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Egitto prima delle sabbie, Da Siwa a Farafra, attraverso il Grande Mare di Sabbia

– Posted in: Africa, Cultura, Nord Africa, Resoconti di viaggio, Storia

Originally Posted Sunday, July 11, 2004

Egitto prima delle sabbie

Superficie  1.001.449 Kmq
Popolazione 65.257.000
Densità 65 ab/Kmq
Lingua Arabo (ufficiale), Francese, Inglese
Religione  Musulmani (94%), Cristiani (5,9%)
Capitale Il Cairo
Sede di governo Il Cairo
Forma istituzionale  Repubblica
Relazioni internazionali Membro di EBRD, Lega Araba, OCI, ONU, e OUA
Unità Monetaria Lira Egiziana

L’Egitto prima delle Sabbie

…… E finalmente, davanti ai nostri occhi quasi socchiusi e vinti dalla polvere in sospensione, ecco profilarsi una incredibile, sconfinata ed imponente distesa di sabbie; un gigantesco Mare Magnum nel quale, lo percepiamo lucidamente, la nostra occasionale presenza può improvvisamente perdersi, fagocitata da un istante all’altro, dai flutti e dai vortici delle sue onde inquiete. Come esili fuscelli trasportati dalla corrente, veniamo proiettati al cospetto delle sue creste spumeggianti in prossimità delle quali i granelli di sabbia, ora sollevati con impeto dal vento, disegnano estemporanei pennacchi fumanti; su un campo di battaglia dove incombe la lotta tra le tinte oscure delle nubi minacciose, opposte a quelle chiare dei soffocanti raggi di sole, essi si combinano in turbolenze bizzarre che, simili a spiriti e a demoni irriverenti, danzano e volteggiano leggiadri, accarezzando la cute sottile delle dune, incuranti di turbare ed indispettire quel tiepido e sonnolento risveglio degli elementi, scatenandone invece, per contro, l’ira furiosa; quell’ira che un tempo, si narra, soffocò sotto una spessa coltre di sabbie l’intero esercito di Re Cambise, disperdendo per sempre ogni minima traccia di ben cinquantamila persiani dei quali, non sia mai, fu persa memoria.

Da Siwa a Farafra, attraverso il Grande Mare di Sabbia Immersi nel gorgoglio delle acque dei “bagni di Cleopatra”, attendendo che venga servito in tavola un succulento kous kous confezionato da abili mani, all’ombra delle frasche prossime al bordo della vasca, ci ristoriamo dalle energie spese nella visita delle tombe e dei dipinti in esse contenuti, al Gebel al-Mawta ed alla fortezza di al-Shali disposta su otto livelli, dietro la moschea. Poco distanti da noi, le rovine di Aghurmi, la città antica arroccata sulla roccia sopra la quale fu eretto il famoso tempio dell’oracolo di Siwa, dove i pellegrini provenienti da ogni dove (Alessandro Magno ivi compreso) offrivano doni alla divinità di Ammone in cambio di rivelazioni profetiche e di responsi che i sacerdoti, i veggenti e gli asceti del tempio dispensarono, per almeno cinquecento anni di storia antica, con incredibile infallibilità. Dal sito si gode una vista incantevole che, specie al tramonto quando la luce radente è più favorevole, consente allo sguardo di spaziare oltre l’immensità del palmeto arrivando a scorgere l’incombente fronte delle sabbie infuocate del grande mare di sabbia; si consuma così, giorno dopo giorno e senza soluzione di continuità, una sfida tra il deserto e la sua indole a scardinare le contrafforti poste a difesa degli insediamenti urbani per averne progressivamente ragione e l’uomo, che quelle stesse opere ha nel tempo eretto e fortificato finendo, come nel caso specifico di Siwa, per confinarsi in un’oasi verdeggiante di vita e di rinomanza spirituale, lontana, molto lontana dai principali centri culturali e politici sorti lungo la Valle del Nilo. Un isolamento che, fino al XIX secolo, ha consentito alla gente dell’oasi di mantenere costumi ed usanze tradizionali, nonché una lingua originaria, il Siwan, forma dialettale berbera che nel tempo non ha comunque impedito ai locali di scambiare notizie importanti e traffici consistenti di merci con le carovaniere che, provenienti dal deserto, erano dirette a nord, verso i grandi porti che si affacciavano sul Mediterraneo. Per chi, come noi, giunge a Siwa partendo dal Cairo ( e prima ancora dall’Italia ! ) passando per Bahariya, le ore in attesa del permesso militare per raggiungere nei giorni seguenti Farafra, attraversando il deserto, costituiscono una buona occasione, oltre che per visitare le bellezze dell’oasi, anche per mettere a punto tutta l’attrezzatura di viaggio, per imbarcare acqua e gasolio nei serbatoi supplementari e, in generale, per dedicare le ultime dovute attenzioni alle nostre macchine. Domani leveremo le ancore “salpando” per il grande mare di sabbia ! Lasciammo Siwa in tarda mattinata, e con essa le macchie verdi del suo palmento, le sue trecento fonti ed i suoi mille canali di irrigazione di altrettanti orti e giardini ricchi di frutta e di vegetazione, che si affacciano sui grandi laghi salati che costituiscono il perimetro naturale della vasta depressione sulla quale l’oasi si estende e ci presentammo al cospetto delle sabbie. E’ il momento in cui il corpo intero avverte un forte brivido di trepidazione, accompagnato ad una prima scarica di adrenalina simile a una sferzata inflitta da un flagello; ora la gioia e l’entusiasmo che sprigionano dal cuore devono misurarsi con la razionalità del cervello che vuole osteggiare la paura. Toccava a noi : un bel respiro profondo, il giusto colpo d’occhio ed un minimo di spregiudicatezza ci aiutarono a fiutare il primo corretto passaggio tra le dune; poi la macchina impennò il muso verso l’alto, puntando il blu intenso del cielo che, nell’impeto, sembrò quasi volerlo raggiungere, sfidando le leggi di gravità. I pneumatici, flosci e panciuti, avvinghiarono ogni granello di soffice sabbia, un “colpo di reni” e ricademmo dolcemente al di là della cresta del primo cordone, oltre il quale il panorama era mozzafiato. La cintura di sicurezza in tensione, il naso ad un palmo dal parabrezza, le braccia flesse sul volante ed il retrotreno della macchina sospeso nel vuoto mi confermarono che la manovra era pienamente riuscita, lo sguardo abbandonò per un attimo l’orizzonte ed incrociò quello del compagno seduto al mio fianco : spalancando gli occhi, aggrottando le sopracciglia e contraendo le labbra, contemporaneamente sorridemmo insieme per il primo scampato pericolo. Poi, strabuzzando gli occhi ben oltre il cofano, realizzammo entrambi di essere caduti proprio in un bel mare di sabbia e di guai; afferrai quindi il microfono e per radio chiamai le altre due macchine rimaste là sotto : ” forza, avanti, che qui sopra inizia lo spettacolo…. !”.

