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Lettera da Agadez

– Posted in: Cultura, Recensioni

By Sahara.it
Originally Posted Friday, March 4, 2011

Autore: Emilio Borelli

Titolo: Lettera da Agadez – racconti sahariani

Pagg.: 216

Prezzo: 13 euro

Collana: Per le vie del mondo

Uscita: Marzo 2011

ISBN: 978-88-6059-069-5

Il testo: Sono storie di deserto e di Africa, immagini accese dai mille soli tutti diversi che ogni giorno illuminano quelle contrade di colori sgargianti. Ognuna delle regioni in cui si articola il grande continente nasconde magie che si rivelano ai suoi corteggiatori più ostinati. Emilio Borelli è evidentemente uno di questi soggetti, perennemente irrequieti, cui si confà un rapporto sempre più viscerale con quelle regioni. Profondo conoscitore della storia del maghreb, disinvolto e fedele frequentatore di quei paesi, riesce a ricreare per noi quelle atmosfere lontane stimolandoci a riflessioni tutt’altro che banali attraverso le tappe del proprio personalissimo percorso fatto di esperienze sul campo, di imprevisti, di incontri talvolta dal sapore biblico che ci troviamo a condividere grazie ai suoi racconti, intimi e coinvolgenti quasi davvero li ascoltassimo accovacciati attorno al fuoco sotto le migliaia di stelle del firmamento sahariano.

L’autore: Sono quasi trent’anni che Emilio Borelli, classe 1955, ha iniziato il suo lungo viaggio – in più tappe – attraverso l’Africa ed in particolare attraverso il Sahara. Allora appena più che venticinquenne il riccioluto studente di Architettura aveva iniziato ad attraversare quelle regioni a bordo di un land rover di quinta mano collezionando imprevisti e scoperte. Ancora oggi il suo viaggio continua, sempre aggiornandosi di interessi e definendosi nuovi obbiettivi. Dalla sua notevole confiance con il deserto e la sua gente ha iniziato nel 2004 ha trarre gli spunti per la regolare pubblicazione del calendario fotografico Ambiance e nel 2007 ha pubblicato “La notte al Sahara è cielo” la sua prima raccolta di racconti di viaggio. La collana: per le vie del mondo raccoglie racconti e resoconti di viaggio, esperienze vissute da viaggiatori di ieri e di oggi lungo le strade, reali o immaginarie, in ogni angolo della Terra. Deserti, foreste, montagne, ma anche villaggi, città, metropoli sono gli scenari in cui si muovono gli autori di questi volumi riportandoci le loro storie e le loro emozioni.

 

Prefazione

di Ahmed Habouss *

Il Sahara evoca emozioni, sensazioni forti al cospetto dell’immensità di uno spazio geofisico – e per certi versi metafisico – che impone rispetto e suscita inquietudine. Il Sahara è il luogo per eccellenza di tante fascinazioni che continuano ad alimentare l’immaginario collettivo e a far sognare milioni di persone nel mondo.

Ma perché il Sahara, un luogo così aspro, ostico, che non si concede alla prima, ammalia così tanto e da sempre?

La risposta è allo stesso tempo semplice e complessa: perché rappresenta una sfida continua. E che il termine sfida non tragga in inganno, non è alla sua definizione più risaputa e futile che mi riferisco, ma alla più nobile. Infatti la realtà del deserto riassume ed esalta la prodigiosa capacità dell’uomo non solo di adeguarsi a condizioni di vita difficili ma anche di creare un mondo abitabile ed adattabile ad una vita collettiva.

Il nomade sa convivere, in buona intelligenza, con il suo habitat naturale, dando luogo ad una vita comunitaria, ad un’esperienza ricca di conoscenze ecologiche ed etologiche, ispirate al mondo vegetale ed animale.

Inoltre il nomade si arricchisce, nel suo percorso esistenziale, di conoscenze e di savoir faire che si rivelano utili e insostituibili per vivere e sopravvivere ai margini di un ecosistema ostile.

In breve, da tutte queste esperienze, il nomade sa rielaborare una cultura del vivere, dell’orientarsi e soprattutto ha da sempre una capacità di adattamento invidiabile in un contesto ecologico e geologico così particolare e difficile da addomesticare. Quindi nel deserto, le regole sono di un’altra natura: la parola d’ordine che prevale in senso assoluto è “adeguamento”, sia che si tratti di piante, di animali o uomini. Adeguamento in primis alla scarsità d’acqua, alla siccità, alla catena alimentare legata ai bisogni da soddisfare ed a un modo di vita da far perdurare con genio e concretezza. Come amava dire Théodore Monod: non si ripeterà mai abbastanza che i deserti sono prima di tutto le regioni in cui il clima insedia la siccità; eppure i deserti un tempo erano delle savane circondate da laghi e fiumi!

