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Algeria: da Hassi Inifel a Tagrera

– Posted in: Africa, Nord Africa, Resoconti di viaggio

By Aster
Originally Posted Friday, July 9, 2004

Superficie 2.381.741 Kmq

Popolazione 30.579.000

Densità 13 ab/Kmq

Lingua Arabo (Nazionale e ufficiale)

Berbero (Nazionale)

Francese

Religione Mussulmani (99,5%), Altri Mussulmani (0,4%), Cattolici (0,1%)

Capitale Algeri

Forma istituzionale Repubblica Democratica e Popolare

Relazioni internazionali Membro di Lega Araba, OCI, ONU, OPEC, e OUA

Unità Monetaria Dinar Algerino

 

ALGERIA 2003

(20 dicembre – 12 gennaio 2003)

Parte Prima Hassi Inifel Tim Bider Amguid Crater

“Spesso il deserto è l’idea che ce ne facciamo … un giorno lo si scopre e non si sa cosa pensare o dire. Ci intimidisce e ci costringe al silenzio. Le parole scivolano sulla sabbia …” Tahar Ben Jelloun

… E alla fine abbiamo visto il porto di Genova! Partiti da Tunisi alle ore 02,00 del 13 gennaio (già in ritardo di 6 ore) siamo riusciti ad attraccare il 14 verso le 07,00 quando ormai pareva che l’unico motore funzionante (l’altro ha dato forfait con un gran fumo nero alle prime luci dell’alba del 13) stesse stramazzando per la fatica. E’ stato un bel risultato per una nave del gruppo “Grandi navi veloci”. Come osservava Martina a colazione, graziosamente offertaci con la cena dal comandante per calmare gli animi un po’ agitati, … “grande va bene… ma veloce … mi sembra esagerato!”. Dimenticavo … Martina ha sette anni e ha vissuto, con il suo papà, la sua prima esperienza africana tra le dune della Libia. Un altro rientro africano tormentato. Quasi un pegno da pagare all’Africa, ai suoi deserti e ai suoi spazi infiniti per le meraviglie che anche questa volta ci ha regalato, per la magia che di nuovo ci ha avvolto, per le emozioni e sensazioni che ancora, come sempre laggiù, abbiamo vissuto.