E’ difficile spiegare il divertimento che si prova tuffandosi tra le dune, lasciandosi rimbalzare e sballottare tra i muri di sabbia, discendendone i corridoi angusti come in una pazza corsa con l’ottovolante, o sorvolandone le creste e risalendone i pendii fino a dislivelli superiori ai 100-150 metri, giocando coi loro granelli, tanto perfetti e pregni di piacevole tepore quando ti scivolano tra le mani o ti corrono tra le dita dei piedi, quanto altrettanto dispettosi quando ti si insinuano negli occhi, in bocca, tra i denti o nelle scarpe. Siwa e Farafra distano fra loro, in linea d’aria, circa trecentoquaranta chilometri, che se affrontati con cognizione di causa e con perizia, senza mai sottovalutare il deserto e le sue insidie, possono dispensare infinite gioie : distese dunarie di incredibile bellezza, sensazioni profonde di solitudine e di serenità, passaggi tecnici di guida assolutamente divertenti e ripaganti del rischio per le peripezie che si richiedono nell’ affrontarli, nonché siti, alcuni anche di dubbio gusto, dei quali parleremo presto. Fu il nostro primo giorno nel grande mare di sabbia, e tutto procedeva nel migliore dei modi : avevamo macinato già una cinquantina di chilometri da Siwa e ci stavamo insinuando in un bacino in cui le dune, pur presentandosi ancora molto scomposte e con andamento tutt’altro che regolare, erano di incredibile spettacolarità. Con il progredire delle ore, però, nel corso del pomeriggio, il cielo si era progressivamente annuvolato ed era salito un vento intenso, veramente fastidioso, la visibilità era calata improvvisamente e fummo costretti ad avanzare nella nostra marcia a contatto ulteriormente ravvicinato, con i fari ben accesi e l’occhio vigile oltre il cofano per osservare, nel limite del possibile, le corrugazioni e le ondulazioni del terreno per scongiurare eventuali, improvvisi pericoli. Ciò nonostante, nel corso dello scavallamento di una duna, vuoi per la polvere e la sabbia controvento, vuoi per un attimo di tentennamento, vuoi per la fatica di tante ore già passate al volante, la macchina spanciò sulla cresta, obbligandoci ad uscire tutti dagli abitacoli per cercare di disinsabbiarla e fu in quel preciso momento, che sferzato dai grani di sabbia che mi colpivano il viso e le mani, depositandosi tra i capelli e senza risparmiare gli orecchi, che ripensai all’armata di Cambise scomparsa nel nulla, per opera del terribile khamsin, il peggiore nemico che possiamo incontrare nella nostra marcia. Partito dalla Persia, superato il Sinai, invaso l’Egitto e conquistata Tebe, sua antica capitale ridossata sul Nilo, l’esercito di Cambise, figlio di Ciro il Grande, decise di risalire a nord, passando per le oasi occidentali di El Kharga, Dakhla e Farafra e da lì, attraversando il deserto, a Siwa, per distruggere i suoi floridi commerci con Cirene e la sua rinomata tradizione oracolare, poco consona alle attitudini belligeranti persiane. Giunta a tre giorni di marcia dalla sua destinazione, l’armata, rallentata nel cammino dalla morsa delle sabbie e dai dislivelli notevoli delle dune, venne investita da un vento ustionante, l’khamsin, che iniziò a soffiare con veemenza da sud e che finì per disorientare e disidratare in brevissimo tempo tutti i reparti in movimento della milizia persiana che, costretti alla sosta forzata, subirono un progressivo indebolimento fisico ed il collasso.

