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Erg Chech, Algeria a cura di bionsky

– Posted in: Africa, Nord Africa, Resoconti di viaggio

Originally Posted Sunday, September 4, 2005

Erg Chech, Algeria

Perchè l’Erg Chech
a cura di .bionsky

Perché l’ Erg Chech ? Non è facile dare una risposta certa alla domanda; possiamo dire che ci sono svariati motivi per pensare ad un viaggio con questa destinazione ma, come al solito, il colpevole principale, la causa scatenante, la forza trainante è sempre la solita “Michelin 953”
A nostro parere, essa costituisce la migliore medicina per chi veramente soffre di “mal d’Africa”; sì, perché solamente chi ha contratto questo morbo contagioso non può fare a meno di averla tra le mani per sognarci sopra almeno una volta al giorno, fosse solo per un attimo; è una malattia, una forma di dipendenza che può produrre alterazione della psiche e talvolta della carne; un malessere che può essere curato solo con l’assuefazione ad una congrua dose quotidiana di questa droga, che ci catapulta la mente in una proiezione a volo d’angelo, sui grandi spazi aperti e sotto gli infiniti cieli d’Africa, alla ricerca di qualcosa sempre nuova, sempre diversa, imprevedibile o nascosta, capace di catalizzare e calamitare i nostri desideri, i nostri pensieri, le nostre passioni.
Dove sulla mappa compaiono ampie chiazze color giallo ocra, là dove le strade convenzionali si esauriscono e dove si spalancano le porte dell’incognito: è là che si vuole andare !
Gli alibi, per chi è appassionato allo studio e alle ricerche legate a questa terra, poi vengono da soli; una grotta nascosta, un ricco paleosuolo, una pittura, un graffito rupestre, un campo di battaglia, un sito ieratico, un meteorite, un fortino, i resti di una perduta Atlantide.
Dopo anni di interminabile attesa, l’Algeria sembrava volerci finalmente di nuovo a sé; un richiamo invitante, suadente, che ci arrivava dal di là del mare, come fecero le sirene con Ulisse… e noi, tutt’altro che eroi di un epica del tempo che fu, ci siamo lasciati dolcemente adescare e catturare da quel cantico, e mai scelta si rivelò così azzeccata !
Per celebrare in pompa magna il sospirato avvenimento, ci siamo, quindi, regalati l’erg chech, il deserto tra i deserti, il più grande esempio vivente di microcosmo iperarido, con i suoi giganteschi cordoni di dune ed i suoi placidi gassi, una meraviglia nella meraviglia; le sue sabbie, soffici e dorate, vere onde di un oceano infinito in perenne burrasca, sono lì a testimoniare con sconcertante sincerità la storia più ardita delle esplorazioni sahariane, nei suoi drammi e nelle sue vittorie.
………ecco perché l’Erg Chech !

