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Algeria Da Djanet a Tamanrasset

– Posted in: Africa, Nord Africa, Resoconti di viaggio

By Annuska Grisendi
Originally Posted Thursday, October 13, 2005

DA DJANET A TAMANRASSET

MARZO 2004

Annuska Grisendi

“Dio ha dato agli uomini il deserto perché vi ritrovino la loro anima”.

Mai come ora ho sperato che questo proverbio risponda al vero.

Ritorno al deserto portandomi dentro l’amarezza di affetti perduti e l’inquietudine di una nuova realtà: non ci saranno ad attendermi gli amici di sempre, non entrerò nelle stesse case; altri occhi lucenti mi accoglieranno, altre presenze discrete e rassicuranti mi accompagneranno in un deserto che ancora non conosco, ma che ho vagheggiato a lungo. Ho davanti a me la traversata Djanet-Tamanrasset e il Tassili Tan Ahaggar.

Poche ore nell’oasi di Djanet e subito via verso Tikobaouin ed Essendilène. Rivedo luoghi noti, eppure ancora ho qualcosa da imparare. All’altezza di In (Tin) Mourouden la guida, Ahmed, mi ricorda la leggenda delle tracce del bambino che gattona e mi racconta la storia. Durante una guerra fra tribù touareg rimase uccisa una donna che aspettava un bambino; i parenti del marito avrebbero voluto aprirle il ventre per estrarne il figlio, ma i parenti di lei si opposero e vollero seppellirla insieme con il feto. La donna fu sepolta lì, vicino ad una grotta (la tomba è ben visibile), e da allora al mattino si sono trovate le tracce del bambino che va carponi dalla tomba della madre alla grotta. Dal 1975 però le tracce non compaiono più.

Poco oltre, a Tillelin, apprendo che il nome significa “il luogo della danza” e di nuovo Ahmed mi ricorda che Tillelin è il momento culminante della festa della Sebeiba, cioè il giorno della danza rituale nell’oued di Djanet. Una volta, durante questa festa, alcuni giovani, non trovando spazio per danzare, si trasferirono li e da allora il luogo ha preso questo nome. Ora capisco perché la prima volta che ci sono arrivata Elkher me ne ha detto il nome e subito si è messo a ballare al suono del mangianastri del toyota.

Passiamo la notte a Essendilène e il mattino, raggiunto l’oued Sersouf, voltiamo le spalle al Tassili n’Ajjer e pieghiamo verso ovest in direzione di Ifafan Tajet, le “mammelle dell’asina”, attraverso un grande pianoro sabbioso. Sulla nostra sinistra scorrono le dune dell’erg Admer, a destra si scorgono in distanza vaghe sagome di monti. L’atmosfera polverosa nasconde il profilo del Tazat.

Procediamo a velocità sostenuta, finché non incontriamo il fech fech. Ne usciamo a marce ridotte e, per evitarlo, ci avviciniamo alle dune.

Il vento ha un po’ rinfrescato. Striature di nubi all’orizzonte sud.

Ora il terreno si fa sassoso e ci costringe a ridurre la velocità, mentre di fronte a noi si profilano le sagome dell’Amamoukene oua Mellene e dell’Amamoukene oua Settafene. Prima di raggiungerli, ci arrestiamo vicino ad un raggruppamento di roccioni: su una parete sono graffite in modo confuso molte corna di muflone; su una roccetta isolata, a destra, un bel bovide.

Appena aggirate le rocce, si apre davanti a noi il largo letto dell’oued Tafassasset, vasta piana sabbiosa ricoperta da una bassa peluria gialla, interrotta dalle chiazze di un verde polveroso di rari cespugli e acacie sparse.

Costeggiamo l’Amamoukene oua Settafene, neri coni di sfasciumi appena striati alla base dal giallo della sabbia, culminanti in sottili creste seghettate. Le acacie aumentano e si radunano in radi boschetti. Qualcuna ha una bella chioma e offre ombra sufficiente per fermarvisi per il picnic, dopo aver bonificato il terreno dai rami morti e spinosi.