Fu un’ecatombe generale, l’esercito costituito da cinquantamila tra generali, soldati, schiavi e bestie da soma al loro seguito, venne interamente annientato e completamente fagocitato dalle sabbie, senza lasciare una minima traccia del suo passaggio : era l’anno 524 a.C. e, nonostante le recenti ricerche, da allora il deserto nasconde i misteri legati a quella incredibile storia. Fortunatamente, almeno nel nostro caso – eravamo infatti consapevolmente in Egitto in un possibile periodo a rischio – il vento si placò completamente nel tardo pomeriggio, consentendoci di allontanare lo spettro delle devastazioni del khamsin e di fare tranquillamente campo a poco meno di sessanta chilometri da Siwa, tra splendide dune, fantasticando poi davanti al fuoco su quel che il destino ci avrebbe riservato di bello per l’indomani. Il giorno dopo, non senza aver scavalcato una discreta serie di cordoni di dune, approdammo nei resti di un grande insediamento estrattivo da tempo abbandonato, conosciuto come Russian’s Spring ( N28°.22,640′ E25°.56,839′ ); a terra trovammo parecchie punte e testine rotanti delle perforatrici, tubazioni e tralicci di sostegno, resti di baraccamenti, basamenti in cemento armato in prossimità di una sorgente ed una grande quantità di materiale dimesso, lasciato con assoluta noncuranza in loco, che inquinerà e deturperà, forse per sempre, il sito, lasciando impressa una indelebile cicatrice sulla morbida epidermide del manto sabbioso che la ospita. Se questo è il prezzo del progresso e dell’intelligenza dell’uomo……. Ma proseguiamo innanzi, lì vicino infatti ( N28°.23,725′ E25°.57,094′ ) rinvenimmo i resti di una carlinga completamente “cannibalizzata” di un Henkel tedesco disgraziatamente precipitato al suolo. E’ una zona in cui, infatti, a distanza relativamente breve si sarebbero potuti trovare diversi rottami di aerei tedeschi ( un Messerschmidt è lì alle seguenti coordinate N 28°.15,825′ E26°.05,228′, un altro molto più a nord a N28°.42,503′ E27°.31,490′ ), ma a noi interessava il deserto e quindi continuammo il nostro viaggio puntando Farafra che a quel punto non era più così distante. Progressivamente le dune degradavano verso un ampio altopiano, dove la sabbia cedeva il passo al ciottolato consentendoci di aumentare le medie di percorrenza fino ad una prima foratura di un pneumatico; poco grave. Dopo aver macinato, così, ben duecentosettanta chilometri, facemmo nuovamente campo a breve distanza dal punto militare di controllo del pozzo di Ain Dalla (N27°.19,278′ E27°.20,140′), che il giorno seguente raggiungemmo con facilità, insinuandoci in un unico punto di passaggio ( N27°.22,035′ E27°.14,078′) ove tutte le tracce confluivano “ad imbuto” e che permettevano di scendere dalla falesia verso il pozzo, percorrendo in discesa un budello dal fondo completamente sabbioso incuneato tra pareti rocciose che si elevavano su ambo i nostri lati. I militari al presidio di Ain Dalla furono cordialissimi e disinvolti, pur nel rispetto della divisa che indossavano e, mentre annotavano il nostro passaggio nei loro registri, noi ne approfittammo per raggiungere una fonte per rinfrescarci. Farafra era oltremodo vicina, ci separavano solo settanta chilometri, ma prima di un bel bagno ristoratore in una delle sue calde sorgenti e di un buon khebab halla dani ( carne di agnello con fave ), ad attenderci c’era un importante, indeclinabile appuntamento che con incredibile stupore si presentò ben presto davanti ai nostri occhi.

Il Deserto Bianco Il Deserto Bianco offre al visitatore il meglio della sua singolare bellezza ed i suoi aspetti più spettacolari in un’area pressappoco triangolare che si estende a nord della latitudine 27° 20.000’, fra la strada asfaltata del circuito delle oasi ed il bordo dell’immensa depressione naturale di Farafra. Non serve essere geologi per capire che qui si affronta un fenomeno naturale di vastissima scala; scendendo nella depressione repentinamente si avverte un cambiamento di scenario, qualcosa di completamente nuovo ed inaspettato che obbliga a spegnere il motore, a scendere subito dalla macchina per vedere, toccare, capire ed esplorare in ogni angolo e da ogni punto di osservazione le mille variegate forme impartite dagli elementi a suolo e rocce nel corso dei millenni. L’azione eolica erosiva ed abrasiva del vento, le alterazioni meteoriche per infiltrazione di acque, le variazioni di temperatura, hanno scolpito e modellato i calcari a grana finissima di età eocenica del Deserto Bianco, in una miriade di pinnacoli di ogni dimensione, muti testimoni degli enormi volumi di roccia asportati dal vento. Si ammirano in stupefatto silenzio archi naturali, funghi di roccia, superfici perfettamente levigate o, all’opposto, scolpite in negativo secondo vaschette ed alveoli, massi spaccati in due dagli sbalzi di temperatura, pietre minutamente disgregate o ricamate da preziose concrezioni cristalline. Diversamente dalla natura variopinta di altri deserti famosi, qui è il bianco a dominare su tutto. Ogni opera, ogni creazione di questo mondo minerale mitiga però il suo candore con infinite sfumature verso il grigio o con la lucentezza della grafite pallida, mentre il nero cupo degli occasionali noduli di manganese sparpagliati in superficie e l’ocra profondo dei lembi sabbiosi intervengono come uniche ed armoniche introduzioni di tinta in un paesaggio che rimane essenzialmente monocromatico. L’itinerario che decidemmo di seguire ci consentì, pur nella scarsità di tempo a nostra disposizione, di inoltrarci in questo eden, toccando una serie di siti incredibilmente rappresentativi di questi fenomeni geologici e ci offrì l’opportunità, inoltre, di rinfrescarci di tanto in tanto tra le acque sorgive di alcune fonti dalle quali le stesse sgorgano dal sottosuolo all’ombra di piccoli palmeti, spesso costituiti da un numero esiguo di piante, che comunque ne conferiscono un generale aspetto di piccola oasi ove ristorarsi, prendendosi un attimo di pace e di relax, mettendosi al riparo dal cocente solleone e dalla calura sprigionata dalle rocce. Chi non è rincorso dalla fretta potrà passare, così, una splendida notte a Magic Springs ( N27°.22,235’ E28°.20,878’) o nei suoi immediati dintorni, dove il deserto bianco all’imbrunire offre indimenticabili tramonti. Se, invece, avrete alle spalle diversi giorni di viaggio tra le dune del gran mare di sabbia o sarete al rientro da un’escursione nel deserto bianco, potrete farvi uno splendido bagno e trovare successivamente un comodo alloggio, a Farafra, la più piccola e forse la più graziosa delle oasi occidentali egiziane. Arrivando da Magic Springs, magari nel tardo pomeriggio, un’ora prima del calare del sole, anziché prendere la comoda strada che proviene da Bahariya, potrete oltrepassare l’asfalto e puntare subito cap 180°; quindi lasciarvi trasportare, scivolando in un paesaggio costituito da dolci saliscendi, dove le ruote, per la gioia della macchina e degli occupanti, potranno accarezzare dopo tanti giorni di duro lavoro, un soffice tappeto di sabbia consistente. Così ci si potrà tranquillamente abbandonare alle piacevolezze ed alle leggerezze che il panorama riserva, facendosi penetrare dalla sua bellezza senza curarsi della guida, almeno per i successivi venticinque chilometri, fino ad intersecare una comoda pista, ben marcata e di larga carreggiata che, presa svoltando completamente a destra, vi scorterà fedelmente fino a Farafra iniettando, è proprio il caso di dirlo, nei vostri occhi, un tramonto che non riuscirete facilmente a dimenticare. Potrete aspettare ancora un istante prima di prendere posto in albergo ( N27°.03,956 E27°.58,327 Hotel Farafra con parcheggio interno e buoni servizi ) o in campeggio, il sole non sarà ancora tramontato : attraversando tutta la piccola oasi di Farafra e, puntando sempre occidente, raggiungerete la fonte “dell’eterna giovinezza” alle coordinate N27°03,639′ E27°.55,709′, vi concederete un bel bagno ristoratore tra le acque calde e zampillanti che sgorgano copiose, per la gioia del corpo intero che, nuovamente rilassato e tonificato, ritroverà perdute energie in vista della sera e della grande notte stellata che si accenderà sopra le terrazze delle bianche case di Farafra.