Sono state giornate intense, piene di emozioni, di incredibili sensazioni condivise, di armonia e affiatamento. Giornate faticose nella prima parte del viaggio che aveva come obiettivo il raggiungimento dei due crateri – di Tin Bider e di Amguid – e giornate di dolce andar sulla sabbia nella seconda parte quando abbiamo raggiunto il Ti-n Tarabine con i siti di Iuuf Ahaakiit, Tiluun Faza’a, al-Ghasuur, Tagrira e infine il magico mondo del Tifernine e Gara Kranfoussa I riti “africani” sono stati sempre gli stessi, almeno per noi. La mattina ci si alzava al sorgere del sole (“quando il sole tocca la tenda” dice Stefano), pausa pranzo di un’oretta e poi campo piuttosto prima del tramonto per preparare cene pantagrueliche e alcolicamente ben annaffiate. Poi ritrovo attorno al fuoco a chiacchierare, scambiarsi impressioni, a fare i conti dei km., del gasolio … a guardar le stelle che laggiù riscopriamo e ritroviamo ad illuminare un cielo così vicino e così basso sulle nostre teste … a rimettere ordine tra tutto quello che i nostri occhi hanno “salvato” durante il giorno, tra tutto quello che i nostri cuori hanno raccolto lungo il percorso … a godersi la pace incredibile che sempre ci avvolge rassicurante dopo stanchezza, polvere, caldo, scossoni, sabbia tra i denti, in quell’ ora che di poco precede il caldo abbraccio del sacco a pelo.Ma questa volta ho scoperto piacevoli novità. L’immancabile rito del “prosecco time” , anticipatore della cena, sempre annunciato con grande soddisfazione da Stefano che subito si apprestava ad allestire il suo tavolone sul quale, in un battibaleno, appariva – magicamente estratto dalle inesauribili casse viveri dei nostri mezzi – ogni sorta di stuzzichino accompagnato da 2 bottiglie di prosecco (eravamo in 8). Il tutto spariva con la stessa velocità con la quale era apparso, lasciando tra i commensali una piacevole euforia che per alcuni era seguita da un temporaneo abbiocco pre-cena. Nota dolente: abbiamo completamente cannato le previsioni consumo poiché è subito apparso chiaro che la bottiglia preventivata non era sufficiente (una sera abbiamo addirittura sbudgettato a 3) e pur considerando il progressivo diminuire dei partecipanti (Serena ci ha “abbandonato” all’alba del 6 gennaio … permettendo un certo recupero sulle scorte; Monica e Maurizio il 7) è stato subito tragicamente evidente che non avevamo una copertura totale. Così abbiamo integrato con dei “Martini time” e dei “birra time” riesumando un ultima bottiglia di prosecco all’ultimo campo prima di Hassi Messaud (eravamo rimasti in 5). Altro “rito” piacevole è stata l’introduzione, a metà mattina del “caffè time” sempre annunciato da Stefano e in Tunisia, al rientro nella “civiltà”, è stato lanciato, purtroppo inutilmente, persino un “pizza time”. Qualcuno potrà dire che così, pasteggiando e bevendo come se si fosse a casa (e a volte anche meglio perché non ci siamo fatti mancare davvero nulla), si perde il vero spirito del deserto, l’idea del viaggio aspro, sofferto, conquistato … ma a me sembrano delle grandi stupidaggini. Sono stati dei momenti bellissimi, di grande affiatamento, collaborazione, inventiva e abilità culinaria, divertimento, risate, scherzi, prese in giro … insomma piacevolissimi e irrinunciabili specie dopo giornate di dure pietraie e polvere (e quante e quanta in questo viaggio …) Comunque, se qualcuno fosse interessato ai menù elaborati dalle cuoche e dai cuochi (ci siamo alternati nella preparazione della cena comune) è disponibile un dettagliato resoconto! Ma sto temporeggiando, prendendo tempo … non ho ancora parlato di cosa abbiamo visto, delle emozioni vissute, delle sensazioni provate … Non ho insomma ancora affrontato la parte più difficile di questo breve pseudo-resoconto E’ infatti una vera impresa riuscire a trasmettere le sensazioni, le emozioni, gli scoramenti (io ogni tanto ne ho avuti, lo confesso senza vergogna) e gli entusiasmi, la stanchezza ed il meritato riposo.

Ancora più arduo descrivere i paesaggi, gli scenari ogni giorno diversi ed unici eppure a volte simili a qualcosa già visto, già incontrato chissà dove che riaffiora dalla memoria. Bastano le parole? Quando mi chiedono “…ma cosa hai visto di tanto bello in quella desolazione? …Cos’è che vi porta in quei posti così ostili, caldi, scomodi, faticosi e anche pericolosi … ?” Mi verrebbe da rispondere soltanto: “devi provare ad andarci … forse capirai… o più probabilmente non capirai, non saprai dire perché … ma quasi certamente anche a te verrà la voglia di tornarci”.

