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Compiti di scuola nel sahara By Giulia e Piero Priorini

– Posted in: Africa, Resoconti di viaggio

By Giulia e Piero Priorini
Originally Posted Saturday, January 22, 2011

È giusto portare dei ragazzini in giro per il mondo e iniziarli allo spirito del “viaggio”? Al viaggio! Si badi bene, e non al turismo. A quell’esperienza “forte” che comincia sognando un luogo e finisce inventandosi le strategie per esserci, e non facendo propri i sogni artificiali che qualcun altro ha apparecchiato per noi. È sano portare bambini e ragazzi sulle strade del mondo?

Credo che in nessun altro paese moderno occidentale avrebbe senso porsi una domanda del genere! Non ci sarebbe nessun motivo di interrogarsi in merito ad una simile questione. Il problema stesso non esisterebbe. Ma in Italia, il paese che ha visto nascere il “mammismo” patologico e ha cercato di esportarlo in tutto il resto del mondo, una simile domanda può trovare una sua collocazione.

In Germania, in Olanda, in Inghilterra è cultura comune che i giovani, raggiunti i diciotto – venti anni lascino la famiglia d’origine e inizino esperienze autonome e indipendenti. Loro rappresentano il futuro della società in seno alla quale sono nati, coloro dalle cui energie sorgerà un modo nuovo di interpretare il mondo; è fondamentale che non rimangano “inquinati” da ciò che di stantio comincia a manifestarsi nelle individualità dei propri genitori. I giovani devono fare esperienza, devono farsi responsabili di se stessi e assumersi l’onere delle proprie scelte, giuste o sbagliate che siano. Lo Stato – avete letto bene: lo Stato! – aiuta i giovani a lasciare la casa natia offrendo sovvenzioni che permetteranno loro di affrontare i costi della propria indipendenza. L’allontanamento da casa non ha nulla a che vedere con l’affetto riservato ai propri genitori. Anzi! La debita distanza risolvendo gli ultimi, inevitabili orpelli incestuosi, garantirà un’affettività sana e matura, da individuo a individuo. La coppia genitoriale, in oltre, dopo gli anni di impegno e sacrificio dedicati all’educazione dei figli, con la loro uscita di casa, si riappropria della propria vita investendo in progetti che non hanno necessariamente i figli come destinatari. Ma se l’uscita effettiva avviene intorno ai diciotto anni, le condizioni perché questa possa realizzarsi vengono preparate molto tempo prima.

Da noi, in Italia, non è così! Oggi come oggi, nel nostro paese, molti giovani rimangono nella casa genitoriale – o, forse, sarebbe più giusto dire che sono costretti a rimanere – fino a trenta, trentacinque, quarant’anni. Ma ciò non è dovuto all’insostenibile costo della vita, alla penuria di lavoro o alla latitanza dello Stato, perché tutte queste realtà sono piuttosto il risultato di un atteggiamento incestuoso di fondo piuttosto che le cause dello stesso. Qui, in Italia – se mi è permesso di anteporre i parametri analitici della psicologia del profondo a quelli politici, economici e sociologici – “l’amore materno” trattiene i propri figli all’interno di un abbraccio protettivo irrisolvibile, mentre i padri li “divorano” – come Cronos nella mitologia greca – per impedire loro di scalzarli dai posti di comando che occupano. Ne è risultata una società vecchia, decrepita, mummificata su valori preistorici; valori che impediscono ai nostri giovani di confrontarsi a viso aperto con le nuove idee e i nuovi stili di vita operanti per il mondo.

Giustificazione solo apparentemente razionale del “mammismo”: l’esistenza di pericoli mortali dai quali la vigilanza genitoriale e l’amore gratuitamente elargito strapperanno i giovani incapaci. I quali, si badi bene, sono stati cresciuti ed educati per avallare questa supposta incapacità. In realtà i giovani italiani per lo più sono un popolo di mammoni viziati, con grosse difficoltà di comprendere e confrontarsi con usi e costumi che vigono nel più vasto mondo perché così sono stati cresciuti. Soprattutto per quello che concerne le più spicciole ed elementari necessità della vita di tutti i giorni: rifarsi il letto, prepararsi da mangiare, lavare pentole e stoviglie, lavarsi mutande e pedalini. Pochi sono in grado di stare soli con se stessi e solo su se stessi di saper contare.

Il viaggio, allora, con le sue incognite, le sue imprevedibilità, i suoi inevitabili disagi, i suoi margini di rischio, non è consigliabile per bambini o ragazzi troppo giovani. Sarebbe terribile se dovessero affrontare tutto questo e, Dio non voglia!, crescere troppo presto.

Nel 2004, per le feste di Natale, eravamo in Senegal in uno sperduto campeggio sulla costa atlantica, vicino a St. Louis. Dopo l’ora di cena, io e Raffaella vedemmo due o tre bimbetti tra i cinque e i sei anni procedere in fila indiana verso le toilette, nel settore lavastoviglie. In mano avevano posate, padelle, piatti e bicchieri sporchi che avevano l’incarico di lavare, asciugare e riportare poi alle tende dalle quali provenivano.

Attenzione: non era un gioco! Era il compito giornaliero che avevano la responsabilità di svolgere.

Dimenticavo: erano tedeschi!

In Marocco invece, sempre in uno sperduto campeggio, incontrammo una giovane coppia di francesi con una bimba di tre anni e uno di… pochi mesi. Viaggiavano con un vecchio Ford Transit camperizzato con il quale si erano quasi ribaltati sulla spiaggia di Dakhla. Ci raccontarono la loro avventura con frasi molto colorite, tra mille risate e spietate prese in giro della propria inesperienza. Come se il tutto, comunque, fosse la cosa più naturale del mondo.

Ma ancora una volta, attenzione: questi non sono incontri sporadici. Solo i più significativi tra i tanti che abbiamo fatto in continuazione viaggiando per il mondo.