Le oasi occidentali Lontano dalla Valle del Nilo, dal rumore del traffico prodotto da ogni genere di veicolo motorizzato e dagli schiamazzi dei commercianti e degli ambulanti, sempre intenti nel portare l’assalto ai numerosi turisti, si potranno percorrere itinerari alternativi che, in passato, venivano utilizzati dalle antiche carovaniere per attraversare il deserto occidentale ed i suoi silenzi e per collegare così le sue numerose oasi. Un tempo mari ancestrali, oggi fertili depressioni verdeggianti, portano ancora con sé i segni profondi delle piogge torrenziali che hanno creato una fitta rete di canalizzazioni dove oggi scorrono le calde acque sulfuree alimentate copiosamente dalle ricche falde che alimentano le oasi; e ancora si possono osservare segni evidenti di successive erosioni eoliche, inflitti dagli impeti dei venti che qui hanno modellato e plasmato la materia a loro piacimento e bizza creando funghi, pinnacoli, tappeti di bianca arenaria o interminabili dune di sabbia; e segni importanti si ritrovano nel sottosuolo, ricco di minerali non meno preziosi dei tesori che, di tanto in tanto, affiorano per lo stupore generale del mondo intero incredibilmente affascinato dall’ingegno, dall’arte e dal raffinato gusto estetico dei fasti della antica civiltà egizia. Le oasi, grazie all’isolamento, hanno conservato intatto il loro fascino; l’architettura dei villaggi, delle case, dei viottoli e dei suq è rimasta semplice, come semplice è la gente che vi abita, divisa tra chi da sempre si è preso cura della terra e dei suoi frutti e chi, invece, è dedito, da generazioni, all’artigianato ed al commercio. Siwa, Bahariya, Farafra, Dakhla e Kharga, queste le principali perle del deserto occidentale, accomunate da antiche genesi ma da storie diverse, indifferentemente sferzate dalla polvere di sabbia portata dal vento che fa brillare il verde rigoglioso delle vegetazioni ma differenti per estensione, frequentazione e facilità di comunicazione. Da Bahariya a Siwa, esfoliazioni di improbabile asfalto affiorano di tanto in tanto dalla sabbia che le ricopre, alternandosi a tratti di pista sterrata e ciottolata, mai impegnativa, comunque panoramica. Da Dakhla a Kharga l’asfalto corre parallelo alla vecchia linea telegrafica i cui pali di legno, flebilmente piegati o completamente abbattuti dal vento, disegnano un serpente che risale pendii sabbiosi incuneandosi chilometro dopo chilometro dentro la coltre sabbiosa in prossimità dell’apice delle dune per poi riemergere oltre il dosso più diritto e slanciato che mai. Da Farafra a Dakhla un nuovissimo nastro nero di asfalto si insinua, puntando mezzogiorno, tra vallate e spianate sabbiose, tra falesie e ridossi montagnosi, sostituendo il precedente, ora in disuso, quasi completamente sopraffatto dal manto delle sabbie. Oltre Dakhla si apre il grande sud, il grande vuoto, il grande deserto che esploreremo sulle tracce dei grandi esploratori che ci procedettero. Imbarcammo trecento litri di gasolio a macchina, sufficienti scorte di acqua e di viveri e, a circa sessanta chilometri a sud dell’aeroporto di Dakhla, lasciammo l’asfalto, che comodamente collega, a sud, Bir Tarfawi e Bir Sahara, per l’avventura.

Seconda giornata (trasferimento su asfalto e piste battute) ravvivata, solamente da cinque “piccole forature”. L’affidabilità delle guide ci ha permesso di assaporare lo splendido paesaggio. Particolarmente ricco di fascino è “Sugar loaf”(Pan di Zucchero), una caratteristica collinetta conica costituita da arenaria. D’altra parte: “se volete la gloria dovete passare per la vittoria”. Facciamo campo, come da programma, ad Abu Ballas: dove le anfore camminano…. Un accumulo di cocci ( Abu Ballas = Padre dei Cocci), scoperto dall’esploratore Principe Kamal El Din negli anni ’40.