Il nomade si sposta con maestria fra diversi spazi: geografico, linguistico, sociale, simbolico e spirituale. Viaggiare non è riducibile solo ad una traslazione fisica e geografica, nello spazio esistono anche altre forme e modalità dello spostarsi: si può viaggiare con la mente, con l’immaginazione e con la fantasia.

Esiste anche un’altra accezione del muoversi che è tipica di quelle latitudini: nella quotidianità, – senza clamori – per la ricerca del bestiame o dell’acqua si percorrono lunghi tragitti che non sono considerati alla stregua di viaggi, ma delle faccende ordinarie da compiere.

Siamo di fronte a realtà significative costituite da macro popolazioni distribuite su uno spazio immenso in cui si notano modelli d’umanità ridotti che spesso raffigurano dei microcosmi sparsi a macchia di leopardo nel grande deserto. A dispetto di condizioni di vita difficili queste popolazioni hanno saputo riprodursi e rinnovarsi adattandosi in continuazione: una sopravvivenza messa a dura prova e in continuo pericolo. Addomesticare quel poco d’acqua a disposizione – o meglio, al contrario, mettere a disposizione dell’acqua il lavoro dell’uomo – tramite un sistema di drenaggio che richiede una manutenzione continua, ha permesso di dare vita ad una ricchezza collettiva, di mantenere un patrimonio comune e con esso sviluppare un senso di solidarietà. L’etno–antropologo ama dire che un nomade non è necessariamente un viaggiatore ed inversamente un viaggiatore non è per forza un nomade come è inteso nella cultura occidentale.

Nella cultura desertica prevale il gruppo sull’individuo per la salvaguardia del bene comune: in tale senso l’azione di viaggiare per i nomadi deve includere anche altre necessità d’ordine economico, politico, sociale, culturale, psicologico e religioso.

Il libro di Emilio Borelli è per l’appunto un caleidoscopio straordinario di frammenti di vita che ci aiuta ad esplorare il Sahara nella sua ricchezza e diversità e sotto più aspetti. Molti, moltissimi hanno già scritto – e bene – sul deserto e del deserto, le sue pagine tuttavia sono uno strumento nuovo, non si limitano a fotografare un episodio, non cercano referenze, non ci rimandano a citazioni o a stereotipi, ci conducono piuttosto per mano con naturalezza in atmosfere che egli crea dense di sensazioni e di segnali che poi, da soli, dobbiamo saper cogliere anche epidermicamente ed interpretare. Non si autopropone come una lettura etno-antropologica e scientifica ma quale semplice carnet de bord, dei promemoria, acquerelli di emozioni, situazioni e riflessioni non banali, originali e pieni di interessi e di curiosità. I vari testi che compongono questo libro possono discretamente fornire qualche suggerimento interpretativo in caso di un viaggio nel Grande Sahara, viaggio e Sahara che per l’autore – per l’appunto – non sono costituiti solamente da solitarie randonnée e bei panorami. E’ ben altro, ed i riferimenti e le digressioni su aspetti affatto secondari della realtà dei nostri tempi, delle culture e tradizioni lontane, ci danno la caratura del rapporto che esiste alle radici anche tra realtà all’apparenza tanto differenti. Quindi fra le righe suggerisce anche altri approfondimenti, altri viaggi, sono riflessioni – tanto dirette quanto originali nella loro lineare semplicità – su quelle realtà, quelle delicate situazioni spesso sottaciute, di frequente male interpretate e ancor peggio tradotte e divulgate, che hanno come argomento cardine il rapporto con culture diverse. E’ qua che dalle sue pagine svanisce ogni residuo di pur legittima vanità e lo sguardo spazia – davvero – verso orizzonti lontani.

Il linguaggio, spesso colorito, non appare mai privo di quella sincerità autentica e un po’ ruvida, e di passione per il deserto, e l’Africa. Per chi ama scoprire il Sahara in modo non convenzionale e fuori dai sentieri tradizionali del turismo, questo è il testo adatto per assaporare atmosfere e sensazioni non usuali. Chi ama vivere momenti particolari, sensazioni, stimoli per la mente, può trovarvi utili suggerimenti che vanno al di là dei consigli pratici di una qualsivoglia guida o reportage di viaggio.