L’Erg El Raoui

Partiti la mattina da El Golea, in convoglio, raggiungiamo la magnifica oasi di Timimuon nel primo pomeriggio, dopo un trasferimento effettuato sotto un sole cocente. Sono le ore 15.00 e lungo le vie e nelle piazze non si intravede praticamente nessuno. Sembriamo ectoplasmi approdati a loro volta in un villaggio fantasma; la canicola ci assale, il caldo trasforma le nostre macchine in altiforni, l’afa si fa sopportare sempre più a fatica, la temperatura all’esterno ci assale imprigionandoci in una morsa opprimente. L’ombra improbabile di qualche palma sparuta non può costituire un riparo efficace dalla furia del sole che ci investe con tutto il suo calore più feroce, quindi …… non ci rimane che prendere un tè . Timimoun costituisce per noi l’ultimo punto utile per imbarcare sulle nostre macchine complessivamente milletrecento litri di gasolio, per fare abbondanti scorte di acqua e di viveri, per salutare tutto e tutti ( ivi compreso i militari presenti al punto di controllo all’uscita dell’ oasi ) e cominciare ad affrontare la nostra avventura nell’erg chech. La sua sebka, il suo palmeto, la sua architettura tipica soudanese ce la godremo eventualmente al ritorno, se avremmo tempo e fiato. Si riparte, finalmente; proseguiamo su strada asfaltata per 156 chilometri in direzione Kerzaz senza incontrare nessun ulteriore punto di controllo militare. Si alza il vento e con esso la polvere e la sabbia, non è certo un buon auspicio ma proseguiamo. Alla sinistra del nastro d’asfalto si dipartono con maggiore frequenza piste invitanti che si insinuano tra le dune dell’erg el Roui, ma il nostro primo punto, quello che abbiamo rilevato dallo studio delle carte, che ci dovrebbe consentire una più facile navigazione tra i cordoni di sabbia, si trova ancora qualche chilometro più avanti. L’attesa si fa interminabile, spasmodica; controlliamo sulle mappe, curva dopo curva, le nostre coordinate e la progressione di avvicinamento ed ecco che proprio in corrispondenza del punto previsto, con incredibile stupore e precisione, avvertiamo la presenza di una vera e propria “porta di accesso” al deserto, una pista chiara ed evidente, ma non marcata sulle carte, che con decisione porta verso sud, dentro l’erg Raoui e verso l’erg Chech. La pista ricalca esattamente i nostri primi punti preventivati, corre su un fondo di buona consistenza, a tratti con toulè ondoulee, sabbia e ciottolato; d’un tratto, termina improvvisamente in una spianata tra le dune, in prossimità di una chiave di chiusura d’un pozzo ( vedi foto ). Da lì, verso sud, tante, tantissime tracce; decidiamo di stare su quella che a nostro avviso pare essere la principale ma ben presto, presi dall’entusiasmo del paesaggio, ci accorgiamo che essa tende a confluire in un gassi parallelo a quello da noi preferito e pianificato; è oramai sera, il vento è calato, il sole è prossimo al tramonto, la temperatura è scesa a 34°, i chilometri di pista saliti a quasi 40 e le fatiche accumulate nel corso di questa lunga giornata cominciano a minare seriamente le nostre rimanenti forze. E’ ora di fare opportunamente campo ( N 28°41’075” W 001°06’393” ) e di accendere i fornelli; nel frattempo si scaricano i punti sul PC, si controlla per la millesima volta la rotta sul GPS, si pianifica e si controlla nuovamente sulla carta il percorso per domani; da ultimo, due passi a piedi nudi tra la sabbia con Iridium tra le mani per chiamare casa e trasmettere con grande emozione la nostra prima pagina di relazione del viaggio. Sembra tutto un sogno, forse lo è, forse lo è stato.

Grizim

E’ l’alba. I primi raggi di sole accendono progressivamente i colori della torre di guardia del forte; una flebile brezza, spirando nel cortile dove un tempo svettava lo stendardo dei legionari, si insinua ora dolcemente tra le coltri e ci viene a svegliare. Apro gli occhi e mi ritrovo a bordj Flye Sainte Marie mentre tra le mura echeggiano le note di “What a wonderful world”: mi autorizzo a non credermi !

Quindi mi giro dalla parte opposta, mi ricopro e continuo soavemente a sonnecchiare fino a quando un intenso aroma di caffè solletica le mie narici e nell’orecchio mi viene bisbigliato : buon giorno ! Ore 8.00 : le tre macchine abbandonano il forte; prima di uscire scattiamo a ricordo una istituzionale foto di gruppo, poi un ultimo pensiero, un profondo respiro, un arrivederci e via. Poco distante, ad alcune centinaia di metri dal portale di uscita, si trova una piccola e disadorna moschea, luogo di culto e preghiera degli indigeni arruolati nelle legioni sahariane, e, più a sud, proprio in vicinanza delle alte dune, due pozzi con acqua in abbondanza, nonché alcune fatiscenti zeribe, una coppia di palme rigogliose ed un gruppo di dromedari selvatici e curiosi ai quali, con piacere, ripristiniamo una generosa scorta d’acqua negli abbeveratoi da tempo vuoti ed ora resi incandescenti dal sole e propiniamo qualche biscotto e dello schuttelbrot che risultano assai graditi. Oggi percorreremo un itinerario che dovrebbe condurci a Grizim, seguendo, in base alla nostra tabella di marcia, alcuni punti relativi al tratto C per poi passare a quelli riportati nel tratto B2. Uscire da bordj Flye Sainte Marie e puntare verso sud è cosa facile; ci si trova sulla pista che, come già detto, porta a Chenachane; constatiamo con interesse che, da questo punto in avanti, le balise che ci avevano accompagnato fino a qui ad intervalli regolari ora sono improvvisamente terminate, proprio là in corrispondenza del forte. Dopo pochi iniziali chilometri, lasciamo la principale ed i nostri punti C di riferimento e puntiamo direttamente verso meridione.