Quando partimmo per il Marocco e la Mauritania, per la prima volta portammo con noi Giulia che, all’epoca, aveva nove anni. In quell’occasione la mia compagna, Raffaella, dovette “reggere” una sfilza di accuse e di rimproveri pesanti da parte di amici e parenti: eravamo dei pazzi anche soltanto a immaginare una cosa del genere. Con un nodo fisso alla bocca dello stomaco, la mia donna partì chiedendosi se non fosse una madre scellerata che si era lasciata traviare da un pazzo scriteriato. Come che sia: attraversammo la Spagna e passammo lo stretto di Gibilterra. Poi attraversammo tutto il Marocco, percorrendo “in solitaria” alcune piste della desolata costa sud del “Pelisario”. Stavamo vivendo delle giornate intense e meravigliose ma il sospetto di “un eccesso di leggerezza” ancora aleggiava tra noi. Finché, in mezzo al deserto della Mauritania, sulla celebre “pista della ferrovia”, fummo avvicinati da un gruppo di spagnoli che, come noi, viaggiavano in autonomia. Su un’auto una bimba di tre anni! Su un’altra due ragazzini tra i cinque e i sette. Raffaella tirò il fiato e maledisse l’ottusità della cultura italiana. In seguito, negli anni, e nei luoghi più impervi ed esotici, abbiamo incontrato famiglie con bambini e ragazzi di tutte le età. E come ci disse il papà di tre ragazzine di sette, dieci e dodici anni, incontrati in Botswana: “Le mie figlie vanno dove vado io! Sempre! E’ questo che le fa stare bene. È questo che le fa essere felici!”.

Quel papà, tuttavia, e onor del vero, era italiano. Magari sui generis ma italiano.

Oggi Giulia ha quindici anni. Ha visitato il Marocco, la Mauritania, la Spagna, l’Egitto, il Botswana, la Namibia, il Sud Africa, l’Olanda, la Germania e l’Islanda. È stata a Venezia, Parigi, Berlino, Amsterdam e New York. “Parlicchia” l’inglese, il francese e il tedesco. E in un aeroporto internazionale come La Guardia, sempre a New York, lasciata da sola, avrebbe più probabilità lei di orientarsi e tirarsi fuori da eventuali guai, che non io. Con Raffaella, ci auguriamo che i viaggi e le avventure vissute insieme possano contribuire alla sua più completa apertura mentale e orientarla verso i più significativi valori della vita. Abbiamo tuttavia la consapevolezza che, per quanto possiamo fare, sarà sempre poca cosa nell’oceano di provincialismo che bagna le coste del nostro paese. Perciò, nonostante tutti i nostri sforzi, possiamo solo sperare che, nel tempo, Giulia sappia trovare dentro di sé forze autonome capaci di guidarla lungo le strade di quel “villaggio globale” nel quale il mondo intero si sta trasformando. Possiamo solo sperare che sappia divenire protagonista attiva della propria vita, che sappia sognare un futuro diverso e “altro” da quello che noi stessi potremmo immaginare per lei e, soprattutto, che sappia evitare di rimanere intrappolata negli angusti meandri che questo nostro vecchio paese propone.

Oltre che sperare, ovviamente, facciamo quello che possiamo per spronarla e stimolarla.

Fu in quest’ottica che partorii l’idea di dare la parola anche a lei e offrirle l’occasione di raccontare se stessa in un libro di viaggi così bizzarro come quello che state leggendo. Ho creduto che per Giulia potesse essere educativo confrontarsi con le emozioni e i pensieri suscitati dai viaggi fatti insieme; e mi sono augurato che tutti coloro che leggeranno queste pagine possano trovare interessante acquisire l’esperienza di una adolescente attraverso le sue stesse parole.

L’occasione giusta è arrivata con il viaggio programmato per la fine dell’anno 2010. Destinazione Libia. Per me e Raffaella, dopo cinque anni di Africa nera, sarebbe stato un ennesimo ritorno al Grande Erg, e per questo, come incentivo, ci eravamo proposti di raggiungere le sabbie nere del vulcano Wau en-Nam us situato nel cuore del Sahara libico. Un luogo fantastico e magico – ci avevano assicurato amici viaggiatori incontrati più o meno occasionalmente – ma che non eravamo mai riusciti a raggiungere nei nostri precedenti viaggi.

Giulia, invece, per la prima volta si sarebbe trovata a “cavalcare” dune ben più gigantesche di quelle che fino a quel momento aveva “cavalcato” in Namibia o in Mauritania. E poi, orizzonti infiniti. Solitudine. Profondi silenzi. Campi tendati isolati e molto freddi. Il fuoco dei campi nell’oscurità della notte. E in cielo, un tripudio di stelle.

Come avrebbe reagito? Abituata al bombardamento asfissiante di migliaia di stimoli sensoriali si sarebbe annoiata, o avrebbe aperto la sua giovane anima a percepire il sussurrio del mondo?

Lascio a lei la parola.
****

È il 17 dicembre 2010. A Bracciano nevica! A Bracciano – dove ci siamo trasferiti da soli tre mesi – la neve viene giù fitta, imbianca case, alberi e strade rendendo questa piccola località lacustre vicino Roma molto più simile ad una stazione sciistica del nord Italia. Sono già due anni che in inverno nevica in maniera inattesa ma abbondante, quasi che questo piccolo paese si compiacesse di realizzare una scenografia degna del periodo natalizio.

– Hai preso gli scarponi? – questa invece è mia madre che urla – Le magliette a manica lunga? E i calzini? Forza… dai, mancano quattro giorni e siamo ancora a “carissimo amico”!

E questo, invece, è il genere di atmosfera che si respira in casa nostra quando comincia ad avvicinarsi il giorno della partenza, specie se ci si trova appunto in periodo natalizio: mentre la maggior parte dell’umanità sta impacchettando i regali e preparando le bottiglie di champagne per il nuovo anno, noi siamo qui a contare i calzini da mettere in macchina!

È il 20 dicembre. La neve ha smesso di fioccare ma Bracciano, almeno in parte, è ancora bianca. Sono i miei ultimi giorni di scuola prima delle vacanze. Il deserto libico – che sarà la meta del viaggio che stiamo per realizzare – si avvicina sempre di più. Comincio a presagire il tepore dei 22° che ci aspettano (ahimè solo di giorno; la notte rischieremo lo zero per via dell’escursione termica). Nel frattempo, tra un compito pomeridiano e l’altro, la spunta dell’inventario prosegue senza problemi: calzini, mutande, magliette, scarpe, fazzoletti, sono tutti presenti all’appello.

Soltanto qualche anno fa, per Natale, anch’io come tutti i ragazzi del mondo mi aspettavo dei regali da scartare sotto l’albero: non vedevo l’ora di avere le “mie” nuove bambole, i “miei” nuovi vestiti.

