una moschea salvata dalle sabbie da un architetto italiano Enzo Fazzino.

Di ritorno a Nouakchott, in un paesaggio che trasmuta dal deserto alla savana, potete viaggiare sull’asfalto, spesso dissestato, della Via della Speraranza, o Transmauritana (perche’ costruita da ingegneri brasiliani su modello di quella amazzonica). Diciassette ore di viaggio e 1220 chilometri per ritornare alla capitale. Avrete visto cosi’ le oasi della memoria e i loro tesori sotto alla sabbia. Oggetto di controversie politiche il loro recupero e’ assai difficoltoso non solo perche’ va a sfiorare i conflitti ancora in atto fra le varie tribu’ e perche’ le famiglie, forse giustamente, non si fidano del potere centrale, ma anche perche’ lo Stato stesso non porta avanti con solerzia il progetto per riunirle, nonostante abbia emanato nel 1972 un’ apposita legge. Si ritiene che tutte assieme ospitino 40.000 manoscritti e molti ritengono che questi testi potrebbero apportare elementi innovativi per la conoscenza e la cultura della storia dell’Islam.

Chissa’,…forse, un vento di pace, flebile e sommesso, spira dal Sahara piu’ abitato e silenzioso, quello della Mauritania.

Il deserto bagnato. Dall’Oceano alle miniere di Zouerat

E’ irreale, mitico e storico, quel treno che collega Zoue’rat a Cansado, porto minerario presso Nouadhibou. O meglio due treni che viaggiano in senso opposto e che ogni giorno si danno il cambio a meta’ strada, perche’ la ferrovia e’ una sola. Un binario solitario in mezzo al deserto. Un lungo serpentone di due chilometri di vagoni che trasportano ferro- qualche vettura cuccetta per passeggeri e vagoni cisterna in coda- che sfiora i rari villaggi alla velocita’ di 40 chilometri orari quando e’ carico della quarzite ferruginosa (65% di ferro) estratta dalle miniere a cielo aperto di Zoue’rat che verra’ riversata poi- superate senza non poche difficolta’ le dune dell’Akchar e dell’Azeffal e le barcane mobili dietro la Baia del Levriero – da un nastro convogliatore, sull’oceano. Depositi di minerali di ferro di alta qualita’, quelli di Kedia, che iniziarono ad essere sfruttati a meta’ degli anni Cinquanta e che, dieci anni dopo, richiese la realizzazione di questa ferrovia di circa 650 chilometri e del treno piu’ lungo del mondo. Il ferro, una delle prime fonte di reddito per la Mauritania, ancora un punto di forza nella sua economia nonostante le traballanti vicende come la recessione degli anni Settanta, causata dall’impennata dei prezzi del petrolio, poi i frequenti attacchi dei guerriglieri del Fronte Polisario, durante il conflitto per il Sahara Occidentale, e una successiva crisi di sovrapproduzione, negli anni Ottanta, causata dalla concorrenza in Brasile. Polvere nera che corre parallela alla sabbie rosate verso l’ormai cancellata Port-Etienne, divenuta Nouadhibou, che significa la lunga penisola. Possiamo tentare d’immaginarcela come la vide Saint-Exupe’ry, un forte militare in mezzo alle dune e baracche di legno immerse in una atmosfera da Far West e poi riaprire gli occhi e vederla divenuta capitale economica del Paese, un centro di ricchezza grazie alla pesca e al porto minerario, navi in grado di esportare in un sol colpo la produzione di una settimana in miniera. Ma anche un suggestivo porto di relitti, navi accasciate su se stesse, arrugginite, in dolce balia della schiuma dell’oceano, in una cornice da pittura fiamminga.

E percorrendo quei cinquecento chilometri che separano Nouadhibou a Nouakchott, le due capitali del Paese, vi troverete immersi in un altro luogo mitico, il Banc d’Arguin, un parco voluto da Theodore Monod, duecento chilometri di deserto che invece di tuffarsi bruscamente nell’oceano, si adagia su una piattaforma fatta di banchi di sabbia e fango. Maree che salgono e scendono, acque calde e poco profonde, canali creati da correnti, isolotti che non vengono mai sommersi offrono riparo e luogo privilegiato alla migrazione di milioni di uccelli provenienti dall’Europa, Groenlandia e Siberia. Spostarsi sul banco per vedere da vicino le ricche colonie di pellicani, fenicotteri, spatole bianche e aironi cenerini e’ possibile solo con le lance, barche a vela latina governate dai pescatori Imraguen, che conoscono tutti gli stretti passaggi di quel capriccio dell’oceano, anche durante la bassa marea. Pescatori che pescano a strascico, con l’aiuto dei delfini, con grandi reti di trenta metri in grado di imprigionare fino a 150 kg di pesce: cefali dorati che da giugno ad agosto risalgono al nord, verso la Baia del Levriero, per ridiscendere, per la deposizione delle uova, in settembre. Spiagge melmose che diventano, con la bassa marea, un brulicante tappeto di piccoli molluschi, vermi e granchi violinisti, ghiotto pasto per queste enormi colonie di uccelli.

Un vero paradiso che, scendendo verso la capitale, lascia il posto ad una spiaggia piatta e rettilinea che, raggiungendo il Senegal, si anima un’ultima volta a Nouakchott, tra le flottiglie di navi variopinte e i gesti ritmici dei pescatori e delle donne che ogni giorno, alle cinque del pomeriggio, animano il Port de Peche. Ripetizione di gesti sempre uguali tra reti, tonni ed aragoste, ripetizioni di attese e sogni fra due spazi immensi, l’Oceano ed il Sahara.

 

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