Ci sorprende rilevare, contrariamente alle nostre previsioni, di esserci innestati quasi inconsapevolmente in una pista la cui presenza non è riportata su nessuna delle carte in nostre possesso; essa è decisamente chiara ed inconfondibile, è marcata da una moltitudine di tracce che, intersecandosi, sembrano rincorrersi all’infinito su un fondo consistente, perfettamente piano e soffice, dove l’occhio spazia a 360° non avvistando all’orizzonte nient’altro che un comodo e provvidenziale reg che ci consente di sfrecciare con le nostre macchine sostenendo, senza particolari ansie o attenzioni di guida, medie di percorrenza tranquillamente superiori ai cento chilometri all’ora.

Improvvisamente, poco lontano da noi, come spuntate dal nulla, una coppia di gazzelle attraversa la pista tagliandoci la strada in una delle loro innumerevoli corse a perdifiato. Sbigottiti, macchina fotografica e videocamera alla mano, ci lanciamo all’inseguimento degli animali in una vera e propria battuta di caccia che si concluderà felicemente, dopo alcuni istanti percorsi testa a testa ad oltre ottanta chilometri l’ora, immortalando, come nostro personale trofeo, le due sagome sul negativo della pellicola. Continuiamo praticamente con CAP 180°, puntando in lontananza verso un primo abbozzo di cordone di dune ( Dra el Guerb ) e tenendo sott’occhio la distanza dai nostri punti del tratto B2 al quale ci ricolleghiamo puntualmente in corrispondenza della borne al punto BB7. Ora la pista tende a degradare più a est in un terreno che improvvisamente non è più scorrevole, tutt’altro; noi decidiamo di restare quanto più possibile sui nostri punti ma, nel fare ciò, ci imbattiamo in una zona fortemente caratterizzata dalla presenza di apparenti dolci e minuscole colline ai piedi delle quali, proprio nel momento in cui esse tendono a congiungersi ad una quota leggermente inferiore, avvertiamo la presenza, sempre più scomoda, numerosa ed insidiosa, di piccoli wadi secchi che lasciano presagire, in ben altre stagioni, il defluire di svariati rigagnoli verso il principale oued Chenachane, nostro punto di transito verso Grizim.

Tentiamo di avvicinarci ai nostri punti BB5 e BB4, ma il fondo diventa veramente impossibile, le pietre diventano sempre più grosse, taglienti e pericolose. Aumentiamo provvidenzialmente la pressione nei nostri pneumatici scongiurando fortunosamente sciagurate forature o, peggio ancora, lacerazioni dei copertoni il tutto a scapito della velocità : ci spostiamo in punta di piedi in seconda-terza ridotta, sballottati fastidiosamente a destra e a manca in un saliscendi che pare senza fine. I metri e gli attimi quando per disgrazia ci si imbatte in simili pietraie, sembrano interminabili. Non sai se maledire il terreno, te stesso per la scelta infausta, o il destino che ti ha preservato quella sorte avversa; poi pensi che al peggio non vi è limite e quindi, dopo aver fatto gli appositi scongiuri ed esserti appellato a tutti i santi del calendario, torni a concentrarti nella guida e nella navigazione cercando il bandolo della matassa che ti permetta di abbandonare quanto prima quell’angusto e spinoso labirinto in qui sei disgraziatamente finito.
Ma non basta.


Proprio nel momento in cui stavamo sfiorando l’apice di questa nostra odissea, scorgiamo increduli ( ma dire increduli è veramente un eufemismo ) antistante alcune centinaia di metri dai musi delle nostre macchine la sagoma di un fuoristrada. Nello stupore generale fermiamo immediatamente la marcia e ci appaiamo uno accanto all’altro scambiandoci il seguente dubbio : saranno predoni, miliziani o turisti. Mentre con i nostri binocoli cerchiamo di capacitarci della situazione ( posso giurare che per nessuna ragione al mondo avrei mai immaginato di fare un possibile incontro lì, fuori dal mondo, fuori da qualunque rotta, in un terreno impossibile al limite della praticabilità ), scorgiamo che si tratta della sagoma di un Toyota HDJ 80 bianco e verde in forza alla guardia militare di confine e, quel che è peggio, è che il passeggero dei sedili posteriori sta passando con assoluta celerità agli occupanti dei posti anteriori alcuni fucili pronti all’uso. E’ evidente, siamo scambiati per predoni e, a quel punto, non ci resta altro che catapultarci fuori dalle nostre auto evidenziando quanto prima possibile i nostri panni di malcapitati turisti. I militari ( che forse a loro volta a prima vista erano anche più impauriti di noi ) in un attimo ci sono addosso, ci chiedono i documenti ed il permesso di visita per l’erg Chech, che noi non disponiamo; scatta la diplomazia e l’affabilità tipica di noi italiani che in ogni luogo del mappamondo siamo sempre ben voluti. Definiamo, non senza alcune iniziali esitazioni, una linea di racconto e di comportamento comune, esibiamo alcune carte russe e cerchiamo di spiegare loro da dove siamo spuntati e dove vogliamo andare a parare, senza essere comunque prodighi di precisione nei singoli particolari; non avendo certezze sul fatto che i militari di confine non siano collusi con le bande di predoni che si aggirano compiendo razzie nella fascia a ridosso tra Algeria, Mali e Mauritania ( vedi quanto è accaduto poco tempo fa al gruppo Daerr ), preferiamo stare un minimo abbottonati e quanto più sul vago, non guasta mai. Articolando la conversazione ( il loro francese parlato è peggio del nostro, il che è tutto dire ), sciogliamo finalmente il ghiaccio iniziale ( anche se può sembrare un paradosso ), poi doniamo loro alcune carte russe della zona che abbiamo in triplice esemplare, li rassicuriamo sulle nostre scorte di carburante e di viveri e li pediniamo fino a farci riconsegnare, non senza alcuni attimi di apprensione, i nostri passaporti.