Cirri si allungano sulle nostre teste; a sud, sul Ténéré du Tafassasset, il cielo è di un pallore malato. Proseguiamo in questa direzione, ma il nostro itinerario non ci consegna al “nulla”: bassi rilievi sassosi, qualche cumulo di neri sfasciumi, fantasmi di monti a ovest ancora ci legano alla “terre des hommes”.

Una linea di tamerici ci separa dal Ténéré, quando pieghiamo a sud-ovest attraverso una larga pista che ci porta al pozzo di Tiririne. Nulla di meno simile a quanto l’idea del pozzo suggerisce alla immaginazione di noi europei: due muretti quadrati di cemento appena sporgenti dal terreno; uno delimita il pozzo, l’altro una vasca poco profonda in cui si getta l’acqua che resta; un recipiente di plastica legato ad una corda è posato a lato. Il liquido ha un colore ed una densità per nulla attraenti. Ahmed dice che l’acqua è salata, ne attinge un recipiente e si rinfresca, gettando il rimanente nella vasca: servirà per gli animali.

Rimaniamo il tempo necessario per sgranchirci.

Ora la pista scorre fra basse colline irte di sassi, ma presto si allarga di nuovo in un grande pianoro. L’orizzonte è da ogni parte limitato da rilievi di diversa forma e altezza. Per fare il campo, usciamo dalla pista sulla destra e raggiungiamo un ampio spiazzo fra basse collinette; una, a occidente, massiccia e tonda come una mammella, attira la mia attenzione. Appena le auto si fermano, mi avvio, dimenticando che nel deserto la percezione dello spazio e del tempo è alterata. Cammino a lungo per raggiungerla.

Sul suo profilo ristagnano basse nubi che nascondono il sole; sembra di poterle toccare salendo lassù, come nella favola dell’Ariosto, dove un intero villaggio si incammina su per i pendii di un alto monte, con l’illusione di poter da lassù afferrare la luna.

La salita è irta di rocce stratificate verticalmente, che sporgono taglienti e seghettate, e io calzo solo ciabatte di gomma. La discesa sarà anche peggio; ma io voglio afferrare le nubi.

Mentre cammino con lo sguardo a terra per evitare di ferirmi, vedo rocce striate di verde, che mi ricordano il marmo delle colonne di Leptis Magna. Arrivo in cima in minor tempo e con minor fatica del previsto e davanti mi si apre una visione inaspettata: una grande piana chiusa all’orizzonte da cortine di rilievi; sulla sinistra tre roccioni isolati, a forma di piramidi, fessurati e disgregati dal vento, che ha disseminato i loro fianchi di grossi massi. Il terreno all’intorno, ondulato, grigio e percorso da striature gialle, ha il movimento di un mare che ribolle intorno agli scogli; solo la distanza lo appiattisce e gli ridona tranquillità. E’ come essere sulla punta estrema di un promontorio in mezzo al mare e non riuscire a sottrarsi al richiamo fascinoso delle onde. Quando decido di scendere, mi accorgo che staccarmene è difficile; mi nasce dentro un senso di rammarico e di privazione.

Dopo cena, quando tutti vanno a dormire, rimango un po’ vicino al fuoco coi touareg. Gli occhi calamitati dalla fiamma, ascolto nel silenzio le loro voci sommesse, che ridotte a puro suono, mi fluiscono dentro come una corrente tiepida che si diffonde per tutte le fibre del corpo. Ahmed intona una cantilena: ha una voce calda, baritonale; dondola lentamente il capo e il busto; ma di tanto in tanto la voce ha un’impennata e un lampo arguto degli occhi svela lo spirito giocoso del canto. Ha un viso tondo, incorniciato dalla folta barba ed è robusto come un toro. Quando arrotola le maniche della gandura per lavorare sul toyota o anche solo per impastare la taguella, scopre braccia forti e muscolose, armate di mani corte e grandi, capaci di stritolare qualunque cosa. L’ho visto vibrare un’accetta per tagliare il tronco di una acacia secca: sembrava una forza della natura. Ed ha lo spirito giocoso di un bambino e un’allegria che trascina; ma sotto nasconde serietà profonda e forte senso di responsabilità. I suoi compagni lo stimano e lo rispettano molto.