La seguente descrizione di Abu Ballas è di alessandro.menardi.noguera@agip.it 17, 2001, 15.15 – Latitudine 24 26′ 22” – Longitudine 27 38′ 57”” – Collina di Abu Ballas (Padre dei Vasi), 100 Km ad ovest di Sugar Loaf, guida facile. Questa collinetta conica rappresenta una delle più banali morfologie del Deserto Occidentale d’Egitto o meglio Deserto Libico. Generate al seguito del lunghissimo ciclo erosivo che ha modellato le Arenarie Nubiane (Cretacico) affioranti su larga parte dell’Africa settentrionale, queste forme risultano così comuni che si è immaginato siano state fonte di ispirazione per i costruttori delle piramidi. L’ipotesi ovviamente non è verificabile. Ad ogni modo Abu Ballas è certamente una delle colline residuali più famose del paese poichè è stata utilizzata come un faro o segnavia naturale (alam in arabo) per un lunghissimo periodo di tempo dai viaggiatori che dall’anello delle oasi egiziane si recavano a Kufra o si spostavano verso il Gebel Uweinat. Abu Ballas mantiene tuttora questa funzione di segnavia naturale. Per consentire la traversata del deserto verso ovest fino al successivo punto d’acqua, fin da epoca molto antica venne realizzato ai fianchi della collina un deposito d’acqua (forse segreto) costituito da anfore e giare. La riscoperta di questo deposito è avvenuta nel 1917 a merito di John Ball che battezzò il sito Pottery Hill. Più tardi il Principe Kemal el Din lo rinominò col nome arabo di Abu Ballas che significa “Padre delle Giare”. Allora ad Abu Ballas c’erano numerosissimi vasi di terracotta (non si sa esattamenti quanti), alcuni perfettamente conservati come illustrato dal libro di Theodore Monod (1994) “Desert Libyque“. Attualmente… Le giare ed anfore come appaiono oggi. Il deposito di giare una volta assai ricco di Abu Ballas è ridotto ormai a pochi miseri cocci che giacciono sulla sabbia in prossimità della collina, probabilmente spostati dalla loro giacitura originaria da qualche stupido che ha cercato di realizzare una foto particolare. Il sito archeologico è così disturbato che perfino le ben ordinate fila di giare spezzate illustrate da Monod (1994) sono ormai solo un ricordo. L’infelice turista che paga alle agenzie oltre 100 USD al giorno per visitare questi posti non può che provare un certo disappunto. Le numerosissime spedizioni di archeologi che volta dopo volta hanno prelevato le terrecotte meglio preservate per le loro analisi e per riempire i loro musei hanno ridotto il sito alle attuali condizioni (Monod, 1994). I danni recenti apportati da vandali occasionali (travestiti da scienziati o da turisti?) hanno ridotto il sito alle presenti condizioni. Gli amanti del Sahara risultano pertanto privati di una visione che al momento della scoperta (Bermann, 1934) era stata interpretata secondo le parole di Erodoto (6-7,III). Il Padre della Storia aveva infatti descritto il riutilizzo da parte degli Egiziani e Persiani delle anfore Greche per costituire scorte d’acqua nel deserto lungo le traversate più difficili. Dalle datazioni più moderne sappiamo che le giare più antiche furono prodotte nel 2000 AC mentre le più recenti hanno meno di cento anni (Monod, 1994). In Three Desert (1936) C.S. Jarvis descrive il sito d’Abu Ballas come si presentava al momento della scoperta: Sul fianco settentrionale della collina notammo alcuni piccoli cerchi rossi smerigliati con la parte esposta nettamente asportata dall’azione della sabbia soffiata. I vasi erano spessi circa un pollice e costruiti con la terracotta più resistente ma la frizione della sabbia li aveva tagliati in modo netto. Il gruppo intero iniziò subito a scavare e così portammo alla luce circa 200 vasi alti tre piedi, quindici dei quali erano in perfette condizioni. Essi erano stati sepolti in file ordinate di dieci… (omissis). Alcuni vasi riportavano su di essi cerchi e quadri mentre altri riportavano un’antilope grossolanamente stilizzata, ed era ovvio che essi erano stati utilizzati nel passato per costituire un deposito d’acqua.</strong>

Impressiona il riferimento al marchio dell’antilope e ci domandiamo se per caso non fosse simile all’incisione dell’addax che si osserva sulle pareti della collina di Abu Ballas. Terza giornata: tutto scorre regolarmente, a parte le solite forature. Le Toyota 61, eccetto i copertoni, sono in buono stato. Il Frontera di Edoardo è ottimo. I piccoli inconvenienti sono rapidamente superati grazie al team dell’organizzazione. In verità, ci stanno proprio viziando. Oltre a riparare le camere d’aria ed a spingere le Toyota che, sovraccariche di benzina(!) e bagagli, talvolta si insabbiano, il team è sempre a nostra disposizione sia per montare/smontare le tende, sia per prepararci succulenti colazioni/pranzi/spuntini/cene….. E poi il panorama…………… infiniti “leoni rossi”, circa 200 piccole sfingi create dall’erosione del vento, ci assalgono a perdita d’occhio. Visitiamo antiche miniere di ocra rossa e gialla al wpt N 24 12, 300 E 27 11, 325. Infine, per non annoiarci, andiamo a caccia di raschietti in selce: trovati! Facciamo campo al wpt N 23 39, 290 E 26 35, 472 con soli 25 km di ritardo dal programma.

Quarta giornata un po’ meno tranquilla. Attraversiamo il wadi Mashi, senza grossi problemi, in direzione del passo di Acaba che non raggiungeremo poiché minato (così almeno raccontano le guide egiziane). Risaliamo il plateau del Gilf El Kebir. Il paesaggio è come nei nostri ricordi: semplicemente stupendo. Una visione infinita di dune incantate che dal Grande Mare raggiungono, senza interruzioni, l’oasi di Siwa. Ripartiamo e, per evitare una grande lingua di sabbia, ci troviamo a dover affrontare una curva ripida ed in salita. Tutto molto semplice se si potesse contare su macchine meno cariche e con maggior potenza. Il pick up con due nostre guide e che trasporta la maggior parte del carburante, perde potenza e, senza possibilità di manovra, si trova adagiato su un fianco. Attimi di tensione. Fortunatamente le taniche di benzina sono fissate bene e le guide riescono ad uscire illese. Allora tutti insieme scarichiamo le taniche e, senza l’aiuto di strops o vericelli ma solamente con la forza dei muscoli (mah!), riusciamo a raddrizzare l’autovettura. Ritrovata l’allegria, facciamo campo 1 km più a sud (N 23 35, 784 E 25 39, 548). Domani raggiungeremo il wadi Hamra e, lì, Giancarlo Negro terrà una lezione sulle pitture rupestri…… Continua la scoperta guidata dei siti rupestri. Poco dopo la partenza visitiamo un grande riparo in cui sono custoditi curiosi graffiti: un bubalus anticus che allatta i suoi piccoli. Questo riparo, unico della zona, è “posizionato in alto (50 m) sulla falesia nord di arenaria ed è di accesso alquanto difficile a causa dei grossi massi franati che ingombrano la salita. Sulla parete inclinata del riparo sono presenti piccole cavità coperte da guano, probabilmente naturali ma “migliorate” da uccelli……”