Ci invitano perfino a Chenachane, invito che dobbiamo nostro malgrado declinare ( il comandante che dipende direttamente dal comando di Tinduf, una volta entrati nella tana del lupo, potrebbe riservarci, a differenza dei suoi più ingenui ed indulgenti inferiori di grado, anche un trattamento meno accondiscendente e di riguardo, e siamo a conoscenza di almeno un caso specifico che ci può risultare di sostegno in questa nostra scelta ). Ci comunicano che sono diretti, accompagnati dalla guida che li naviga attraverso questa zona impervia, ad un pozzo non segnato su nessuna carta dove vive temporaneamente una piccola comunità di nomadi con le loro tende ed i loro armenti, e lì noi siamo i benvenuti. E’ un’occasione da non perdere ! Li seguiamo fino ad incunearci in un piccolo oued dal fondo sabbioso dove il Toyota dei militari, non più giovane e malconcio, incontra più di una difficoltà ( tre insabbiamenti, uno dei quali superato brillantemente con il nostro apporto di manodopera e di piastre ed i rimanenti due con il ricorso provvidenziale al blocco totale dei differenziali anteriore e posteriore ). Poco distante scorgiamo alcune tende, alcuni nomadi, alcuni dromedari. Al pozzo di Houara tutti sono allertati e si preparano ad onorare con una festa estemporanea la nostra visita. I militari si improvvisano per noi traduttori e ciceroni; la guida, che funge da padrone di casa, ordina di stendere subito i tappeti più belli, comanda del cibo, imbastisce il rituale dei saluti e del tè; alcuni uomini prendono posto acconto a noi mentre le donne ci esibiscono con orgoglio la loro prole, le loro stoffe, la loro minuta e povera dotazione di utensili e di arredamento facendoci partecipi, per un attimo, delle loro faccende quotidiane. In un ritmo lento e, per noi, forse monotono, le loro esistenze si consumano instancabilmente ripetendo dalla notte dei tempi ai nostri giorni le stesse consuetudini, gli stessi ritualismi che consentono loro, con grande sacrificio degno del più sublime encomio, di preservarne la sopravvivenza in un pianeta sterile di vita, perpetuando così, forse all’infinito, la loro discendenza e sfida al nulla, al niente, al deserto. Dopo esserci fatti scivolare sulla pelle dei veri, autentici momenti da brivido riprendiamo il nostro cammino per Grizim. Sotto il sole cocente e sempre immancabilmente alle prese con il terreno quanto mai insidioso, realizziamo la difficoltà di trovare un passaggio che ci consenta di confluire nel oued Chenachane; decidiamo quindi di ritornare sulle nostre tracce, agevolati dalle provvidenziali funzioni di base dei nostri gps che in breve ci tolgono dall’impaccio riportandoci sulla retta via. Proprio quando il fondo comincia sensibilmente a migliorare, la Land blu accusa, ironia della sorte, una foratura della Yokohama 8.25-16 anteriore destra; mentre si ironizza banalizzando la qualità del cinturato dell’intero treno di gomme in questione ( che ha all’attivo, nota bene, ben tre duri viaggi in terra d’africa senza aver accusato ne problemi ne particolari consumi del battistrada ), tutto il gruppo si cimenta, senza lesinare gli sforzi, per porre rimedio, in tempi brevi, alla situazione. Dopo alcuni minuti di lavoro e un generoso sorso d’acqua si può ripartire.