“…Il deserto non si racconta, si vive…Il deserto è estremamente bello e puro, sconvolgente e magico … Il deserto è comunione con l’infinito misterioso …” Mano Dayak – Sono nato con la sabbia negli occhi -Dunque ci provo. Dove siamo stati è indicato dalla traccia riportata da Stefano, cosa abbiamo visto … lo mostrano le foto. Serve altro? Credo di si. Sicuramente non posso cavarmela così, sarebbe troppo comodo. Vorrei avere ancora del tempo per lasciar decantare le sensazioni e gli stati d’animo provati. Immagini mi scorrono veloci davanti agli occhi e sentimenti contrastanti si affollano nell’animo. Come sempre, come dopo ogni viaggio. Con il passare dei giorni le cose cominciano a prendere una nuova dimensione, appaiono più chiare, più certe. Dimentico la fatica, il disagio, gli inconvenienti, la stanchezza … rimane la magia, l’incanto, la parte migliore del viaggio, la certezza di aver vissuto ancora una volta qualcosa di unico, indimenticabile, necessario. Per questo ritornerà presto la voglia di ritornarci. Già nel dopocena degli ultimi campi ci siamo chiesti qual era il luogo che più ci era piaciuto, il momento che più ci aveva colpito, emozionato.Per alcuni è stato il cratere di Amguid raggiunto con tanta fatica, per altri (io sono tra quelli) l’area di Iuuf Ahaakiit ed in particolare la “Sagrada Familia”, come l’abbiamo chiamata, vicino all’arco di Fatima, o il “cimitero” delle scimmie pietrificate.Il momento che più ci ha emozionato è stato invece, all’unanimità, l’incontro con un azalai: una carovana di uomini, donne e bambini. E’ stato il nostro regalo di Capodanno! Abbiamo attraversato una straordinaria varietà di paesaggi: distese di pietre quasi lunari, terre piatte che confinano con l’infinito, ammassi di ciottoli colossali, tondi, appuntiti … soffici wadi dove occhieggiavano verdi arbusti, alte dune molli, eleganti, scolpite in riccioli morbidi dai toni caldi e dorati ad ogni ora diversi a seconda della luce. Sono infiniti i colori e le sfumature di cui si colorano le dune nell’arco di uno stesso giorno: dal biondo al fulvo passando per un’infinita gamma di rosa, rossi, arancio, gialli, ocra … E le forme sono molteplici, specie quelle delle rocce sulle quali il vento e l’acqua, come geni impazziti, hanno scolpito nei secoli folli architetture tra le quali la nostra mente, assecondando la natura fantasiosa, crede di scorgervi cattedrali dagli incredibili colonnati, guglie e pinnacoli, funghi colossali, castelli, roccaforti, archi, piramidi e ogni sorta di orrido mostro. Il primo grande momento di emozione è stato per me entrare in un villaggio vecchio di migliaia di anni. Prima di raggiungere il secondo cratere abbiamo attraversato una zona che da giorni Stefano ci prometteva essere un paleosuolo pressoché inesplorato. Ci siamo arrivati senza che me ne rendessi conto se non per dei grandi sassi che si vedevano qua e là. Erano macine.Macine enormi con accanto, disseminate un po’ ovunque, mole consumate dall’uso quotidiano, costante, indispensabile. Era la prima volta che le vedevo così, sulla sabbia, rimaste a ricordarci che lì c’era vita, c’era speranza, gioia, dolore. Lì dove il nulla sembra sovrano, sicuramente dei bambini si rincorrevano giocando, schiamazzando, litigando come oggi; madri si affaccendavano per preparare il pranzo, padri cacciavano per la famiglia o scoprivano i primi rudimenti di agricoltura. Come avrei voluto, chiudendo gli occhi, poter ritornare indietro nel tempo e vedere, per un attimo soltanto, quel villaggio, quei bimbi, quella gente. E’ stata davvero una forte emozione, una sensazione particolare, avvertivo quasi un senso di imbarazzo per quella intrusione, per quella violazione in un mondo così lontano da noi. Poi il secondo cratere con il suo cerchio perfetto e il fondo luminoso dai colori oro, ocra, arancio così in contrasto con le scure pietre che lo racchiudono. Sicuramente una vista spettacolare e duramente conquistata specie per noi, con il camion. Io ho talmente sobbalzato – “… sembri una pallina da tennis impazzita!!!” – che, a furia di tenermi avvinghiata alle maniglie, ho fatto i calli alle mani! Tuttavia ero ancora così stranita dalle sensazioni provate il giorno precedente che nel mio ricordo è posizionato ad un livello inferiore nella mia personale graduatoria delle emozioni. Comunque le foto fatte da Gianni, Stefano, Giampi & Co. gli rendono pienamente giustizia e per riuscire ad immaginare l’emozione che si prova nel momento in cui lo si vede, si dovrebbe cercare di immaginare la fatica di 2 – 3 ore di pietre senza alcuna minima traccia di pista e una scarpinata tra sassi e ancora sassi di circa un’ora e mezza. Riuscire ad arrivare fin laggiù è stata una grande soddisfazione. Voltandomi indietro per un ultimo sguardo, dopo che ci eravamo già avviati sul percorso di ritorno, ho visto Gianni che, seduto sull’orlo, rimirava lo spettacolo quasi a volersi ben imprimere negli occhi e nel cuore quell’immagine e quell’emozione. E’ rimasto lì per un po’, seduto, a godersi il silenzio e il suo esser finalmente solo a “respirare” quella meraviglia. Ci ha raggiunto più tardi, con il suo veloce e sicuro passo da scalatore. Quando, giorni dopo, sono salita sola sul Gara Kranfoussa ad ammirare l’infinita distesa di dune che da quello sperone di pietre si domina da ogni lato, ho provato anch’io la sensazione di vivere qualcosa di unico, di assolutamente esclusivo. Come se assistessi ad uno spettacolo riservato a me soltanto. E me lo sono goduto quello spettacolo, ascoltando il vento che mi scompigliava i capelli, ammirando il sole del tramonto che accarezzandomi il viso illuminava di rosa le dune. Sono tornata al campo grata a Gianpietro di aver tanto insistito perché andassi fin lassù. Il giorno di Capodanno, come ho già detto, ci ha riservato un altro grande momento: l’incontro con una carovana di nomadi. Tanti dromedari, tanti bimbi accoccolati, spesso in coppia, sulla gobba del loro “fuoristrada” con agnellini che spuntavano da sotto il braccio, tante donne dagli abiti multicolori ma che si tenevano più discoste da noi mandando gli uomini in avanscoperta a chiederci qualcosa e ai quali abbiamo dato. Ma siamo noi debitori verso di loro, debitori per i sorrisi dolci di quelle bambine, per lo sguardo serio e attento di alcuni bimbi che, dall’alto del loro dromedario ci guardavano seri, seri senza chiedere nulla. Dove andavano, da dove venivano? Dopo una miriade di foto scattate a raffica, che con dignitosa indifferenza accettavano, parlottando e sorridendo sicuramente di noi, se ne sono andati tranquilli, a raggiungere il resto dell’azalai. Lentamente, ondeggiando lievi sulle loro cavalcature. Per un po’ le nostre radio sono rimaste mute: non c’era nulla che potessimo dirci! E le emozioni non erano finite perché siamo entrati nel Ti-n Tarabine. Dimenticate le pietraie è iniziata la parte “morbida” del nostro viaggio e la più esaltante per me. Distese piatte, infinite fino all’orizzonte, oppure linee morbide e dolci delle dune dai colori incredibili, paesaggi fantasiosi di rocce che tra la sabbia apparivano come improbabili funghi, o costruzioni in rovina. E’ stato bellissimo, incredibile, magico.