Questa mattina, mentre si disfa il campo, mi allontano a piedi e raggiungo la grande aperta su cui scorre la pista per il Tadant. A mano a mano che la visuale si apre, sento qualcosa sciogliersi dentro di me; l’anima si arrende al deserto, si spalanca ad esso; e il suo grande vuoto lentamente dilaga nel mio vuoto con la sua indomabile vitalità, lo occupa tutto e non lascia spazio a null’altro. Il deserto mi sta a poco a poco restituendo a me stessa.

Ci fermiamo alla base della roccia di Tissalatine, un mammellone stondato e lisciato dall’erosione. Non ho mai visto nel Sahara una roccia così liscia. Isolata in mezzo alla distesa sabbiosa, luccica, e rinvia la luce che lo investe come un vecchio specchio brunito. Lo spazio attorno pare creato apposta per lasciar respiro a questo gigante, come un omaggio alla sua solitaria bellezza.

Riprendiamo l’oued Tadant e la visuale si va gradatamente restringendo. Corriamo fra rilievi di grosse rocce scure, anch’esse lisciate; poi il letto dell’oued si fa accidentato per la folta presenza di grossi massi erratici, quindi si popola di tanti cespugli di un verde intenso e di grandi piante di “torha”, bellissime. Ahmed lo trova tanto mutato dopo le recenti piogge, da avere qualche dubbio nel ritrovamento del passaggio che, superando le nere colline di destra, condurrebbe direttamente al pozzo. Da ultimo il corso dell’oued si restringe tanto da chiudere completamente la visuale, e li, dove pare che si chiuda, un piccolo oued laterale in breve ci conduce al pozzo, che ha un aspetto familiare col suo muretto circolare sormontato da due travi incrociate, da cui pende la fune col recipiente per attingere. Ahmed mi dice che a questo pozzo, come a quello di Tiririne, ha lavorato suo padre: per due mesi 25 uomini muniti di pale hanno scavato fino a trovare l’acqua, poi suo padre ha murato le pareti con sassi e malta.

Ci sono nomadi li vicino. Un touareg, che ha una bimba malata, con le tonsille infiammate, a quanto si riesce a capire, viene a chiedere medicinali. Rimane a pranzo con noi e dopo lo accompagno, munita di antibiotici, per vedere la bambina. Una grande e bassa costruzione in muratura, fatta dallo stato, ospita più famiglie; ma a fianco ci sono le caratteristiche zeribe con le pareti in sasso e il tetto di paglia.

Nelle vicinanze pascola un branco di cammelle con i piccoli.

Entro in un piccolo cortile incredibilmente ingombro di cianfrusaglie; al centro alcuni pali sostengono un telo blu, che fa da riparo per il sole, e sotto è seduta una madre circondata da uno stuolo di bambini. Il più piccolo è di pochi mesi e appoggiato a terra c’è il biberon, coperto di mosche. La bimba malata è accucciata bocconi, con le mani sul volto e la fronte appoggiata a terra. Il padre la accarezza e lei solleva la testa: ha bellissimi occhi neri e un bel viso spalmato di non so quale impiastro, a cui evidentemente i touareg attribuiscono virtù curative. Le sento la fronte: ha la febbre, ma non alta. Riusciamo a farle deglutire mezzo antibiotico sbriciolato nell’acqua; cerco di ripetere le istruzioni per le ulteriori assunzioni, poi saluto e prendo la via del ritorno, seguita dagli sguardi intenti e curiosi dei piccoli, che si mettono in fila davanti alla tenda per farsi fotografare, tranne uno, che si ritira un po’ nell’ombra della tenda, combattuto fra il timore e la curiosità.

Appena fuori, cerco di avvicinare i cammelli, che non gradiscono la mia presenza e barriscono e soffiano minacciosamente; una madre caccia indietro col muso due piccoli che si sono girati curiosi verso di me; altri due succhiano avidamente il latte. Scatto una foto da lontano, mentre gli adulti mi tengono d’occhio, tutti rivolti verso di me per fare barriera a difesa dei cuccioli.