Facciamo contestualmente il punto delle scorte di gasolio, dei viveri e dello stato generale delle nostre macchine; quando perciò all’orizzonte compaiono le prime dune, Grizim non ci interessa più, è tempo oramai, senza ulteriori attese, di sfidare le sabbie. Non senza difficoltà troviamo un punto dove scendere la falesia, per procedere all’avvicinamento. Ora sui nostri satellitari abbiamo caricato il tratto A1 e puntiamo direttamente il way point AA40 che si trova ai piedi del primo cordone. Lo raggiungiamo, apprendiamo che realmente è il punto più favorevole per attaccarlo, sgonfiamo prontamente le gomme, ricontrolliamo nuovamente tutto, valutiamo bene la rotta e la direzione esatta, tiriamo un profondo respiro e ci accingiamo alla prima “scalata”. Il dislivello non è poi così particolarmente marcato ed il verso occidentale della duna, sicuramente più dolce e favorevole, ci consente di impennare con discreta velocità le nostre macchine fino a raggiungerne la sommità. Il fronte della duna non risulta particolarmente esteso, solo alcuni chilometri; una volta sopra notiamo che le sabbie tendono a scomporsi in una moltitudine di dune più piccole ed insidiose, praticamente un piccolo deserto sopra il deserto. E’ il momento di mettere mano al riduttore e di tuffarsi a capofitto in questa pista per ottovolanti sulla quale finalmente possiamo cimentarci in una acrobatica gimcana che ci porta, non senza alcun timore, a ridiscendere esaltanti nel gassi successivo. Sarebbe tempo propizio per fare campo ma il cordone successivo, che ora si intravede all’orizzonte, è troppo invitante; sappiamo con certezza che la prova sarà ben più impegnativa, forse proprio per questo vogliamo renderci effettivamente conto del grado di difficoltà con il quale nei giorni a venire dovremmo confrontarci. E allora avanti, sotto con il prossimo ! Subito la musica cambia; subito la salita si impenna, il fondo perde di regolarità e consistenza, la macchina arranca ma raggiunge una terrazza dalla quale si domina un paesaggio incredibile. Ora è il momento di trovare il passaggio per riprendere quota e raggiungere l’apice; lo individuiamo e non senza esserci cimentati in più di un tentativo approdiamo al “tetto” del cordone dove ci attende, a perdita d’occhio, un fronte sabbioso lungo quattro/cinque chilometri del quale non intravediamo la fine, colmo di catini irregolari, contropendenze, barkane e dune tagliate. Non è facile ipotizzare da che parte cominciare, ormai è pomeriggio avanzato e le nostre forze, dopo tante ore di guida e di emozioni, cominciano a venirci meno; non ci rimane, come spesso succede a quest’ora, che “piantarci” per bene, lavorare alacremente per tirarci fuori e decidere finalmente di fare il campo. Siamo nel bel mezzo delle dune e a 360° non si intravede altro che sabbia; qui puoi sentirti finalmente fuori, fuori dal mondo, fuori da tutto e, logicamente, fuori di testa ! Prepariamo la relazione ed accendiamo il telefono per comunicare in Italia la cronaca della giornata; dopo di che, rabboccati i serbatoi e rimesso ordine nei bagagliai, tracciamo il punto sulla carta, lo confrontiamo a quello riportato sullo schermo dei nostri pc e pianifichiamo, infine, il piano di attacco per il giorno successivo. Giusto il tempo per scambiarsi alcune impressioni e per immortalare il paesaggio con alcuni scatti e la cena è pronta in tavola, il resto a domani e ………. che la notte porti consiglio !

E’ praticamente notte, ma lì fuori qualcuno già si muove canticchiando.