Il luogo per me più emozionante è stata la selva di alti e snelli pinnacoli di roccia che spuntavano dalla sabbia come antiche colonne di una cattedrale rimaste lì a sostenere il cielo. Infatti per indicare quel magico luogo, la sera, rievocando le emozioni provate, l’abbiamo chiamata “Sagrada Familia”. Ci siamo inoltrati in quello spettacolo che sembra un inno in cui la natura celebra se stessa. Affondando un poco sulla sabbia che fa da pavimento, mi pareva di trovarmi davvero in un luogo sacro, con la luce del tardo pomeriggio che si insinuava tenue e leggera come se filtrasse dalle finestre di una chiesa. Non dimenticherò quel luogo e quella grande emozione. E pensare che quasi non l’avremmo visto se Serena non ci avesse urlato alla radio “Dovete venire quassù, assolutamente! Se non riuscite con il camion venite a piedi… risalite la duna e venite qui perché è troppo, troppo … bellissimo … non potete perderlo!” E’ stata convincente al punto che Giampi, testardo, ha sgonfiato ancor più le gomme mentre io mi sono avviata a piedi, risalendo rabbiosa la duna che il vento spazzava riempiendomi gli occhi di sabbia. Arrivati su… non abbiamo avuto il tempo di far commenti e siamo entrati in quel sogno. Dobbiamo a Serena e alla sua convincente insistenza quello spettacolo! Poco lontano da lì l’arco di Fatima che Gianpietro ed io abbiamo raggiunto a piedi l’indomani mattina. Il giorno prima avevamo trovato il luogo dove ancora oggi, dopo … quante migliaia di anni non lo so … ci sono gli scheletri pietrificati di scimmie, forse di nostri progenitori!

E pensavo che, per questo viaggio, le emozioni fossero concluse…

…Ma mi aspettava ancora la magia del Tifernine. Soltanto due giorni, per un piccolo attraversamento da ovest ad est. Eravamo un po’ incerti sulle possibilità del nostro camion e si avvicinava la data dell’imbarco.