A un certo puto, però, mi sembrò di capire che per quanto un regalo potesse essere bello, sarebbe sempre stato una “cosa”, un oggetto creato da qualcun altro… mentre i viaggi sono una “idea”, una visione del mondo di qualcuno, un modo originale di pensare che non si può impacchettare e mettere sotto l’albero ma al quale si può essere invitati a partecipare. Per scoprire nuovi mondi, altri modi di vivere la vita in ambienti differenti e lontani da quelli ai quali si è abituati.

È un pensiero che si è fatta strada piano piano in me: a mano a mano che avevo occasione di viaggiare e di scoprire realtà che non avrei mai nemmeno immaginato.

22 dicembre. Finalmente siamo partiti. Bracciano – Civitavecchia. Nave per Tunisi. Traversata quasi tranquilla… di certo non peggiore di quella durata tre giorni per l’Islanda, con mare agitato. Poi Tunisi, Hammamet, frontiera libica, Zuara.

Stiamo percorrendo gli ultimi quattrocento chilometri che ci porteranno a Gadamès, vera e propria porta sul deserto libico. O, almeno, così mi hanno assicurato…

Mi annoio. Allora tanto vale che mi metta a studiare. Ne ho di compiti da fare…

C’è da dire che ormai l’asfalto non m’interessa più di tanto. In questi ultimi anni ne abbiamo percorsi così tanti di chilometri. A volte addirittura più di 1000 chilometri al giorno. E pensare che quando ero piccola soffrivo il mal d’auto. E anche se mamma non ci credeva più di tanto, a me faceva male la pancia dopo le prime tre curve. Adesso non più!

Presto però scoprii il fascino del fuoristrada. Ancora me lo ricordo, perché era la prima volta che viaggiavo in Africa. Eravamo in Marocco. A un certo punto lasciammo la strada carrozzabile e prendemmo una pista che ci portò fino alle propaggini di Plage Blanche: 60 km di bagnasciuga.

Noi, abituati allo stereotipo italiano di bagnasciuga, abbiamo in testa l’idea di una spiaggia con molti ombrelloni, gente che gioca a palla e miriadi di bambini che corrono fra la sabbia; li, era un tantino diverso: eravamo noi, la sabbia, l’acqua e se proprio doveva essere affollato, qua e là potevi trovare un relitto di nave. Ma nient’altro. Forse sarà per questo che, su quella lunga spianata di sabbia sfiorata dall’oceano, per la prima volta in vita mia ho guidato un’auto.

Insomma… dire che ho guidato, forse, è eccessivo… Diciamo che seduta davanti a Piero tenevo il volante, mentre lui muoveva i pedali. La sensazione però era fortissima!

Penso proprio che la solitudine dei luoghi sia uno degli ingredienti capaci di far innamorare di questa terra chiunque ci metta piede.

Da allora quante storie: mi ricordo ancora l’uomo dell’acqua, nel bazar di Rabat. Loro non hanno i bar, dove entri e chiedi un bicchiere d’acqua dal rubinetto; ci sono però dei signori che girano per le strade con enormi barili d’acqua sulle spalle e un tubo che la fa scendere direttamente in un bicchiere posto su un vassoio pieno di decorazioni!

Mi ricordo di quando eravamo in dogana, fra il Marocco e la Mauritania. O meglio, eravamo nella terra di nessuno tra le due dogane, aspettando il momento di poter passare. Avevo urgente bisogno di andare in bagno e l’unico cespuglio abbastanza alto da coprirmi almeno mezzo busto era in un campo a poche decine di metri da me. Insomma, ho cominciato ad avviarmi fra le erbacce e i sassi per raggiungere quel cespuglio, quando da un punto imprecisato delle mura doganali si alzarono delle urla feroci. Le ignorai! Magari provenivano dai soliti muezzin che stavano chiamando i fedeli alla preghiera… perciò non era nulla che mi riguardasse.

Continuai a camminare. Anche le urla. Anzi aumentarono.

Ad un certo punto erano così forti che mi girai, più che altro per la voglia di impicciarmi nelle discussioni della gente. Ma una volta girata mi resi conto che le urla erano rivolte a me.

Piccolo problema: mi urlavano in arabo e io, ecco, non capivo poi molto. Alla fine però, dai gestacci indirizzati verso di me, realizzai che dovevo tornare indietro.

Ero così incavolata e avevo una vescica così piena che mi ritrovai a litigare con mamma per un motivo che nemmeno mi ricordo.

Qualche settimana dopo, stavamo ascoltando il telegiornale. In Italia, ovviamente; e ad un certo punto sentiamo un giornalista raccontare di una mina scoppiata proprio in quella dogana, fra il Marocco e la Mauritania, e che aveva ucciso una famiglia di francesi: il loro fuoristrada aveva appena posato le ruote fuori dal tracciato e una mina li aveva fatti saltare in aria.

A quel punto mi resi conto del rischio che avevo corso solo per fare una pipì, ma in ogni caso l’avevo scampata…

E poi ricordo la tempesta di sabbia che a mementi ci seppellisce durante la notte, e la insabbiata paurosa nella quale finì Piero mentre io gli ballavo intorno tutta felice, senza rendermi conto che avremmo potuto rimanerci tutta la notte. Mi ricordo della “Fattoria degli Animali”, in Namibia, che invece di mucche, polli e galline aveva leoni, ghepardi e grandi scimmie. Mi ricordo il leoncino che accarezzai e con cui giocai per alcuni buoni minuti. Mi ricordo la puzza insostenibile delle foche a Cape Cross, i fantastici centri commerciali pieni di negozi bellissimi di Cape Town. Mi ricordo la Grande Sfinge e le grandi piramidi di Cheope e Micerino. Mi ricordo i magici tramonti del sole, tra il verde brillante delle palme e il blu intenso del Nilo.

Ok! Basta con i ricordi. I chilometri sono scivolati sotto le ruote della Toyota e Gadamès è alle porte. Cioè… noi siamo alle porte di Gadamès.

Passiamo la notte in un albergo della città nuova. La mattina andiamo a visitare l’antica città berbera, semisotterranea e abbandonata, della quale Piero mi parlava frequentemente convinto che mi sarebbe piaciuta da impazzire e che mi sarebbe rimasta impressa per sempre nel cuore… e invece la vecchia città non suscita in me lo stesso stupore che suscitò in lui tanti anni fa. Sicuramente è un bel luogo, caratteristico, accogliente e chi più ne ha più ne metta, ma decisamente non è il mio posto.