Ora il letto del Tadant si allarga di nuovo e ospita bellissime e grandi acacie solitarie; una ha un tronco forte, che pare formato da più fusti attorti assieme, e una larga chioma; è la più grande che abbia mai visto. Ai lati scorrono colline di roccia plumbea, resa più cupa dalla luce opaca che filtra dalle nubi. Poi l’oued si distende in un enorme reg apparentemente piatto, ma il fondo si rivela ben presto accidentato da roccette. Ci addentriamo in mezzo a folti cespugli, fra cui le crepe del terreno rivelano le recenti piogge.

E’ ormai sera e per campeggiare entriamo fra le dune di un piccolo erg, cercando un avvallamento in cui ripararci dal vento, che è fastidioso, pur non essendo forte, e che in questa stagione può sempre rinforzare.

Dormo nell’abbraccio di basse dune, che a malapena mi isolano dal campo, e appena mi sveglio, mi metto in cammino su e giù per le creste alla ricerca di scorci, di cui il mobile paesaggio dell’erg non è mai avaro. L’intreccio delle linee sinuose delle creste di sabbia, l’alternanza di luci e ombre, le variazioni di colore create dalla diversa inclinazione dei pendii e dall’avanzare della luce, sono per gli occhi un inesauribile fonte di piacere, un godimento che fa desiderare di non allontanarsene mai.

Ancora, questa mattina, seguiamo il letto dell’oued Tadant, ora largo e piano, che pare non avere mai fine; sulla sinistra le alture di Tin Eggoleh (ma Ahmed dice Ejjoleh), disseminate di “gara” che si innalzano dal profilo monotono dell’adrar.

Dove il Tadant incrocia l’oued Tin Tarabine, incontriamo dei tuareg che stanno scavando un pozzo; a colpi di pala hanno raggiunto già i 20 m. di profondità. Una breve sosta per salutarli e poi pieghiamo verso sud, abbandonando la pista tradizionale su consiglio di Bashir, l’autista del pic up. Bashir lavora in genere trasportando merci da Tamanrasset al Niger e viceversa e conosce molto bene la zona; la pista che ci fa fare è più breve e ci condurrà in un luogo solitamente non percorso, ma molto bello.

Il paesaggio si modifica sensibilmente: attraversiamo un tavolato roccioso su una pista molto accidentata, quella dei contrabbandieri che vanno e vengono dal Niger, trasportando clandestini. Ahmed dice che riescono a farli stare anche in 45 su un toyota, confermando quanto ho appreso anni fa da un clandestino all’ospedale di Djanet, dove era ricoverato febbricitante, con il viso gonfio e le labbra piagate dal sole, dopo una traversata del genere.

Ci troviamo a circa 800 m. di altitudine, ma sembra di essere molto più in alto. Non ci sono rilievi all’orizzonte e il tavolato pare confinare col nulla; ci si sente sospesi fra cielo e terra, una terra deserta e aspra come ai tempi della creazione. La sensazione è esaltante.

Quando l’orizzonte si anima, avverto un mutamento significativo: torri di roccia di forme varie e fantastiche nella lontananza mi fanno ripensare al Tadrart e ben presto raggiungiamo “Youfaghlel”, che in tamashek significa “meglio che un grande piatto”. Massicci isolati si elevano inframmezzati da distese sabbiose, che talora si restringono in corridoi fra rocce massicce, che ricordano la forma di un fungo dal gambo tozzo. Quando ci arrestiamo per il pranzo, mi arrampico su un alto roccione e scopro sull’altro versante cortine di rocce che scandiscono lo spazio come le quinte di un palcoscenico; la foschia sfuma progressivamente le cortine più lontane, consegnandole ad un al di là ignoto e senza confini. Il vento sta rinforzando e mi investe in pieno, facendo svolazzare i miei sarwel e lo shesh, che porto a mo’ di sciarpa: pare di potersi librare nel vento e dominare dall’alto queste distese fascinose che esercitano un potere magnetico, suscitando orrore e attrazione insieme. A fatica mi sottraggo a questo ondeggiamento che mi incatena li, tanto più forte quanto più il paesaggio è immobile e sottratto alla dimensione terrena.