Non è facile esplorare e scoprire nuovi orizzonti quando siamo figli di un altro sistema culturale, con i suoi codici, i riferimenti completamente diversi da quelli sahariani. Tutti quanti abbiamo alle spalle un retroterra culturale che può costituire una barriera fra noi e gli altri. In questo caso Borelli – che con spavalda autoironia confessa di trovarsi estremamente a proprio agio quale ospite in quelle regioni – ha cercato di capire l’altro, il diverso. E’ qua che il viaggiatore si è, per così dire, trasformato, è entrato in relazione con lui in un raro avvicendamento di ruoli, spesso ne ha condiviso – con naturalezza e con evidente piacere – gesti e momenti di una quotidianità che ha pochi punti di contatto con quella europea. E’ il suo un atteggiamento spregiudicato, nell’accezione di scevro da pregiudizi, che sicuramente è servito a fargli acquisire una più solida conoscenza di una civiltà così lontana dalla sua e con la quale, senza timidezza alcuna ma con l’evidente rispetto che è dovuto agli ancêtres, non cessa di confrontarsi nel corso dei suoi approcci, indipendentemente dal fatto che questi siano originati da un viaggio di studio piuttosto che di piacere, da una ricerca archeologica piuttosto che da una festività o ricorrenza in casa di amici. Amici, si, perché nel corso di questi viaggi si creano dei legami, si stringono amicizie; anche se talora si hanno limiti linguistici, è a livello di pelle, a livello di empatie istintive che si inizia a relazionarsi.

I testi di Borelli sono anche divertenti perché resi più salaci da quel tocco di ironia fiorentina che non guasta specialmente se abbinata all’evidente familiarità con un lessico ricercato che rende ancor più intrigante e stimolante la lettura di queste pagine. Questo carnet de bord è agevole per decifrare luoghi, situazioni, usi, tramite un’impostazione soggettiva, figlia di sensazioni e di intuizioni capaci davvero di trascinare il lettore a viaggiare mentalmente e fisicamente alla scoperta di orizzonti nuovi, pieni di vita e di esperienze, in un momento in cui l’uomo, ed in primo luogo l’europeo, è travolto dalle incertezze e dalla continua messa in discussione dei punti cardine di un sistema di sviluppo.

(*) Ahmed Habouss, nato nel 1955 in Marocco, a Tanalt, regione di Agadir Sous, socio–antropologo ed economista presso l’Università degli Studi di Napoli l’Orientale, è da molti anni cittadino italiano.

Nota dell’autore

“…che amore può essere se non c’è qualche dolore, qualche incomprensione, qualche disillusione, se manca un qualche corteggiamento? Che donna sarebbe, altrimenti, questa grande Africa?”

“…Perché quaggiù ci si muove, ci si sposta, anche senza un obiettivo preciso. Ma non senza una ragione. Ci si sposta perché l’opportunità può essere altrove che non qua dove ti trovi…e se non ti sposti non la puoi incontrare”. In queste due frasi molti concetti, ma, oggi, non solo quelli che ci appaiono – poetici, leggendari e senza tempo – rappresentativi della figura del nomade, almeno nell’iconografia che ce ne viene tramandata da molta letteratura.

Piuttosto, ai giorni nostri, il riferimento è a quelle migliaia di sconosciuti reietti che vagano senza una prospettiva concreta tra una nazione ed un’altra, loro si, letteralmente – e poco romanticamente – “insabbiati” tra linee di confine situate in luoghi improbabili, quei luoghi dimenticati dal nostro Dio più clemente e governati da un’asprezza che a pochi di noi è stato dato di toccare con mano. E’ la variabile, cruda, spietata, apparsa da qualche anno a modificare, o meglio a contaminare, quegli orizzonti finora altrimenti cantati e descritti da poeti e poeti/viaggiatori, quei luoghi di stelle, di solitudini e di occasionali incontri di sapore biblico cui dedicavamo la parte più bella, più disponibile e ricettiva del nostro essere e del nostro – scarso – tempo libero.