A Gadamès, o subito dopo, sulla strada, scopriamo con orrore che il serbatoio supplementare della nostra macchina perde nafta. In realtà, al ritorno dall’Islanda, lo avevamo già fatto saldare, in Italia, ma evidentemente non era stato saldato a regola d’arte e, a forza di dune e ciottoli, ora ha ceduto di nuovo. Percorriamo all’indietro cento chilometri di asfalto e, per fortuna, troviamo una specie di officina in un minuscolo paesino, sempre alle porte del deserto. Dovranno tirarlo giù e saldarlo di nuovo. Siamo tutti perplessi sulle capacità di questo meccanico che, in una buca scavata nel terreno, lavora sotto il telaio dell’auto. Piero, però, ha una fiducia illimitata nelle capacità dei meccanici africani; e così siamo tutti qui ad aspettare che il serbatoio sia aggiustato.

Nell’attesa c’è chi mangia panettone e pandoro, come me, e chi invece se ne va in giro a fare delle foto; c’è anche chi sonnecchia sdraiato sul sedile dell’auto e chi ascolta musica. Dopo circa quattro ore la macchina esce sana e salva dall’officina e noi siamo pronti a ripartire: l’abbiamo scampata bella, anche se percepisco la paura di Piero che il serbatoio possa tornare a perdere.

Ci inoltriamo nell’erg di Awbari. All’inizio solo roccia e sassi. Do uno sguardo ai compiti:

ESERCIZIO: Declina sul quaderno la parola “Rosa, rosae” riportando in una tabella i casi e il genere. Se necessario consulta il dizionario.

Davanti a noi le propaggini del deserto, la mia attenzione barcolla…

Rosa, rosae, rosae, rosam, o potrebbe essere rosis, oppure rosarum..

La mia attenzione va scemando…

Forse: rosae rosarum rosis rosas rosae rosis, no, questo è il plurale.

È stato sufficiente che le ruote siano entrate sulla sabbia che il mio interesse per il latino è scolorato, piano piano. Penso che per oggi posso anche smettere di studiare. Guarda che duna!

Chissà se in latino duna si dice duna o dauna o douna… ho deciso che per ora mi accontenterò di saperlo in italiano, poi un giorno ci penserò. Forse…

Per quattro giorni viaggiamo nel “nulla” tra spianate di piccoli ciottoli che sembrano infinite, gole rocciose, tratti sabbiosi, gobbe e piccole dune. Maciniamo chilometri per ore e ore. Quando non siamo in movimento, invece, non facciamo altro che montare e smontare campi.

Saranno stati i lunghi anni di campeggio itinerante che hanno fatto di noi tre i più abili apritori di tende del gruppo; io, Piero e mamma, quando facciamo campo, non abbiamo nemmeno bisogno di dirci le cose: ognuno ha i suoi compiti. Ogni gesto è coordinato a quello degli altri, e ognuno lo esegue senza neanche starci a pensare. Sta di fatto che siamo sempre i primi ad avere la tenda aperta la sera e i primi pronti a partire la mattina.

Così, proprio una mattina, nell’attesa che gli altri smontino il loro campo, riesco a convincere Piero a farmi guidare la macchina. Quando glielo chiedo lo vedo assentire sornione e penso: strano che tutto d’un tratto si fidi così tanto di me da farmi guidare la sua Toyota nel deserto. Di fatto, però, così è, e a suo rischio e pericolo alla fine accendo il motore dell’auto.

Era tanto che aspettavo questo momento e non vedo l’ora di ingranare la marcia e spingere sull’acceleratore a più non posso. Tutte le mie energie sono concentrate sui piedi, soprattutto sulla frizione! Premo appunto la frizione, metto la prima, do un po’ di gas e nel frattempo comincio a lasciare piano piano il pedale della frizione: la macchina parte!

Accenno un sorriso, ma non sarà ufficiale fino a quando non andrò più veloce: ingrano la seconda, poi la terza. Sto andando veloce e ora la mia felicità è più che ufficiale! Non so per quale motivo ho questa passione per la guida ma ciò che penso è che guidare un fuoristrada nel deserto non ha prezzo! Faccio ampi giri, sempre attenta a non sterzare troppo di scatto. La guida su sabbia, dice Piero, deve essere morbida e fluida.

Come tutte le cose belle anche la mia esperienza di guida è terminata; cedo il posto al pilota vero e proprio e partiamo. I paesaggi cambiano di continuo: dal Reg passiamo all’Erg e, subito dopo, viceversa. Mi fanno notare la differenza fra i due: il Reg è un deserto di tipo sassoso mentre l’Erg è di tipo sabbioso. Tra l’uno e l’altro mille situazioni intermedie.

Provo di nuovo a fare qualche compito:

ESERCIZIO: Bin, bist, ist, shid, seid? Completa le forme verbali.

1.Wir……….. die Eltern von Christian

2.Wie viege………. Ihr zu Hause?

3.Wer………… du? Ich………… der Bruder von Martina

4.Mein Vater………… Manager

Non c’è niente da fare… anche completando le frasi con le forme verbali adatte con la coda dell’occhio scorgo paesaggi in continua trasformazione che distolgono la mia attenzione. Abbasso la testa e mi sforzo di non vedere. È l’unica strategia che mi viene in mente.

Quando rialzo lo sguardo mi accorgo che intorno a noi tira un vento violento e implacabile. Sarà che in questo viaggio la sfortuna è la nostra mascotte ma una proto-tempesta di sabbia è l’ultima delle esperienze che non avrei proprio voluto ripetere. Per fortuna siamo sopravvento alle grandi dune e, dunque, non ci sono pericoli. Purtroppo però è ora di fare campo e siamo costretti a cercare un qualsiasi riparo dal vento. Dopo una buona mezzora di ricerca troviamo un grosso e caratteristico rialzo terroso formato, come mi diranno in seguito, dalle radici appiccicose di una grossa pianta di tamerice. La sabbia si attacca alle radici appiccicose di questa pianta e così la tamerice sale di quota formando ai suoi piedi una collinetta di terra. Questo cono terroso, per l’appunto, ci riparerà dalle raffiche di vento. O, almeno, avrebbe dovuto: ci chiudiamo in tenda senza poter cucinare la cena e la notte, mi racconteranno, è stata infinita e stressante, con il vento che infuriava incessantemente sulle pareti dell’Air Camping impedendo a tutti di dormire. Scrivo “mi racconteranno” perché sono stata l’unica che è riuscita a dormire, perciò per me è stata una notte come tante altre e non ho nemmeno fatto caso alla tenda che traballava! La mattina, all’alba, sono l’unica senza occhiaie, anche se altre quattro o cinque ore di sonno non mi avrebbero certo infastidito!