Così si legge nell’articolo pubblicato dallo stesso Negro sulla rivista “Sahara” N°7. Ci dirigiamo velocemente, grazie al terreno senza insidie fuoristradistiche, verso il Silica Glass. Visitiamo nel dettaglio un antico villaggio paleolitico dove troviamo numerosissimi manufatti in vetro libico di qualità superiore, particolarmente trasparente ed uniforme. Non contenti troviamo mole, macine, raschietti, seghetti, frammenti lavorati di uova di struzzo con il buco centrale per la realizzazione di collane, geodi, affioramenti di ferro grezzo….. insomma un’intera e vasta zona abitata suddivisa in officine litiche specializzate!!!! Giancarlo, già conoscitore del villaggio, ritrova una bottiglia di whisky nell’esatta posizione in cui l’aveva lasciata (piena o vuota???). Infine scoviamo alcuni pezzi di un strano e sconosciuto materiale/minerale nero, molto più duro del vetro, che faremo analizzare al nostro rientro. Ecco, questa è la nostra giornata, interamente dedicata al leggendario ed ambito vetro libico. Facciamo campo (N 25 48, 617 E 25 29, 650) in un canalone delimitato da due enormi cordoni paralleli di dune che, purtroppo, non ci proteggono dal vento freddo che giunge da ovest (almeno questo!). Nella zona meridionale del Gran Mare di Sabbia vi è un’ampia area ellittica pressappoco centrata alla Lat. E 25 28′ 18” e Long. N 25 32′ 12”, ampia circa 35 km in senso E-W km ed estesa 75 km in senso N-S, dove nel suolo fra le dune è possibile trovare frammenti di vetro composto quasi interamente da silice (Silica Glass Area). Questo vetro, noto come Libyan Desert Silica Glass (LDSG), si è originato per effetto di un impatto cosmico, con una meteorite o cometa. Secondo le datazioni eseguite col metodo delle tracce di fissione è avvenuto 9 milioni d’anni fa, nell’Oligocene.Il calore sviluppato dall’energia liberata all’impatto è stato sufficiente a fondere le rocce bersagliate che si suppone fossero costituite da arenaria quarzosa quasi pura. Il Libyan Desert Silica Glass egiziano è quindi definibile come roccia da impatto o impattite. Il cratere generato dall’impatto non è stato ancora identificato anche se recentemente una relazione con i crateri libici BP ed Oasis è stata proposta (Begosew et al., 1999). Al silica glass egiziano è stato dedicato nel 1996 un convegno che si è tenuto presso l’Università di Bologna (“Meeting on Silica Glass and related desert events”). Per i dettagli mineralogici e geologici si rimanda quindi il lettore interessato agli atti di questo convegno. La curiosità del grande pubblico verso questo vetro naturale è cresciuto notevolmente dopo che il geologo Vincenzo De Michele (1999) ha dimostrato che lo scarabeo del pettorale di Tutankhamon è stato ricavato da un pezzo di questo materiale e non è costituito da opale come si riteneva in precedenza. Gli antichi egizi conoscevano quindi il Libyan Desert Silica Glass o per lo meno frequentarono seppur sporadicamente il Gran Mare di Sabbia nella zona del silica glass. Grazie agli archeologi (Negro, 1992) sappiamo che gli uomini preistorici hanno usato frequentemente questo materiale per ricavarne strumenti.

Il vetro siliceo glass del Deserto Libico (LDSG), nonostante il clamoroso esempio del pettorale di Tutankhamon, non ha tuttavia la qualità di gemma che contraddistingue le preziose moldaviti (rari vetri da impatto che si ritrovano in Boemia), da lungo tempo impiegate nella fabbricazione di gioielli. I frammenti di LDSG, fuori del loro ambiente naturale, sono solo pezzi di vetro, per qualità generali non tanto migliori di volgari scorie industriali. Non si tratta di una pura considerazione estetica personale ma soprattutto di un fatto scientifico; secondo De Michele (1999) il colore del LDSG cambia dal verde-smeraldo al giallo pallido qualora si passi dal Sahara verso latitudini più settentrionali poichè la luce solare risulta maggiormente filtrata delle sue componenti a più alta frequenza.Le inclusioni di cristobalite e baddeleyite, le tracce d’iridio, nickel, ferro mangnesio contenute nel Silica Glass egiziano, la firma della sua origine cosmica (Begosew et al., 1999; Cipriani, 1999), non fa certo aumentare il valore commerciale di questo vetro. Ciò nonostante, alcuni maledetti furfanti ne hanno esportato illegalmente grossi quantitativi e cercano attualmente di venderlo illegalmente attraverso internet. Speriamo che nessuno si abbassi a comprare il LDSG. Non comprate mai il Libyan Desert Silica Glass: non ha alcun valore di collezione ed è illegale (la legge egiziana vieta l’esportazione e la vendita fossili, minerali, antichità e di qualunque cosa abbia più di 100 anni). Non date oro per comprare vetro. Si può capire il desiderio di un minuscolo suvenir per chi sia stato nella Silica Glass Area ma comprare il LDSG è francamente da stupidi CHI VENDE O COMPRA IL SILICA GLASS DANNEGGIA UNO DEI PIÙ BEI DESERTI DEL MONDO ED IMPOVERISCE L’EGITTO E GLI EGIZIANI. Gli scienziati che studiano questi vetri, per limitare gli effetti devastanti dei furti perpetrati dagli imbecilli, ne hanno sotterrato in loco una certa quantità. Il pezzo della fotografia è stato sepolto nella sabbia esattamente dove è stato trovato. Il pezzetto grande come un’unghia che l’autore della foto si è portato a casa (dopo averne seppellito un paio di Kg in posto), nella luce dell’inverno europeo è soltanto spazzatura. Nella luce purissima del Gran Mare di Sabbia i frammenti di silica glass sparsi fra le dune sembrano invece smeraldi, smeraldi speciali che ci ricordano le profondità abissali dello spazio cosmico in cui la Terra è sospesa come una palla da ping-pong. Nella luce del mattino i vetri del deserto brillano alla luce del sole come animati di luce propria ed offrono all’amante del deserto uno spettacolo unico che ci piacerebbe fosse preservato anche per le future generazioni. Seguendo i riflessi in luce radente è possibile trovare pezzi di LDSG che vanno dalla dimensione di un’unghia a dimensioni che comportano un peso fino a 20 Kg. Vederli emergere dalle sabbie è un incanto. Per cortesia, lasciate che lo spettacolo prosegua anche domani! Poco dopo la partenza un Toyota rompe il radiatore. Ma non tutti i mali vengono per nuocere, nell’ora e mezza di pausa Paolo Chiodi trova sei monofacciali paleolitici in perfette condizioni. Nessuno, comunque, rimane a mani vuote: troviamo vetro libico in abbondanza ed un fulmine pietrificato niente male. Giancarlo, negli intervalli, continua a raccontare. Clayton, De Almasy e Penderel non hanno ormai più segreti…. Raggiungiamo la zona in cui il capitano Clayton organizzò il suo campo base (N 26 57,102 E 25 27, 986) e vi seppellì gran parte dei rifornimenti. Fortuna volle che, essendo vicino al confine libico, gli italiani scoprissero il tutto e … non avanzò più nulla. Clayton ci rimase male! Da qui ci spingiamo tra i canaloni, formati dai cordoni di dune e con fondo a “dorso di balena”. Incominciamo a scavalcarli uno dopo l’altro e ci immergiamo in un paradiso che è la sintesi tra l’erg Chech algerino e l’erg di Rebiana libico. Il divertimento è immenso. In lontananza adocchiamo due autovetture libiche che, probabilmente, fanno contrabbando tra l’oasi di Jarabub e di Dakla. Alla fine giungiamo in una zona denominata da Clayton come “Liquid sand”, poiché, secondo lui, è possibile impiantare un palo lungo 2 metri senza alcuna fatica. Non sappiamo se questo sia vero, certo è che la sabbia è talmente soffice che impieghiamo più di un’ora per recuperare una macchina insabbiata… Facciamo campo. (N 27 55,102 E25 27,986).