Lasciamo Youfaghlel avviandoci attraverso un vasto tavolato chiuso a ovest da castelli di roccia e disseminato di roccioni stondati come panettoni, che ricordano quelli di Jabbaren sul Tassili n’Ajjer. Ahmed ferma l’auto dicendo con un sorriso arguto: “une femme”, e ci indica sulla destra una roccia lontana, che pare davvero una figura femminile di profilo, con l’ampia gonna lunga fino ai piedi, il busto esile e la testina coi capelli raccolti in uno chignon.

Ora percorriamo il letto di un vasto oued disseminato di bassi cespugli gialli; Ahmed me ne dice il nome: “Tilenfesah”; poi, piegando a destra, scolliniamo da una duna e scendiamo nell’oued Youfehakit. I Touareg lo hanno chiamato con questo nome, che significa “meglio che la casa” (ehakit è la tenda di pelle di capra dei nomadi, la loro casa), in omaggio alla straordinaria bellezza del luogo, popolato da roccioni sparsi delle più varie forme, ma per lo più simili a funghi. Anche qui, come quasi ovunque, il vento ha scavato la roccia formando degli archi, tutti diversi, tanto che sono diventati come la cifra del luogo stesso in cui sorgono

Scendiamo alla base di un raggruppamento di rocce e attraverso corridoi sabbiosi ci portiamo sulla sommità di una duna, da cui si domina il panorama a 360° gradi: sotto i nostri piedi si snoda il vasto letto dell’oued, aggirando due raggruppamenti di rocce fortemente arrotondate; in lontananza si disegna il profilo delle “aiguilles” di Youfehakit, un bastione di guglie seghettate che disegna l’orizzonte a ovest. Quando scendo, Bashir mi porta a vedere su una parete un graffito: alcuni bovidi finemente disegnati; ma la luce impietosa mi impedisce di fotografarli.

Cerchiamo di avvicinarci un po’ di più alle guglie; ci fermiamo ai piedi di un altro raggruppamento di rocce e saliamo. La sabbia è di un giallo intensissimo e fa da sfondo al bruno della roccia, contrastandolo e insieme armonizzando con essa.

Questa sera il campo è in uno spiazzo sabbioso molto accogliente, protetto tutto attorno da rocce, in vista delle guglie. Mentre gli autisti ingaggiano con alcuni del gruppo una partita a bocce sui generis, ritorno sui miei passi, perché sul percorso ho visto uno dei tanti archi che il vento ha scavato nella roccia. Questo sembra un grande tapiro che allunga la sua proboscide fino a terra.

Andando alla ricerca di un posto per dormire, scopro che siamo proprio sopra il corso di un oued disseminato di acacie e di cespugli di colochinto con i frutti ormai maturi, come tante piccole zucchette di un giallo tenue sparse sul terreno fra il verde brillante dei rami striscianti.

Dormo in una pozza di sabbia fra le rocce in vista dell’oued, vicino ad alcuni ciuffi d’erba verdissimi; li sento come tenere presenze, che mi fanno dolce e discreta compagnia.

Durante la notte ha rinfrescato; questa mattina il cielo è molto mosso e la luce è smagliante e morbida. Lascio in fretta il sacco- letto e mi inoltro a piedi lungo l’oued, per godermi la dolcezza del mattino e i colori, che paiono rinnovati e rinfrescati da questa atmosfera trasparente: il verde brillante dei cespugli e quello più polveroso delle acacie, il giallo tenue delle zucchette del colochinto e quello più intenso della sabbia, il bruno morbido delle rocce compongono una tavolozza che è un balsamo per gli occhi abituati al quasi monocromatismo del deserto. Quando per brevi momenti il paesaggio del Sahara si chiude entro l’orizzonte ristretto di un boschetto di acacie, dei cespugli e delle rocce che bordano un oued, acquista la dolcezza di una culla, tanto più assaporata quanto rara.