Più di una volta abbiamo incontrato questi viandanti su percorsi fuori rotta per noi, per i nostri itinerari spensierati, li abbiamo veduti affollarsi su camion zeppi di merci e vettovaglie, piccoli ostelli itineranti carichi di gente ed illusioni. Ci siamo talora quasi vergognati del confrontare con la loro speranzosa transumanza il nostro girovagare, la nostra presenza – comunque oziosa – a quelle latitudini. I nostri sguardi si incrociavano, i nostri cenni di saluto – spontanei ma lontani, da un pianeta diverso – erano comunque schietti nella reciproca consapevolezza dell’abisso incolmabile di certezze e di disperazione scavato a dividerci, sincera era l’asprezza di quel ciai talora offertoci alla sosta per la gueila, all’ora bruciata in cui la posizione del sole rende illeggibile la sabbia davanti a te, magari in corrispondenza di un qualche difficile valico di dune, qualche luogo bellissimo e maledetto in cui tuttavia i nostri pianeti tornavano ad essere vicini.

E noialtri, tutti, tornavamo ad essere fratelli.

Già, perché fratelli lo siamo o lo siamo stati magari per davvero, in un altro tempo. Fratelli.

Un unico ceppo in tutta apparenza fratturatosi forse un giorno in due gruppi, l’uno incamminatosi dalla terra di nascita verso altri orizzonti?

E via su una pista sconosciuta, vergine, con lo sguardo teso a cercare un passaggio per le mandrie tra i mari ed i laghi che li circondavano1, legata in vita una faretra di rozze frecce dalla punta di selce, con la guerba colma dell’acqua di una pozza dimenticata, col passo appesantito dalla nostalgia, ma con troppe incombenze per stare ad assaporare il languore del distacco, l’altro gruppo rimasto là, con il rimpianto ma stavolta della partenza mancata, un rimpianto da qualcuno esorcizzato nelle continue transumanze o da un atteggiamento nomade.

Alcuni quindi rimasti laggiù, altri partiti, lasciandosi dietro su rocce e dirupi una scia di piccole tracce dipinte, graffiate, memoria per gli altri, forse come segnali, come un invito, come un diario, ora mappa, ora un inventario.

Oppure, ancora, quelle che appaiono letture logiche delle tappe di un percorso evolutivo, sono soltanto la trasposizione della logica stessa da strumento – quale essa è, mezzo tecnico, strumento per analizzare – a una sorta di verità definitiva essa stessa? Voglio dire, le risposte evoluzionistiche non saranno per caso divenute una troppo facile e definitiva soluzione ai tanti interrogativi cui la logica stenta a dare esiti concreti? Ed ancora, il concreto a queste latitudini si materializza davvero fisicamente come noi siamo abituati a concepirlo?
Su queste pareti disponiamo di una mappa affrescata che oggi noi ci troviamo a ripercorrere sugli itinerari di tanti viaggi, in compagnia di questi progenitori, una mappa formata di atmosfere, energie, con cui talvolta riusciamo ad entrare in contatto, che talvolta abbiamo avuto la fortuna, il privilegio, di percepire.

Privilegio, sì, che abbiamo avuto ed abbiamo ancora. Concedetemi questa piccola vanità.

E quanti dei profeti avranno anche loro trovato compagnia nelle figurette “arrampicate” sulle rocce, nel corso delle loro ascensioni a qualche vetta isolata? E non mi stupirei se uno a caso fra loro avesse sviluppato proprio davanti a queste piccole articolate memorie l’embrione di una propria idea politica di riaggregazione delle tante tribù, tra loro ostili, in cui si frastagliava quella sospettosa umanità delle praterie, giungendo forse a mutuare in un istintivo sincretismo il gesto a braccia alzate degli innumerevoli “oranti”2 ed abbinandovi quell’invocazione che da elementare e prono atto di fede diverrà in seguito orgogliosa proclamazione di appartenenza.

Una idea di appartenenza che spesso – oggi – sfocia nell’annullamento, inteso come adesione totale, come risultato di una fascinazione, tanto più profonda in quanto va ad interessare individui che dell’ambito spirituale, delle energie che ad esso afferiscono hanno ormai nemmeno un vago ricordo, sopito da decenni di prevalenza del positivismo più arido. Questa società non possiede nulla che le permetta di riconquistare colui che viene affascinato dal fervore e dalla profondità di questa religiosità, è anche per questo che a livello emotivo spesso il turista viene letteralmente umiliato dalla frugale fede del beduino che si prostra davanti al calasole.

Forse anche perché siamo alla fine del fiume, per usare una frase celebre, una collettività rimpinzata di consumismo, di certezze effimere ed acquisite senza una preliminare disciplina e

1 Per i nomadi Peul le origini dei bovidi sarebbero nell’acqua che questi avrebbero abbandonato in un progressivo processo di domesticazione per legarsi all’uomo.