Ripartiamo in direzione nord per altri 20 chilometri fermandoci al wpt 224, dove lasciammo le macchine e risalimmo a piedi una piccola collina sulla cui sommità osservammo delle particolari rovine a forma circolare in pietra, probabili resti di capanne. Un’altra sosta ci fu imposta al wpt 225 dove, tra le figure rappresentate sulla roccia, potemmo riconoscere perfino degli ippopotami, una presenza inimmaginabile ai nostri giorni. Al calare del sole ci dirigemmo verso l’uscita del wadi, uno strano riflesso attirò l’attenzione di uno dei nostri autisti, che cambiò repentinamente direzione di marcia, puntando due sagome di automobili avvistate all’orizzonte. Riconobbe in esse, come ci raccontò poi, delle macchine di bracconieri libici: essi, sconfinando illegalmente, cacciano di frodo in questi territori gli ambitissimi falchi che, sopravvivendo a climi così estremi, risultano essere animali particolarmente robusti ed ambiti dagli arabi sauditi, disposti ad acquistarli a prezzi che sul mercato variano da 10.000 a 15.000 US$. Al mattino seguente arrivammo al wpt 236, per l’ultima arrampicata, raggiungendo un riparo, unico nella zona, posizionato sulla falesia a circa 50 metri di altezza, di accesso alquanto difficile a causa dei grossi massi franati che ostacolavano la salita, nel quale ci si riproposero ulteriori graffiti. Sulla parete inclinata del riparo stesso erano presenti piccole cavità coperte da guano, probabilmente naturali ma “migliorate” da uccelli……” Così si legge nell’articolo pubblicato da Giancarlo Negro sulla rivista “Sahara” N°7. www.saharajournal.com , presente in questa seconda spedizione del 2002.

Tempeste di sabbia, l’ Khamsin

In Egitto è noto anche con il nome di Simùn, impropriamente anche come Ghibli. E’ un vento che spira da sud e che genera tempeste di sabbia frequentemente nel periodo primaverile, da marzo a giugno, causate dallo spostamento in direzione nord-est del sistema di bassa pressione presente in Sudan. Preceduto da un tramonto infuocato in un contesto di generale bassa pressione, il giorno seguente l’Khamsin si presenta in forma di ammasso cumuliforme di nuvole cariche di sabbia e polvere che oscurano il cielo accompagnate da ingenti fenomeni elettrostatici dovuti allo sfregamento dei granelli in sospensione. L’aumento della temperatura atmosferica è notevolissimo ed improvviso ( + 8°/11°C. rispetto alla media stagionale ), scendono per contro i valori di umidità relativa e talvolta si assiste alla caduta di qualche grossa goccia di pioggia gelida. Il nome deriva dalla radice araba che indica “cinquanta”, tanti infatti sono i giorni che può durare e altrettante possono essere le ore di massima propagazione concentrata del fenomeno. La visibilità si riduce a pochi metri fino a scomparire, la temperatura si eleva considerevolmente generando affaticamento alla respirazione, intasamento delle mucose, aridità della pelle, abbassamento e frattura della temperatura corporea, turbamenti cerebrali e di natura nervosa che ingenerano sfinimento e talvolta alterazioni profonde delle facoltà mentali date anche dalle scariche magnetiche che si diffondono nell’atmosfera rendendo le superfici attive di cariche elettrostatiche. Al suo passaggio l’khamsin provoca conseguenze devastanti cambiando fisionomia al paesaggio, alle dune, anche le più, essiccando ed estirpando, la scarsa vegetazione, ricopre i pozzi e le sorgenti, soffoca indistintamente animali e uomini che, se esposti per lungo tempo al fenomeno, possono trovarne infine la morte.