I “superstiti” erano 5 ormai. Salutati Monica e Maurizio che con altri amici di Stefano si avviavano verso la Tunisia, ci siamo diretti verso le dune. E’ stato incredibilmente meraviglioso: dune alte, maestose. Superato il primo cordone il paesaggio si è aperto in valli dolci, larghe e verdeggianti dove abbiamo visto amigdale in tale quantità che mi pareva di essere capitata in una fabbrica preistorica. Anche Stefano è rimasto meravigliato da una simile concentrazione. Abbiamo lasciato il Tifernine con un pizzico di tristezza e di rammarico per non essere stati tutti insieme a godere di quella magia. Serena, Monica e Maurizio sono stati con noi, nei nostri pensieri e nei nostri cuori nel tentativo di trasmettere loro le nostre emozioni. E abbiamo lasciato il Tifernine con la promessa di ritornarci un giorno … con calma, con più tempo, con minor timore – ora – di violarlo. Insomma è stato un viaggio bellissimo, di grandi emozioni e di paesaggi così belli da togliere il fiato. Sicuramente è valsa la pena sopportare i sobbalzi del camion (almeno avrò rinforzato i bicipiti) su infinite pietraie; sicuramente è valsa la pena piangere di rabbia, stanchezza e dolore per un salto spettacolare in cui ho pensato di essermi rotta l’osso del collo (Stefano, canzonandoci, assicurava che la nostra traccia spariva per 15 metri di volo!!!); è valsa la pena rinunciare al lusso di una doccia quando ormai non riesci più a pettinare i capelli; è valsa la pena vincere, ancora una volta, il timore del mare che ogni volta dobbiamo attraversare. E ne è valsa la pena anche per i meravigliosi compagni di viaggio che con noi hanno condiviso tante emozioni, risate, e fatiche. Stefano è stato il nostro infaticabile e infallibile comandante-navigatore. Per noi, con il camion, è andato in avanscoperta a cercare la via migliore sempre trovandola. Lui, novello muezzin, annunciava le tappe della giornata fino all’inimitabile richiamo serale del “prosecco time!!!!” All’ultimo campo mi ha regalato una cena di totale relax vietandomi di fare alcunché.

Grazie Stefano, è stato bellissimo stare lì, a farmi simpaticamente prendere in giro (“Monica hai un mestolo?” “Si certo!” “Ma io non lo voglio!”) senza far niente! Serena è stata l’allegria e la simpatia. La compagna di viaggio ideale. Le invidio tantissimo il suo incontenibile e contagioso entusiasmo, la sua continua voglia di fare, di scherzare, di stare con gli altri. Gianni è stato il nostro menestrello ed il nostro fotografo (ha immortalato ogni istante del nostro viaggio). Con il suo flauto ci ha regalato attimi di magia al chiarore della luna; con l’armonica, davanti al fuoco, ci ha inondato di struggente malinconia e di spensierata allegria. Mi ha regalato alcune elementari nozioni di astronomia. Devo a lui se adesso riconosco le pleiadi, orione, il piccolo carro … per ora la lezione si ferma qui! Paolo è stato la nostra “balia”. Più lenti delle macchine chiudevamo sempre la nostra piccola carovana. Paolo ci aspettava, ci avvertiva della sabbia troppo molle, ci veniva a cercare quando non eravamo in vista e non sentivamo più neppure la radio. Ci ha divertito con i suoi racconti di giovane “controcorrente”. Ci ha intenerito con la sua preoccupazione per il nipotino Marley (nato da poco) che non dormiva. Ribelle come il nonno? Ed infine è lui l’autore della battuta tormentone del viaggio; allo scherzoso e propiziatorio “ … e che Dio ce la mandi buona” di Stefano, prima di affrontare una pietraia, pronta è stata la sua risposta “ e … giovane e disinibita!” Maurizio detto il Fringui è stato la nostra seconda “balia” (con la collaborazione di Monica detta Parker che manteneva i contatti radio). Tranquillo, di poche parole, sempre pronto a dare una mano, ci ha illuminato con le sue acute osservazioni e ci ha divertito con le sue fulminanti battute. Monica è stata anche lei la compagna di viaggio ideale. Dolce, gentile, disponibile, simpatica nel farsi allegramente prendere in giro e sorprendentemente decisa nonostante l’apparente svagatezza. E infine Giampi, che più di tutti ha faticato nella guida perché, anche se lui non lo ammetterà mai, guidare un camion non è come guidare una macchina. E’ stato abile ed instancabile. Grazie a lui, alla sua tenacia, alla sua passione per i viaggi, che condividiamo, ho potuto vivere quest’ultima magica avventura.

A tutti i miei meravigliosi compagni di viaggio …. un grossissimo e fortissimo abbraccio!

Unimonica

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