Le giornate passano senza che quasi ce ne accorgiamo: vallate di sabbia con pinnacoli dalle forme bizzarre, colline rocciose, tratti duri e sassosi, passaggi ripidi su scivoli sabbiosi, scavalcamento di dune, oued asciutti e chott ancora umidi. Stiamo sfiorando le propaggini di Awbari.

Un giorno, dopo molti chilometri di sabbia e qualche insabbiamento pesante, raggiungiamo un palmeto. Qui, sia Piero sia Paolo, il pilota dell’unico altro equipaggio che sta viaggiando con noi, realizzano definitivamente che il tour leader che ci sta guidando non è troppo affidabile.

 

Per questo a un certo punto bloccano le loro auto in uno spiazzo di sabbia dura e si rifiutano di proseguire. Finisce che campeggiamo molto prima del tramonto e la mattina presto ripartiamo di corsa. Andiamo di fretta perché tutti vogliamo sbrigarci a uscire da questo palmeto che potrebbe rivelarsi un labirinto pericoloso… a maggior ragione se attraversato senza un percorso definito e con scarse competenze di guida di chi funge da apripista. Come che sia, troviamo l’uscita, scendiamo su un pianoro sabbioso e dopo altri chilometri di sterrato e di fastidiosa tôle ondulée, alla fine raggiungiamo Sabha: finalmente una doccia. Dopo quattro giorni di campo mi sembra una sensazione sconosciuta quella dell’acqua che scivola sulla pelle depurandola, rinfrescandola e pulendola dalla sporcizia accumulata… e devo dire che mi piace! La sera, all’hotel, arriva il resto del gruppo: i nordici (come li chiamerò io) che staranno con noi fino al sette o all’otto gennaio, non lo so di preciso. So solo che uno degli ultimi arrivati ha una moto fantastica: è la moto che – sento dire da Piero – ha vinto più volte la Parigi-Dakar e quindi mi aspetto di vedere all’opera un gran motociclista. Purtroppo mi sbagliavo! Con l’arrivo del tour leder titolare credevamo, infatti, che i nostri problemi fossero finiti, e invece, a causa di questo pilota, stavano per ricominciare.

La mattina partiamo e ci dirigiamo verso quella parte del deserto libico che ci porterà alla nostra meta più ambita: il vulcano Wan en-Namus. Asfalto per una cinquantina di chilometri, poi sterrato. È il primo tratto di sterrato che affrontiamo tutti insieme: una curva, due curve e il motociclista cade. Si rialza: dieci metri, venti, e il motociclista ricade. Lo aiutano a mettersi in piedi e pare che sia ancora intatto. Gli consigliano di prendere per l’asfalto e raggiungere in questo modo Al-Katrun che noi raggiungeremo invece attraversando le propaggini basse del Murzuq. Ci dividiamo.

Già ero stata tra le dune, in Mauritania; sapevo cosa mi aspettava.

Già ero stata nei gassi (corridoi tra le dune), ne avevo un ricordo piuttosto nitido.

Già avevo camminato sulla cresta di una grande duna, conoscevo quella sensazione.

Tuttavia, quando l’enorme piattone sul quale stiamo macinando chilometri da più di un’ora, incontra il primo cordone di dune tutto quello di cui poco prima ero sicura, svanisce. Al posto delle vecchie certezze un’altra domanda: come può esistere questa bellezza? Una bellezza così diversa, indescrivibile, senza confini. Sembra di essere fuori dal mondo: solo l’azzurro del cielo e il bianco della sabbia che il sole rende accecante. Le propaggini del Murzuq continuano ad avvicinarsi… a mano a mano le dune si ingrandiscono e noi diventiamo sempre più piccoli ed insignificanti.

Fra un’insabbiatura e l’altra ci facciamo strada tra i vari cordoni, ed anche quando l’andamento delle dune ci costringe nella direzione sbagliata riusciamo sempre, in un modo o nell’altro, a tirarci fuori dai guai. Ancora un incidente: si blocca l’accensione della seconda moto. Sembra un problema irrisolvibile e stiamo per caricarla sul pick up, quando all’improvviso la moto riparte. Probabilmente un falso contatto, però continuiamo a perdere tempo. Peccato. Siamo costretti a tagliare una parte del percorso e alla fine, troppo presto, usciamo dal Murzuq. Sull’asfalto, nei pressi di Al-Katrum, incontriamo il primo motociclista che si lancia veloce sull’asfalto… prende una buca e… spacca un cerchione. Mentre perdiamo altro tempo per ripararlo faccio delle considerazioni: è così fragile la nostra coscienza? Quanto facilmente può accadere a chiunque di sopravvalutare le proprie possibilità solo perché si è incapaci di riconoscere i propri limiti? Evidentemente il motociclista ha bisogno di conferme, oppure di accrescere la propria autostima… ma non penso sia questo il modo migliore per farlo. Il giorno successivo le mie peggiori previsioni si avverano: dopo altre pericolose scodinzolate e sciocche cadute, il pilota si ritira lasciando la guida della propria moto ad un aiutante del team. Alla fine la moto si rompe del tutto. Con grande perdita di tempo la leghiamo ad un gancio del pick up del tour leder e iniziamo una corsa contro il tempo che, ovviamente, continueremo a perdere.

Sebbene a malincuore riapro i libri. Magari ci scappa un altro esercizio. Vediamo: l’inglese è la lingua che conosco meglio, almeno per ora. Perciò, proviamo un po’ di francese:

ESERCIZIO: Complétez avec le mot approprié

1.Hans est né à Vienne. Il parle allemand. Il est…………

2.Daniel habite et travaille à Dublin. Il parle anglais. Il est…………

3.Ali habite à Casablanca et il parle arabe. Il est………………

Casablanca! Mi ricorda il Marocco. Uffa… non mi devo distrarre!