L’oued è il Takalous e sfocia a poca distanza da qui nel grande letto del Tin Tarabine, disseminato di rocce a pavimento con vari graffiti. Una in particolare, estesa quanto quella famosissima di Dider, ne reca numerosi, fra cui uno stupendo rinoceronte e diversi labirinti di significato misterioso. Ahmed me ne indica uno dicendo: “le diable!

Il Tin Tarabine va a perdersi in un vastissimo reg ondulato limitato da bassi rilievi, biancastri a destra, neri a sinistra; davanti l’orizzonte è aperto, ma ben presto si profilano a limitarlo lontane sagome di basse dune.

Il cielo ad est è molto mosso. Il reg si tramuta in una piana sabbiosa. C’è vento di sabbia, l’orizzonte è polveroso e indistinto, i colori pallidissimi. Nessuna presenza in vista; ci si sente galleggiare in un nulla denso, cotonoso, avvolgente. Solo il cielo variegato ad est dà l’idea di una possibile via di fuga.

Ma anch’esso va a poco a poco chiudendosi e la luce si fa più diafana, l’atmosfera più spessa. Si ha la sensazione di essere sospesi fra lo smisurato pallore del cielo e il giallo polveroso della terra.

Aumentano il calore, la foschia e il senso di oppressione.

A un tratto fantasmi di cespugli gialli. Poi di nuovo il nulla, quasi palpabile.

Quando a ovest si delineano sagome di gara, paiono galleggiare su uno spesso strato di un pallore diverso. Lentamente prendono consistenza, si infittiscono, emergono dalla polvere come selve fantasmagoriche.

Le raggiungiamo e facciamo una sosta; il vento ci investe con mille aghi di sabbia. Il rumore dei motori, ripercosso dalle rocce, e gli ululati del vento danno al paesaggio un sapore d’inferno.

Sgonfiamo i pneumatici e procediamo nel vento. Superate alcune basse dune, la piana di Tagrera ci si spalanca davanti come un sinistro, enorme vallone opaco, disseminato di masse scure.

Durante una sosta cerco di salire su una duna che si insinua fra le rocce; ma, appena allo scoperto, il vento mi investe con violenza, mi strappa il shesh, la sabbia mi punge con mille aghi, sono costretta a ridiscendere.

Prendiamo decisamente a est, seguendo Bashir, che ci porta in una zona rocciosa dove il vento arriva molto attenuato e a folate; la visibilità aumenta progressivamente, il cielo qua e là si apre, il sole ricompare.

Siamo tornati dagli inferi alla terra de viventi.

Nel pomeriggio riguadagniamo Tagrera. L’atmosfera si è un poco schiarita, ma il vento continua; l’orizzonte è evanescente, le rocce sono presenze fantomatiche.

Ci arrestiamo ad una grande parete con sopra incise numerose giraffe, poi entriamo in un vasto reg, aggirando da ovest le montagne, che sfilano alla nostra destra come vaghe, oscure presenze.

Il terreno è di un indefinibile colore sporco; l’orizzonte è di piombo.

A un tratto sottili sagome allungate, bianchissime e luccicanti, si profilano in distanza; poi di nuovo il nulla.

Ora un basso cordone di dune diafane sfila a ovest; ma davanti a noi c’è ancora il vuoto.

Quando imbocchiamo un vasto oued, l’atmosfera si fa più trasparente. Corriamo su un fondo popolato di bassi cespugli gialli, che si piegano al vento come onde, tra due ali di scuri rilievi con intere dune addossate alle loro pareti. A mano a mano che risaliamo verso nord l’atmosfera si pulisce; la coltre pesante e sbiadita del cielo comincia a lacerarsi e lascia indovinare l’azzurro.

Anche l’anima si distende, come dischiusa ad una ipotesi di salvezza.

Quando raggiungiamo Tin Ekesseker, il sole è ricomparso. Saliamo su una barriera di rocce sulla destra dell’oued e dall’alto lo sguardo scorre su un paesaggio di corridoi di sabbia che vanno a perdersi in una lontananza sfumata, insinuandosi fra alte rocce dai profili arrotondati, maestose e misteriose nel loro silenzio e nella loro immobilità, mentre i nostri abiti e i nostri capelli sono gonfiati e sconvolti dal vento. Un paesaggio tanto simile ad altri che ho visto (ad Alidemma, certo), ma anche tanto diverso. Vorrei condensare in parole cos’ha di particolare questo luogo, ma una volta di più sperimento quanto sia vero che “il deserto non si racconta”. Forse se potessi rimanere un poco, se avessi il tempo di assaporare fino in fondo le emozioni che questo luogo comunica, potrei tentare di ridire almeno queste.