Ma che ore sono ? Cerco disperatamente frugando nel buio l’orologio, finalmente lo afferro e scopro che sono le cinque del mattino; oggi è un giorno particolare, anelato ed atteso per tanto tempo, ora, come per incantesimo, finalmente giunto : è il giorno decisivo della nostra sfida all’erg Chech. Mentre all’orizzonte Venere si leva erigendosi maestosa sopra i primi deboli raggi di sole che ancora non lambiscono la sommità delle dune che ci circondano, alle nostre spalle la luna piano piano si congeda da noi.
In un clima generale di attesa e di trepidazione che elettrizza ulteriormente l’aria, già di per sé, limpida e pungente, ci ritroviamo tutti e sei, in men che non si dica, svegli, pronti e operativi.
Si parte !
Con l’intento di sfruttare la maggiore compattezza della sabbia tipica delle prime ore del mattino, ci tuffiamo subito in questo mare in burrasca; le onde increspate e spumeggianti, infatti, minacciano di sbarrarci con decisione il cammino. Innestiamo le ridotte ma il primo passaggio, raggiunto dopo alcune indescrivibili acrobazie, si esaurisce in corrispondenza di un muro invalicabile; dietro front e si ricomincia daccapo.
Non senza difficoltà riusciamo a riunire tutte e tre le macchine sulla stessa cresta, pronte per affrontare una discesa in un catino insidioso, con molta sabbia molle di riporto.
Ben presto capiamo che qui il terreno è tutto così e che se si vuole sperare di arrivare al di là della duna bisogna inevitabilmente buttarsi; il vero pericolo è rimanere intrappolati in un bacino chiuso senza possibilità di rincorsa o movimento e dal quale non si può più uscire se non facendo ricorso all’utilizzo esasperato di piastre e verricelli ( che in questi casi costituiscono una bella sicurezza ).

Una ulteriore difficoltà è data dal fatto che, una volta partiti, le isole dove potersi fermare per tirare il fiato e prendere visione delle prossime difficoltà possono trovarsi proprio in mezzo al mare e che dunque per lunghi tratti non ci si può fermare, neanche se il passaggio apparentemente può non più sembrare quello buono, neanche se ti porta in direzione contraria, neanche se punta verso zone ancor più impegnative ed insidiose. Può capitare così, che per evitare di scontrarti con l’auto che ti precede e che disgraziatamente si trova ferma ed insabbiata, ti trovi obbligato a cambiare completamente il percorso ed avventurarti aprendo nuove brecce che conducono chissà dove; o che devi per forza soccorrere un altro equipaggio finendo in una zona difficile; o che, essendo il passaggio stretto ed unico, si debba necessariamente frenare in prossimità dell’altra macchina rimanendo a propria volta vittime dell’insabbiamento. Il cb aiuta molto a tenersi in comunicazione continua e ad evitare siffatti inconvenienti, ma la minaccia è sempre in agguato, tant’è che almeno una in un’occasione ci siamo trovati involontariamente, anche se mai in modo grave e irreparabile, bloccati tutti e tre.

Quando il terreno è così difficile da sembrare talvolta invalicabile ( perché forse a tratti pure lo è ), diventa indispensabile prendere subito il passo, il giusto ritmo; tenendosi quanto più alla larga da faticosi, inutili lavori di disincagliamento dei mezzi da affrontarsi sotto un sole che non perdona troppi errori, i chilometri scendono prima e con continuità, si risparmia carburante, acqua nonchè preziose energie che ritornano comode per altre attività.
Quella mattina, con le macchine ancora molto cariche, con l’ansia di evitare di arrecare danni irreparabili o deleteri cappottamenti, con il piede troppo pesante o troppo timido sull’acceleratore, il giusto ritmo stentava a venire.
La danza delle piastre terminava in prossimità di mezzogiorno quando finalmente le trombe squillavano invitando alla carica ripromettendo di intonare ed eseguire entro il giorno seguente la marcia trionfale.

Stefano ed Alfredo portavano la pressione nei tubless della Land bianca, appesantita da grosse scorte di carburante e dalle numerose attrezzature a bordo nonché in ruolo di apripista, a 0,5 bar; li seguiva Claudio con le gomme del Toyota, più potente e meno carico, a 1,2; infine Fabio, che non potendo scaricare la cambusa e le scorte d’acqua del gruppo, oltre al carburante ed ai ricambi, accovacciato all’ombra estemporanea della sua Land, si arrendeva a Nicola che, manometro alla mano, sgonfiava fino a portare le Yokohama ad una pressione pari a 0,8 bar.
Non basta; una volta ripartite, le macchine sembravano inarrestabili, si ritrovava fiato e coraggio a tal punto da non temere nemmeno particolari passaggi limite che, affrontati con perizia ed una dose di fortuna che in queste occasioni non guasta, ben presto consentivano loro di accorciare le distanze e di guadagnare provvidenzialmente la discesa nel gassi successivo.
Ora, dopo aver rigonfiato, essersi congratulati, aver ingerito un abbondante sorso d’acqua, si punta con decisione verso AA34, un waypoint che a guardare dove si trova sulla carta già tiene tutti con il fiato sospeso : stiamo infatti per affrontare la catena più massiccia e corposa del nostro itinerario, un vero e proprio punto obbligato dal quale può seriamente dipendere il successo o meno della nostra avventura. Questo cordone e i due successivi devono essere superati assolutamente si ci si vuole aprire la strada tra le sabbie verso Adrar o seguendo il tratto AA o, in alternativa, il tratto AB.