ESERCIZIO: Complétez en choisissant la locutivo qui convient.

1.Nous allons nous promener……………….. la rivière.

2.Cette maison est trop isolée: elle est……………………. Tout.

3.……………………. chez moi, il y a un supermarché.

4.Anais habite………………….. mon école.

Più di così non posso fare. Ci ho messo tutta la mia buona volontà. Qualcosa ho fatto. Il resto lo finirò sulla nave nel lungo viaggio di ritorno. Sembra che, a causa di uno scalo a Palermo, la traversata durerà due giorni. Che strazio….

Sento Piero e mamma che sono nervosi. Hanno paura che, a causa dei continui ritardi, avremo poco tempo per goderci la meta vera e propria del nostro viaggio che, a detta di tutti, ci dovrebbe donarci uno spettacolo di rara bellezza. I motori ruggiscono. Le auto corrono veloci sulla sabbia dura. Proseguiamo l’avvicinamento. Oramai dovremmo esserci.

Il Wan en-Namus è un antico vulcano posto nel cuore del deserto libico; un tronco di cono nero che si solleva dalle sabbie gialle e al cui interno si nascondono tre laghi e un’atmosfera paradisiaca. Oramai siamo vicini. Davanti a noi l’orizzonte si fa sempre più scuro fino a diventare quasi nero, ma del cratere vulcanico nessuna traccia. Proseguiamo. Ancora niente… ma il terreno comincia a salire. Allora ci siamo sopra!!! Tutto d’un tratto la salita finisce e l’auto si affaccia sul vuoto: davanti ai nostri occhi uno dei più straordinari spettacoli naturali che io abbia mai visto. Un grido di gioia, stupore e commozione non esita a uscire dalla nostra bocca alla vista di un così meraviglioso paesaggio. Poi tutti facciamo silenzio; per un attimo mi chiedo se non sono vittima dell’ennesimo miraggio… ma avvicinandomi ancora un po’ mi rendo conto che ciò che vedo esiste realmente ed è bellissimo. Decisamente un insieme perfetto: un cerchio nero e liscio di sabbia. Dentro il cerchio, una montagna (la caldera) e sotto di essa tre laghi, canne, palme e sabbia. Come direbbe mia madre, un paesaggio da cartolina! Con una ripida discesa scendiamo al suo interno e passiamo alcune ore a scattare foto.

Dobbiamo ripartire. Con una lunga rincorsa risaliamo il cratere che la mattina avevamo disceso e riprendiamo la corsa per il ritorno.

Mamma mi ricorda i compiti. Non ne ho alcuna voglia. Ok… cercherò di fare la brava.

ESERCIZIO: leggi e commenta il libro di Italo Calvino “Il cavaliere inesistente”

Leggo, leggo… ma come si fa a pretendere che la mia attenzione sia presa? Non sono più interessanti i paesaggi che sfilano dal finestrino? E poi, senti che scossoni… come faccio a leggere?

Va bene, va bene: leggo!

È così che si allontanano i ragazzi dalla lettura…

Mentre ci lasciamo alle spalle il Wan en-Namus si rompe il gancio che teneva la famigerata moto ancorata alla macchina e siamo costretti a fare campo in quel punto. Calvino dovrà aspettare.

L’atmosfera è piuttosto tesa ma per fortuna la notte passa veloce. La mattina, mentre aspettiamo il pick-up libico (avvertito via satellitare) che porterà via la moto, noi, altre due auto e la moto superstite decidiamo di partire verso la destinazione del giorno: una guest house isolata (che però dovrebbe avere delle docce fruibili e una riserva di nafta) a soli sessanta chilometri dal punto in cui stiamo fermi, oramai da troppo tempo. Partiamo, ma non arriveremo a destinazione. Ad un certo punto, infatti, per l’incertezza di Piero nell’imporre agli altri la propria volontà, seguiamo una traccia sbagliata. Di fatto ci perdiamo.

Siamo in tredici, sei di noi non hanno i passaporti giacché il direttore dell’albergo di Sabha li ha trattenuti per dei controlli, non abbiamo il poliziotto di scorta perché è rimasto con gli altri, la macchina dei nordici sta per terminare la nafta e la moto è entrata in riserva… ah, quasi dimenticavo: siamo in mezzo al deserto!

Seguendo sempre la traccia sbagliata arriviamo in un luogo sperduto che somiglia a un benzinaio. Di fatto è una pompa di benzina militare, ma fuori uso! Fortunatamente, in questo posto isolato, ci sono altre forme di vita simile alla nostra (militari di leva) e in un modo o nell’altro, dopo alcune telefonate al comandante della base aerea che si trovava li vicino, e altre ore di estenuante attesa, riusciamo ad avere cento litri di nafta e venti litri di benzina per la moto. Ripartiamo.

Ora vorrei sottolineare un piccolo dettaglio, che stavo quasi per dimenticare: proprio oggi, una giornata così piena di emozioni, adrenalina e avventure, è il giorno del mio compleanno! Come sarà, un giorno, raccontare ai miei nipoti il modo in cui ho trascorso il mio quindicesimo compleanno?

– Eh… ragazzi miei, io all’età vostra non ero mica a casuccia a pettinare le bambole, bensì nel bel mezzo del deserto libico, senza benzina, né poliziotto al seguito, né documenti; quelli si che erano bei tempi!

In ogni caso, dopo questo “piccolo” smarrimento, raggiungiamo il resto del gruppo e proseguiamo la nostra corsa verso i laghi del Mandara, situati nell’ultimo braccio dell’erg di Awbari. Il secondo giorno, sul far della sera, entriamo nell’erg e ricominciamo a saltare tra le dune nel tentativo disperato di arrivare ad un campo decente prima che faccia buio. Mancano pochi chilometri al primo lago secco quando l’altro motociclista, che in tutti questi giorni ha guidato ininterrottamente dall’alba al tramonto, sempre inseguendo il tempo che non si lascia prendere, dichiara di non essere più in grado di andare avanti. Almeno per quella sera. Perciò facciamo campo tra le dune.