Ma il tempo stringe; bisogna scendere, bisogna ripartire, e di nuovo avverto un sentimento di privazione che mi punge e il bisogno di credere che tornerò.

Mentre scendo afferro il shesh ai capi e lo lascio libero nel vento, che lo gonfia come una vela e mi costringe ad indietreggiare. Pare di volare.

L’occhio è attratto da un cespuglio verdissimo, con frutti di un viola intenso a forma di piccolissima pera; ne colgo uno e dal breve picciolo cola un liquido lattiginoso. Ahmed mi raggiunge, mentre lo guardo incuriosita, e mi dice di annusare il lattice: è un ottimo rimedio contro il raffreddore e i reumatismi e cura anche le coliche renali. Si chiama “ghalashim”. Annuso la peretta, che ha un odore amarognolo, e la conservo, ripromettendomi di portarla a casa per fare qualche ricerca. Effettivamente libera il naso e dà l’impressione di respirare più apertamente.

Ancora 30 km. e raggiungiamo El Ghessour, un oued laterale abbastanza riparato, dove facciamo il campo.

Il vento sta lavorando a pulire il cielo, che, percorso da nubi sfilacciate, sembra l’augurio di “un più sereno dì”.

Una cortina di torri di roccia si eleva alle nostre spalle; non hanno il fascino e la magia delle torri di Tin Ekesseker, ma paiono vegliare a guardia della vallata; così la sensazione che si ha in questo oued pieno di verdissimi cespugli e acacie, al riparo dal vento, è quella di un luogo dolcemente protettivo.

Il terreno è ricoperto da un sottile strato di argilla screpolata, lasciato dalle piogge recenti.

Col vento non è prudente dormire allo scoperto, perciò questa notte mi scelgo come riparo la ruota di un fuoristrada, e quando vado a cuccia, rivedo finalmente le stelle del Sahara. La visuale è ristretta dalle rocce che chiudono l’oued, ma alla visione dello stellato notturno, dopo il senso di chiusura e di oppressione sofferto nell’impatto forte con un paesaggio frustato dal vento e come dissolto nella bruma sabbiosa, l’anima si apre ad un sentimento di consolante dolcezza.

Apro gli occhi: la luce è limpida, trasparente. Immobile, seguo a lungo con lo sguardo il becchettio di un passero a pochi cm. dalla mia testa: ha il ventre coperto di una morbida peluria del colore della sabbia, le ali appena più scure; è cosi tenero che fa venire voglia di assaporarne con la mano la morbidezza.

Ma presto prende il volo e io posso uscire dal sacco letto, per godermi appieno nella fresca luce la visione delle torri di roccia che chiudono a sud il piccolo oued.

Ripartiamo in direzione nord, raggiungendo in breve una zona montuosa. Ci inerpichiamo, procedendo a rilento sul fondo roccioso e accidentato, e ci innalziamo raggiungendo 750 m. di altitudine. Il paesaggio è arioso e mosso, la strada procede a zigzag e si ha l’impressione di essere in alta montagna.

Superato un passo, vedo aprirsi sotto di noi l’ampio letto di un oued. Alla prima sosta Ahmed e Bashir mi spiegano che si tratta dell’Igharghar: tutte le acque dell’invaso che abbiamo percorso confluiscono, insieme col Tin Tarabine, nella piana di Tagrera, vicino da una montagna bianca chiamata “Amadilnener”, la “mascella dell’antilope”, non lontana dalla roccia su cui sono incise le giraffe, e formano il grande letto dell’Igharghar, che continua il suo corso verso il Niger.

Ora risaliamo il corso superiore dell’oued. Sulla nostra destra sfila la sagoma tozza del monte “Elou”, l'”elefante”, mentre si profila ad est quella acuminata dell'”Aredjan”, il “cammello” in età adulta.