A quel punto i pensieri erano concentrati altrove, esattamente ad un sito distante un centinaio di chilometri più a nord, dove tra splendidi corridoi interdunari, che avrebbero permesso di risalire con relativa facilità il Grande Mare di Sabbia in direzione di Siwa, si concentrava in grande quantità un prezioso, quanto misterioso, giacimento di Silika Glass. Lo raggiungemmo, lo esplorammo, scrutando con attenzione ogni centimetro del terreno fino al momento di schizzare fuori dalle macchine dopo averne individuato dal finestrino diversi frammenti di materiale che, raccolti e tenuti finalmente tra le mani, furono successivamente osservati compiutamente, interponendoli controluce tra il sole ed i nostri occhi, ammirandone la composizione e le trasparenze, coronando così felicemente un altro sogno rimasto aperto già nel lontano 1999. Circa 400 chilometri di deserto, il Grande Mare di Sabbia, separavano ancora il Silica Glass da Siwa, nostra destinazione finale. I cordoni di dune, perfettamente allineati gli uni agli altri, erano maestosi e la loro disposizione in senso longitudinale consentiva di mantenere medie di percorrenza discrete, percorrendone i gassi dal fondo ghiaioso, consistente e complanare. All’aumentare della latitudine, questa disposizione ordinata veniva progressivamente meno, le dune tendevano a confluire caoticamente, intrecciandosi tra loro, finendo così per ridimensionarsi ed esaurirsi in altezza, lasciando il passo a lunghe onde di sabbia a cui Ralph Alger Bagnold diede il curioso ma evocativo nome di “dorso di balena”. In corrispondenza del wpt 284, sopra una collinetta, una balise ci indicò che l’altura era interamente coperta da legno fossile. Un’altra balise, costituita da un cumulo di pietre, la ritrovammo successivamente al wpt 292: approdammo al cosiddetto Big Cairn che localizzava il campo del capitano Patrick Clayton del Long Range Desert Group. Più avanti raggiungemmo una zona denominata da Bagnold come “Liquid sand”, poiché, secondo quest’ultimo, sarebbe stato possibile piantare un palo lungo due metri senza alcuna fatica. Non sappiamo se tutto ciò corrisponda al vero, certo è che in questo punto la sabbia era talmente soffice che impiegammo più di un’ora per recuperare una macchina insabbiata, una fatica sicuramente minore rispetto alla tristezza e alla desolazione lasciata sul terreno di ciò che restava di un ulteriore campo di prospezione petrolifera, sito poco più a nord. Successivamente il paesaggio iniziò a mutare, affioramenti di roccia bianca e aree di legno fossile diventarono più frequenti. Oramai eravamo giunti a Bir Waed, un laghetto artificiale di acqua calda con tanto di campeggio e ristoro, che preannunciò l’arrivo a Siwa; l’oasi si intravedeva già da molto lontano, sulla linea dell’orizzonte che sembrava il mare, essendo circondata com’era da un immenso specchio di acqua salmastra con alcune porzioni di terra emersa che assomigliavano a isolotti. Sembrava un miraggio, ma in realtà corrispondeva alla meta di questo nostro grande, incredibile viaggio. Manca qualcosa, potrà obiettare qualcuno : …. e di Zarzura, delle sue leggende, che ne è stato? Almasy la individuò, come già detto, nel lontano 1933, con una missione terrestre supportata dall’aiuto di Penderel che con il biplano Moth ne solcava i cieli. Potremmo noi pensare di fare altrimenti, contravvenendo al divenire degli eventi ed ignorando le pagine della storia? Settantant’anni dopo, i nostri preparativi per raggiungere Zarzura con una spedizione che ne ricalchi fedelmente gli avvenimenti, sono in avanzata fase di realizzazione !

Ultimo giorno di viaggio. Il trasferimento fino a Bir Whaed è stato fin troppo semplice. No forature (!), no insabbiamenti, no saharite. Unici passatempo sono stati i legni fossili ed i fondali di conchiglie e coralli che hanno fatto da balise al nostro saluto al Grand Sand Sea. Il tutto sempre condito dai ricordi e le lezioni storiche di Giancarlo. Non dimentichiamoci, infatti, che qui siamo nella terra del Long Range Desert Group: un gruppo di neozelandesi a servizio dell’Inglese Clayton che pattugliavano la zona a caccia di Tedeschi ed Italiani. E ancora…… E ancora…….. Giungiamo a Bir Wahed nel primo pomeriggio ed incontriamo i motociclisti di Picco che da più di un giorno cercano di riparare il camion d’appoggio. Bir Wahed è il risultato di un infruttuoso tentativo di ricerca petrolifera. Ora il gruppo si divide. Una parte fa campo al pozzo, un’altra parte si spinge fino alla vicina (20 km) oasi di Siwa. Così, già che ci siamo, visitiamo il tempio dedicato ad Ammone, i bagni di Cleopatra, il souk e (perché no?) la doccia dell’albergo ed il ristorante con il solito pollo.

Dalle principali città dell’Egitto alle oasi occidentali, dai siti archeologici del Basso e dell’Alto Egitto ai monasteri cristiani, dalla Nubia al Mar Rosso. Una guida completa che approfondisce in modo molto preciso tutti quei luoghi che hanno fatto dell’Egitto una delle mete turistiche più gettonate al mondo. Un’attenzione particolare è stata dedicata all’analisi della parte archeologica con una descrizione accurata e molto dettagliata accompagnata dall’inserimento di disegni, mappe e cartine per agevolare la visita dei siti più o meno importanti del paese: dalle piramidi di Saqqara e Giza alle necropoli di Menfi e Tebe; dalle tombe della valle dei re e delle regine ai templi di Dendera, Tell el Amarna, Abydos, Luxor, Karnak; dallo splendore di Abu Simbel alla magia di Assuan; dai templi di Edfu ed Esna a quello di Kom Ombo. Sono state pianificate le visite delle città e dei principali musei con un occhio di riguardo per quello archeologico del Cairo per il quale viene descritto ogni piano nelle sale principali con un approfondimento dei reperti più importanti. Ma l’Egitto non è solo archeologia, ma anche natura. Le oasi del Fayum, nel deserto occidentale, tra le più affascinanti e meno conosciute del nord Africa: Siwa, Farafra, Dakhla, Karga, Bahariya. I monasteri cristiani: da quelli meno famosi di Sant’Antonio e San Paolo sulla costa occidentale del Mar Rosso al famossimo Convento di Santa Caterina nella penisola del Sinai la cui visita si accompagna alla imperdibile ascesa del Monte di Mosè. E infine il Mar Rosso con i suoi memorabili fondali ricchi di coralli e fantastici pesci multicolori vero paradiso per i sub e anche per coloro che si vogliono rilassare nelle accoglienti località turistiche della costa. Il tutto nello stile classico delle guide Polaris: molte figure, cartine, box per approfondimenti culturali, curiosità e racconti di esperienze vissute.

 

 

 

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