Subito dopo cena, come al solito, accendiamo il fuoco e ci mettiamo seduti in circolo per chiacchierare e commentare le esperienze del giorno. Ad un certo punto cominciano tutti a farmi gli auguri di compleanno. Penso: è l’atmosfera delle dune o sono tutti impazziti? Gli auguri me li hanno già fatti ieri, perché mai dovrebbero rifarmeli? Non faccio in tempo a terminare il pensiero che inizia una raffica di fuochi d’artificio! È veramente uno spettacolo grandioso vedere i fuochi d’artificio fra le dune e in più sapere che sono in onore del mio compleanno. Devo ammetterlo: sono emozionata! Fontane di blu, rosso, bianco, giallo, viola, fucsia accendono la notte e le dune, completando lo sfondo, creano un’atmosfera magica.

La mattina siamo pronti per visitare i laghi del Mandara. Il primo è un lago secco; qui nemmeno ci fermiamo, siamo diretti a Um el Ma: l’oasi per eccellenza. Uno dei laghi più belli della Ramla dei Dauada, nell’erg di Awbari… Anche questo è un posto da cartolina: dune sui due lati, acqua azzurra al centro e palme sul bordo; mettiamoci anche il riflesso delle dune sull’acqua e abbiamo la perfetta combinazione fra due tra i principali elementi della natura. Nei miei viaggi non può mancare un ritaglio di tempo dedicato allo shopping, per cui con un passo felpatissimo mi avvicino alle bancarelle dei tuareg. I tuareg sono gli uomini nomadi che popolano il deserto. Alcuni di essi compiono una sorta di peregrinazione continua tra Mali, Niger, Libia e Algeria; ma ora sono qui, interessati e pronti a mostrarmi la loro merce. Dopo qualche trattativa riesco a comprare un anello e una scatolina d’argento con una pietra sopra: penso si tratti di ambra. Purtroppo il tour leader ci porta via e i miei acquisti si riducono a un anellino e una scatoletta.

Ci aspetta un’ultima giornata di saliscendi fra le dune, insabbiature, pericolosi salti con le auto (assolutamente non previsti) e, per finire, trenta chilometri di corsa sfrenata su una bellissima distesa di sabbia in un paesaggio da fiaba. Nessuno può immaginare quanto invidio Piero che guida: quasi non riesco a tenere a freno la voglia di afferrare il volante e occupare il suo posto, ma come mi ricorda sempre anche mamma, quasi volesse rigirare il dito nella piaga, mancano ancora tre anni, tre anni di lunga attesa. Mi faccio una promessa: da grande lo farò anch’io! Guiderò nel deserto! Giuro! Questo farà parte del mio futuro.

Giulia Damiani 28.01.2011

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E’ luogo comune che le cose di cui alla fin fine apprezziamo davvero il valore o la bellezza siano solo quelle che abbiamo “conquistato” a prezzo di un enorme dispendio di energie.

Sono sicuro che questo “luogo comune” apparirà a molti lettori retorico e antiquato. E io stesso, tanto per fare un esempio – nonostante come ex alpinista sia stato uno dei firmatari della protesta contro la costruzione della funivia che avrebbe attraversato il Monte bianco – oggi, a protesta ignorata e a funivia realizzata, pur continuando a pensarla sempre nello stesso modo, non potrei mai negare il valore estetico della traversata che unisce punta Helbronner alla Aiguille du Midi. Sempre oggi, un piccolo aeroporto collega tutto il mondo alle cascate Vittoria, uno degli spettacoli più straordinari del continente Africano, per raggiungere le quali Davide Livingstone impiegò mesi e mesi di viaggio superando difficoltà inenarrabili. E un treno modernissimo ha sostituito la vecchia cremagliera che – quando ebbi la fortuna di andarci negli anni ’90 – ancora collegava Cusco all’ultimo tratto del “Camino Real”, grazie al quale si raggiungeva, a piedi, Machu Piccho.

Il mondo si è fatto piccino picciò, tutto è alla portata di tutti e, soprattutto, è opinione comune che, pagando, chiunque possa pretendere di goderne a pieno diritto. Le tecnologie più avanzate e i servizi più lussuosi sono state messi a disposizione per realizzare tali pretese anche se, così facendo, abbiamo ridotto l’energia che prima era necessaria per realizzare i nostri desideri e, in definitiva, abbiamo depotenziato il nostro stesso desiderare. Abbiamo “intasato” di infrastrutture turistiche i luoghi più belli del mondo, con ciò devastandoli e, alla fin fine, abbiamo sminuito il valore di molte esperienze di viaggio. Perciò non è poi così raro trovare qualche turista annoiato e deluso che vaga tra le rovine di Angkor Wat, o nel lungo canyon che immette alle porte di Petra o tra le rive scoscese delle Epupa falls.

Non c’è nulla da fare! Le cose stanno così e così, purtroppo, continueranno a stare.

Ciò non toglie che, almeno per me, proveniente dalla vecchia cultura degli anni ‘60, le “cose” conquistate con fatica e sudore continuano ad avere un sapore tutto particolare.

A questo genere di realtà appartiene il vulcano Wan en-Namus, situato al centro del deserto libico. Nessun aeroporto. Nessuna pista vera e propria. Nessuna situazione di accoglienza nelle immediate vicinanze. 500 chilometri di “vuoto” tutto intorno. E anche se i 4×4 attuali sono dei mezzi tecnologici di tutto rispetto, ci vogliono almeno cinque giorni per arrivarci e tornare indietro: da Sabha ad Al-Katrun, attraversando le propaggini basse del Murzuq. Poi il superamento dei corridoi rocciosi del Jabal Bin Ghanimh che immettono nelle desolate spianate sabbiose nel cui ventre caldo il vulcano si nasconde. Sabbia e tratti rocciosi che si avvicendano. A dieci chilometri di distanza dalle pendici nere del basso cratere, bisogna superare “sacche” infide di fech fech bianco, ben nascoste sotto il manto di lapilli neri che ricoprono la zona, poi una estesa zona di dunette barcana, composte solo di sabbia nera ma dure come il granito (perché compattate dal vanto e dal gelo notturno), e infine la risalita dolce delle propaggini esterne del cratere vero e proprio.