2 Quella dell’ “orante” per figure a braccia aperte è una facile, consueta, forse finanche abusata definizione, basterebbe pensare ad esempio alle figurazioni funerarie di tante culture per suggerire – forse – differenti ipotesi, senza contare i riferimenti ad Orione.

Che all’improvviso si scopre affamata di spiritualità, di riti che va ad elemosinare in casa d’altri, sotto soli e lune diversi, del tutto dimentica di quelle spiritualità, di quei miti, di quei riti – peraltro analoghi – che le erano propri.

Ma non è l’emotività né il sentimentalismo che viene ad innescarsi in questi luoghi, in certe circostanze; sono forze cui non siamo abituati a relazionarci, non più o almeno non automaticamente.

In quelle valli tra falesie sterili e calcinate hanno camminato pastori e profeti, briganti e, perchè no, profeti briganti, poiché il brigante cos’altro è se non il genius loci, l’autorità patriarcale territoriale, la materializzazione dello spirito protettore dei luoghi, in qualche misura depositario di riti, l’amusnaw, colui che sa, il moniteur – per dirla alla francese – il maestro, il vecchio maestro dei pastori della montagna.

Più di una volta, ai margini del Tafassasset, al cospetto dei grès patinati da acque ruscellate via ormai da millenni, nelle sabbie che si impennano verso altri nascosti varchi di improbabili confini, abbiamo incrociato un unico binario di tracce profonde, solcate da qualche camion solitario.

Una volta, nei pressi dei bastioni formidabili di Orida, incuriosito, seguendole ho trovato un camion arrampicato in posizione impossibile su un ripido crinale che, spegnendosi direttamente contro una parete rocciosa assolutamente verticale, non conduceva assolutamente a nulla. Accovacciati tranquillamente intorno al veicolo, a consumare un estemporaneo spuntino, mi salutavano alcuni dell’equipaggio, concorrenti della grande gara motoristica nel deserto, nell’insieme curiosa metafora – nel regno del tempo e della materia nativa – della fretta e della tecnologia.

Incontri differenti, come differenti sono tutti i passaggi della nostra vita, facilitati e resi più disinvolti – meno compromettenti? – dal viaggio, approcci talora frettolosi ma mai superficiali, perché ogni incontro, ogni conversazione, origina sempre una nuova conoscenza, di persone, di luoghi, sensibilità, storie.

Questa raccolta, che abbraccia un arco temporale di quasi trent’anni, è volutamente dedicata in massima parte al grande deserto, è interamente imperniata su storie sahariane non necessariamente correlate l’una all’altra, anche se in realtà è ovvio vi sia un seppur inconscio filo conduttore, sono storie che ognuno di noi può aver vissuto personalmente quanto ad analogie, dettagli, luoghi che torneranno alla mente seguendone una descrizione. Anche perché probabilmente le nostre strade si saranno incrociate – in pista – chissà quante volte. E non è possibile sia altrimenti perchè sull’hammada, ognuno lo sa, è la regola base, immutata, dei tropici nell’epoca del motore, le tracce vanno incrociate di continuo in quell’infinito zig zag che non ti fa innamorare di un solo tracciato ma ti porta a far la media tra tutti…

E’ così che abbiamo – in un modo o nell’altro – seguito altre orme, di chissà quanti viaggiatori ben più blasonati di noi; e anche se, no, non ci siamo visti in faccia, noi c’eravamo, è questo che – in ultimo – conta. E, se è vero che al Sahara le tracce restano impresse anche per anni, allora forse anche l’ombra del nostro passaggio è ancora là, confusa a chissà quante altre, sovrapposta a quelle di distratti turisti, incrociata a quelle di archeologi famosi od oscuri pastori di ritorno a qualche dimenticato djebel.

Cesare Ottaviano Augusto, primo imperatore di Roma, esclamava ho veduto le ricchezze delle reggie d’oriente mentre sceglieva i marmi di Numidia e metteva in cantiere le bellezze architettoniche della capitale dell’impero. Lo zio Giulio Cesare lo aveva inviato fin da giovanissimo in missioni lontane. Aveva viaggiato e ne aveva tratto ricchezza interiore.

Tutti, a modo nostro, abbiamo viaggiato.

L’importante è che sia stato viaggiare a modo nostro.

L’importante è che sia a modo nostro.

Io lo sto ancora facendo.