Puntiamo proprio su di esso e superiamo un altro passo, aggirandolo da ovest. Da qui l’Aredjan appare come un picco che svetta sulla sommità di un vasto cono di detriti. Ma lentamente la sua fisionomia si trasforma ed è affascinante assistere alla metamorfosi che lo tramuta in un esteso massiccio con andamento ascendente, costituito da una serie di torri fittamente addossate l’una all’altra. Pare una creatura viva, che lentamente si rivela in tutta la sua bellezza o che in breve volgere di tempo raggiunge la pienezza della maturità.

Continuiamo a superare un passo dopo l’altro, scendendo ogni volta in piccoli oued polverosi, mentre il paesaggio si fa più decisamente montagnoso e il terreno, fortemente accidentato, costringe ad una andatura lentissima. Facciamo sosta in un più vasto oued popolato da tamerici isolate, ma molto frondose; poi di nuovo in salita, su una vera strada di montagna, tortuosa e dissestata, in mezzo a sassaie e valloni rocciosi cosparsi da radi cespugli di acacia strozzati dalla sete e dalla polvere. Il terreno biancastro, che qua e là affiora tra i sassi, non riesce ad introdurre una nota di colore nel panorama uniformemente livido delle rocce. Questo deserto è molto diverso dal “mio” Sahara dai colori morbidi della sabbia e dell’arenaria, dalle linee sinuose delle dune, dalle forme mutevoli delle rocce; il Sahara che si insinua nell’anima ed è capace di pacificarne le inquietudini, di fare il vuoto dentro per occuparlo tutto col suo fascino esclusivo, totalizzante, come un amante che appaga completamente.

Cerco nella memoria qualche immagine che mi aiuti a definire questo paesaggio. Riuscire a farlo vorrebbe dire avvicinarsi un poco di più alla sua anima oscura, sentirlo meno ostile, stabilire un approccio.

Non trovo nulla. Ancora una volta il deserto afferma il suo essere al di fuori della logica, del linguaggio, dell’umana capacità di comprensione.

In quota passiamo accanto ad un villaggio di nomadi interamente costruito con foglie di palma; donne e bambini si affacciano curiosi. Fra le zeriba un landrover.

A 1300 m. di altitudine percorriamo un vallone popolato di tamerici e gli occhi cercano riposo sulle loro macchie verdi. Bashir ci sta facendo fare un percorso diverso da quello seguito usualmente, accidentato, ma molto più breve. Già cominciano a comparire i tralicci della corrente elettrica, i primi villaggi fatti di mattoni di terra seccata al sole, e ad est le vette dell’Hoggar.

Siamo ormai alla periferia di Tamanrasset. Ci sono sempre passata di notte, arrivando a tarda sera e ripartendo prima dell’alba, e non mi sono mai accorta di quanto sia montagnosa la regione; finché non si scende nella piana che ospita l’oasi, sembra impensabile che un agglomerato di ormai 100.000 abitanti possa trovare spazio fra queste montagne.

Ahmed ci addita la sagoma compatta del monte Adrian, che fa da sfondo all’oasi e ne costituisce quasi la cifra. Il suo profilo è interrotto da un’unica sella, da cui deriva il suo nome, per via di un touareg che aveva perso un dente ed aveva un buco nella dentatura.

Non riesco a sentire attrattiva per questa Tamanrasset, che assomiglia troppo ad una grande città, con la sua periferia sordida e brutta e, quel ch’è peggio, con la sua sporcizia: dagli alberi scheletrici pendono decine di sacchetti di plastica nera, che il vento ha fatto impigliare nei rami e che ora sbatacchia rumorosamente. Paiono tanti squallidi alberi natalizi, privati della loro festosità e del loro splendore, spogliati del loro senso, declassati ad immagine di quanto di brutto è capace di produrre l’essere umano, quando perde il senso del bello e il sentimento della propria umanità.

E’ col cuore stretto che entro nella favolosa Tamanrasset, e con la segreta speranza che qualcosa accada, che mi riconcili con essa e me la faccia amare.

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