Il muso della nostra Chicca punta verso l’azzurro del cielo. Ci siamo staccati dal gruppo – che è rimasto in basso a scattare fotografie – e stiamo salendo piano per amplificare l’aspettativa del momento. Poi la pendenza diminuisce, il muso della Chicca si abbassa e… noi gridiamo, tutti insieme, folgorati dalla bellezza che improvvisamente si svela ai nostri occhi. Un bacino nero e rotondo, di circa quindici chilometri di diametro. Al centro la caldera: una piramide di roccia magmatica di color ocra scuro. Alla base della caldera tre laghi, di diverse sfumature di azzurro. Due salati e uno di acqua dolce. Il verde delle canne che proteggono i laghi e poi il verde più scuro di alcuni piccoli palmeti sparsi. Se soltanto ci fossero degli animali che pascolano potrebbe sembrare una piccola copia del giardino dell’Eden, il giorno dopo la sua creazione. Siamo tutti sopraffatti dall’emozione. Solo questo breve momento è valso tutto il nostro viaggio. Erano dieci anni che desideravo arrivare in questo luogo. Sul vulcano Wan en-Namus avevo letto tutto ciò che era stato pubblicato e conoscevo perciò tutto quello che era possibile conoscere; avevo visionato tutte le foto che Google Earth aveva dedicato al punto geografico. Dunque, ero preparato… sapevo e conoscevo ciò che avrei trovato. Ma nulla valeva il semplice fatto di essere lì… e guardare con gli occhi, udire con le orecchie il silenzio assoluto, sentire gli odori, percepire con la pelle il calore del sole e il freddo dei venti invernali, assaporare la sabbia tra i denti. Essere lì, e sentire il desiderio di fagocitare quel luogo per farlo proprio, divorarlo, ingurgitarlo, incorporarlo, possederlo per sempre e non perderlo… pur sapendo che non sarebbe stato possibile. Pur sapendo che presto, troppo presto, quel momento sarebbe rimasto alle nostre spalle, e noi lo avremmo perduto… pur sapendo che di esso non ci sarebbe rimasta che una sorta di struggente nostalgia. Oppure il dubbio se tutto ciò che avevamo sperimentato e vissuto non fosse per caso stato solo un sogno, costruito dalla nostra anima con la materia evanescente dei sogni.

Il nostro viaggio era stato caratterizzato da una serie continua di difficoltà e di incidenti, e per arrivare fin lì e vivere quel momento avevamo dovuto forzare la nostra andatura e spendere tutte le nostre energie. Ciò nonostante, o forse appunto per questo, io e Raffaella ci sentivamo appagati e soddisfatti come se avessimo raggiunto insieme un travolgente orgasmo estetico.

Ma Giulia? Come aveva vissuto Giulia le alzatacce mattutine, le marce forzate, i campi notturni, le notti gelate, i momenti di difficoltà, i piccoli incidenti, le lunghe ore di tôle ondulée micidiale?

Sperando di essere creduto direi che Giulia sia stata impeccabile! E che se già in passato aveva dato prova di spirito di adattamento, disponibilità, impegno, coraggio e tanta, tanta pazienza, questa volta poteva a tutti gli effetti essere proclamata una vera e propria “piccola viaggiatrice”.

Un aneddoto renderà l’idea meglio di tante parole: siamo al ritorno dal vulcano; abbiamo avuto incidenti, ritardi, ci siamo persi nel deserto e marciamo da dieci ore a ritmo forsennato su una tôle ondulée tra le più terribili che si possa immaginare. Mentre ancora procediamo, nelle prime ombre della sera, comunico a Raffaella il mio dubbio sulla possibilità che la guida voglia portarci fino a Sabha anziché fermarsi a Germa come era previsto. Significherebbe dover percorrere centoventi chilometri in più e poi rifarli al contrario l’indomani. Non ho finito di parlare che Giulia, con tutto il candore del mondo, mi fa:

– Va bhé Piero, che vuoi che sia. Sono “solo” centoventi chilometri di asfalto!

Io e Raffaella ci guardiamo costernati: per un attimo abbiamo il sospetto di aver creato un “mostro.

Un altro dei cinque equipaggi che componevano il nostro gruppo, era formato dal mio vecchio amico, Paolo – quello con cui ero stato in Algeria – la moglie Patrizia e i suoi due figli Filippo e Francesco (rispettivamente di dodici e nove anni). Anche i due ragazzini sono stati fantastici. Hanno retto difficoltà, freddo, immobilità forzata nell’auto, noia, tensioni e grandi entusiasmi né più né meno come tutti noi adulti. Ad un certo punto si sono ammalati di influenza e hanno viaggiato nel deserto con 39° di febbre. Ma di fronte alla decisione del padre di girare verso la prima città e andarsi a riposare in albergo almeno gli ultimi cinque giorni, si sono rifiutati categoricamente di assentire e, mugolando, lo hanno convinto a continuare il viaggio insieme a tutti gli altri. Si sono ripresi. E con noi hanno vissuto gli ultimi due giorni di “salti” tra le dune dei laghetti del Mandara.

Bravi ragazzi!!! Coraggiosi.

Immagino l’orrore che questi ultimi racconti possano suscitare in qualche genitore poco avvezzo a viaggiare. Di sicuro saremo presi da tutti questi benpensanti per dei pazzi incoscienti e scriteriati che non hanno valutato in modo debito i rischi ai quali hanno esposto i propri ragazzi.

In altri tempi e in altri luoghi mi sarei gettato in una diatriba furiosa adducendo i come e i perché questi giudizi non solo sono fuori luogo ma, soprattutto, sono viziati da mille preconcetti. Tuttavia l’esperienza della pubblicazione del mio libro “Attività estreme e stati alterati di coscienza” mi ha insegnato che per quanto precisa e inconfutabile possa essere la dimostrazione della relatività assoluta del rischio nell’esperienza esistenziale umana, niente e nessuno potrà mai convincere un benpensante della assurdità della propria posizione logica e dialettica. Se non, forse, un’eventuale esperienza diretta.

Perciò lascio che ognuno pensi quello che vuole e mi consolo con la certezza assoluta – una certezza che nessuno potrà mai contestarmi – che nell’animo di Giulia è racchiuso e conservato il ricordo di uno dei più straordinari panorami del mondo. Un’immagine di “bellezza estrema” che solo la fatica, la spregiudicatezza, le difficoltà e l’adattamento ci hanno permesso di gustare e assaporare in tutta la sua essenza.

Ma non basta. Anche se non esplicito, spero che attraverso questa esperienza le sia giunto il messaggio subliminale che, in viaggio come nella vita, solo ciò che è stato conquistato a prezzo di molteplici sforzi e sacrifici può dirsi davvero nostro e appagarci compiutamente.

Tutto il resto è solo noia.

 

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