Diversamente, a patto di riuscire a ritornare sulle proprie tracce, era nostro convincimento tornare indietro fino a riprendere il tratto E che con sicurezza e tranquillità ci avrebbe dovuto “scortare” fino a raggiungere l’asfalto a nord. Arriviamo al cospetto della grande duna, controlliamo che il punto preso sulla carta sia veramente il più favorevole, sgonfiamo nuovamente e ripartiamo nella scalata. Ci addentriamo in un fronte che come minimo si estende per non meno di nove chilometri; nove chilometri di inferno che superiamo con mille prodezze tra salite, catini, contropendenze, insabbiamenti, creste. Incontriamo , cammin facendo, la tana di un fennec ed il suo relativo proprietario nonché un fantastico lucertolone che con inaudita agilità e velocità ci sfugge correndo fino alla sommità di una barkana, dietro la quale, nascondendosi ai nostri occhi, troverà rifugio.
Nel corso di questo attraversamento, concluso in una discesa mozzafiato percorsa zigzagando dentro ad un canalone ondulato che pareva essere una taboga, la Land di Fabio accusa il cedimento della barra di accoppiamento dello sterzo che improvvisamente si è piegata pericolosamente a tal punto da snervarsi completamente minacciando di spezzarsi.
Siamo in pieno pomeriggio, il sole è cocente e la temperatura elevata: inizia un lavoro duro e delicato di riparazione che viene portato con successo a termine nel giro di un’oretta, raddrizzando la barra e salvando le due testine sterzo. Poi, superando il cordone successivo, abbandoniamo il punto più a meridione toccato dal nostro itinerario e ci apprestiamo lentamente a risalire verso nord-est. Il gassi nel quale ora ci troviamo è a dir poco fantastico, esso presenta una infinità di colorazioni che si alternano una all’altra, dal cobalto, all’amaranto, allo smeraldo. Correndo veloci ai piedi del cordone dove la sabbia e soffice, pianeggiante e compatta, rinveniamo alcune macine ed una fulgorite di notevoli dimensioni, nonché una quantità esagerata di pietre e pietruzze di tutte le forme ed i colori.

In corrispondenza del punto AA30 affrontiamo l’ennesima catena di dune; è in assoluto il più alto dislivello che dobbiamo affrontare ma in questo sforzo siamo provvidenzialmente aiutati dal fatto che, una volta guadagnata la sommità, il fronte sabbioso è poco esteso, meno di tre chilometri e ciò ci consente di avere ragione dell’ostacolo in un tempo relativamente più breve.

Stiamo viaggiando veramente come i treni, oltre ogni nostra più rosea previsione nonostante le serie difficoltà riscontrate nel corso della mattinata. Le ore di guida si susseguono senza sosta una all’altra, dieci, docidi, tredici. Fortunatamente ora l’impegno richiesto è minore essendo confluiti in un lungo gassi, stretto ed inabissato tra due altissimi muri di sabbia che con decisione seguiamo in direzione nord almeno fino ad incontrare, non prima di domani nelle nostre previsioni, un nuovo punto di scavalcamento del cordone che corre parallelo alla nostra destra.

In prossimità di P37 rinveniamo una balise geodetica IGN e, poco distanti, vecchissime tracce di cingolati che, ci chiediamo, come possano aver raggiunto tali latitudini.
Ormai è pomeriggio avanzato e tra circa mezzora il sole ci saluterà; siamo appagati e soddisfatti dell’andamento della giornata di viaggio, ora è tempo di imbandire le tavole e preparare le candeline : è il compleanno di Isabella e ci attende una notte di festeggiamenti sfrenati.
Domani vi diremo come è andata.

Tracce sulle sabbie

Dopo una notte trascorsa all’insegna dei festeggiamenti e dei bagordi ( per il compleanno di Isabella, innanzitutto, e per il buon andamento del viaggio, in secondo luogo ), lasciamo il campo verso le ore otto del mattino. Il lungo gassi che stiamo percorrendo già da ieri si sta esaurendo in prossimità del punto AA20 invitandoci ad un nuovo attraversamento della successiva catena di dune per consentirci di entrare in un piccolo bacino dal quale, in prossimità del punto AA19, dovremo nuovamente uscire per ritrovare un nuovo favorevole corridoio.