E sto ancora scrivendo e sono felice di farlo, in primis per me poiché rinnovo continuamente tanti momenti vivi, poi per chi avrà il piacere di leggermi, ed infine perché come già ebbi modo di esprimere nella prefazione del mio primo libro in qualche modo sento di dover partecipare tutta una serie di sensazioni ed esperienze a chi non ha avuto l’opportunità di vivere certe situazioni. E non solo in ossequio al principio secondo il quale per apprezzare a fondo una gioia bisogna avere qualcuno con cui dividerla (Mark Twain), certe situazioni avrebbero potuto far capire meglio e prima tante realtà, che ci riguardano direttamente anche se paiono così remote. Non é atteggiamento insolito o stravagante, ricordo che una tale sottesa responsabilità personale è condivisa da molti viaggiatori, per chi non può proprio fare a meno di referenze e griffe ne cito un paio a caso, Antoine de Saint Exupéry e Thierry Monod. Ça suffit?

Viaggiando, e particolarmente viaggiando in regioni tanto particolari, viaggiando non irreggimentati in comitive numerose che per tale motivo devono giocoforza venir “pilotate”, dovendoci arrangiare spesso e confrontare sempre, con quelli che sono veri e propri mondi paralleli, siamo stati sovente testimoni di quello che altro non è che il perpetuarsi della tratta degli schiavi; abbiamo parlato con individui che del nostro modo di vita avevano una visione distorta ed idealizzata. Ma ritornati nelle nostre città, non appena i nostri racconti deviavano dal clichè di cieli stellati e dune cantanti, eravamo visti come fanatici di viaggi impossibili, un po’ come l’astronomo turco del Piccolo Principe non venivamo presi sul serio, non avevamo voce per riportare di queste cose; né più né meno che le figurette dipinte sulle pareti di qualche falesia sperduta potevamo solo alzare al cielo le braccia, muti.

Come per quelle figurette antiche, studiate ed analizzate geometricamente a tavolino, ridotte spesso a insulsi dati statistici stampigliati su schede destinate a coprirsi di polvere, pochi si prendevano la briga di chiedersi cosa c’era dietro ai nostri racconti, i più ricordavano soltanto di qualche copertone riparato fortunosamente, o ancora di qualche bel tramonto, di qualche marachella in frontiera. Poco importava loro della conversazione con uno sconosciuto gommista, sorridente nel suo loculo reso bigio dalla scoria di pneumatici, intento a ricucire – proprio così, a ricucire, con ago e cordino, come un velaio a Punta Ala – il fianco di un radiale, con rare pause per ricordare di un incontro di tanto tempo prima con un altro italiano che aveva riparato proprio da lui la gomma di un camion.

Memorie di pista, incontri che non si dimenticano, in una quotidianità fatta di gesti semplici. Umani.

Uno dei più bei ricordi è il bimbetto nero, testa rasata e ispido ciuffo intrecciato all’uso dei tuareg, al bordo di una pista calcinata, con la sua stagna imballata nella iuta, ancora zuppa dell’acqua di cui gli avevo fatto dono. Pochi litri d’acqua: la vita, l’essenziale; la iuta bagnata: il refrigerio, il lusso sfrenato. Vi capita mai di chiedervi che fine avrà fatto, che vita avrà vissuto, quel lontano incontro, irripetibile, di venti anni prima?

A noi il vivere queste esperienze è servito, in più la nostra testimonianza sarebbe stata forse preziosa.

Sicuramente non ci sono accadute cose banali e il caso (se vogliamo chiamiamolo ancora così) ci ha più volte proposto una chiave di lettura antica, ci ha proposto una soluzione meno tangibile, invisibile, ma non per questo meno reale.

Ma quello che è più importante è che talvolta i luoghi, quei luoghi, ci hanno parlato, e non lo hanno fatto solamente in modo convenzionale, magari attraverso il contatto con la loro gente. In quei luoghi sono state evocate forze che hanno nella continuità il proprio denominatore comune, nei gesti essenziali il proprio catalizzatore.

Un concetto di continuità che è altra cosa da quello che normalmente intendiamo anche in sequenze generazionali.

E’ un concetto di continuità che attraversa il tempo e si sostanzia in una sinergia tra individuo-comunità-natura, con ruoli e codici che vengono da lontano, quelli sì realmente metabolizzati.

Ci sono luoghi in cui le forze più antiche riescono ad avere una voce più forte, in cui può davvero capitare di rievocare quei riti che appaiono materializzati su rocce scolpite quasi ingenuamente, è difficile pensare di poter resistere a tali richiami – vuoi genetici, vuoi d’una conoscenza antica – una volta che carezzevoli o impetuosi come può esserlo la brezza che nasce tra le rocce, tra le dune di questi luoghi

 

 
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