Non ci è ben chiaro dove sia il punto ottimale per lo scavalcamento; ora infatti i due muri di sabbia, quello alla nostra destra e quello alla nostra sinistra, tendono a convergere con maggiore decisione in un imbuto dove le dune, non più così alte e marcate, perdono il loro andamento regolare consentendo alle sabbie di scomporsi, di depositarsi a valle nel gassi fino a confluire vicendevolmente, a seconda del flusso dei venti, l’una nel cordone dell’altra. Le carte IGN in scala 1:200.000 non ci sono di grandissimo aiuto in questa fase: il punto coincide con l’unione dei fogli Erg Chech con Bir El HadjaJ i quali hanno due differenti colorazioni e diversa marcatura dei rilievi. Quasi senza accorgercene ci ritroviamo, dopo un’ascensione morbida ed una successiva dolce discesa percorse con relativa facilità, al punto AA19, pronti per una nuova scalata. Ritenuto sconveniente puntare direttamente AA18 per la pendenza della duna, prendiamo opportuna visione della zona, facciamo rapidamente il punto della situazione ed inseriamo, al fine di semplificarci la rotta durante lo scavalcamento, tre nuovi waypoints nei nostri gps. Con una manovra a zig-zag ben assestata, guadagniamo un nuovo gassi e raggiungiamo il borne IGN posto in corrispondenza, con incredibile precisione, del punto AA16. Si prosegue, superando brevi tratti di fech-fech, fino al presunto passaggio chiave AA14, prima di El Harta.

Dopo l’esperienza dei cordoni di dune dei primi due giorni, ora tutto ci sembra un gioco da ragazzi; superiamo con facilità ogni ostacolo riscontrando poi puntualmente ogni balise o punto geodetico impresso sul terreno, cosa che ulteriormente ci conforta dell’esattezza del nostro cammino. Notiamo, inoltre, che i chilometri che ci separano da Adrar pian piano tendono a diminuire, che abbiamo ancora ingentissime scorte di carburante e di viveri, che le macchine ( a parte al barra del Land di Fabio che ci procura qualche patema d’animo ) funzionano stupendamente e che noi tutti ci sentiamo in perfetta forma smagliante. Quindi senza difficoltà alcuna siamo ad El Harta, punto d’acqua non ben identificato che, anche noi a nostra volta pur senza fortuna, cerchiamo sul terreno tentando di individuare zone umide e sottostanti dove l’acqua può affiorare. Ci consoliamo del tempo impiegato nella ricerca rinvenendo una ulteriore colonnina IGN ( punto 017 ), nonché due macine di buona fattura; poco male, ora si può anche proseguire. Puntiamo quindi verso AA11, punto dove pensiamo di effettuare la scavalcamento nel gassi successivo; il cordone, ora nuovamente compatto e slanciato, non ci induce niente di buono.

Decidiamo così unanimemente di proseguire il nostro cammino rimandando la scalata più avanti, in prossimità del waypoint AA8, in una zona che comunque in precedenza avevamo già individuato ritenendola propizia per siffatta operazione. Mentre i navigatori cambiano la carta di riferimento ( ora siamo su Erg Iabes ), piombiamo sul punto, scavalchiamo il cordone, e rinveniamo tristemente al di là della duna le tracce evidenti e i resti indelebili di un gigantesco campo militare abbandonato ( punto 029 ), probabilmente il punto più a sud raggiunto nell’Erg Chech dai pesanti reparti armati dell’esercito. Da esso si diparte, verso nord, una chiara traccia di pista destinata a raccordare l’avamposto con i comandi militari di Adrar.

Proseguiamo nella nostra risalita verso Hassi Ouled Rezeg (AA5) che corrisponde con la solita precisione del 99,9% alla colonnina IGN. Basta seguire i punti ed aspettare che il gps avverta il raggiungimento del waypoint, poi si aguzza la vista, ci si guarda intorno e normalmente in prossimità di una collinetta si scorge subito l’asta che segna il punto geodetico della borne. Ora purtroppo preme constatare che la corsa nei gassi non è più semplice e lineare come in precedenza; la presenza di dune e dunette, piccole gare e colline e, in generale, un terreno più duro e sassoso ci obbliga continuamente a cercare il passaggio più pratico e più comodo ( che non sempre è la traccia percorsa dai militari ) in uno slalom estenuante che aumenta i tempi e gli spazi di percorrenza rispetto alla traiettoria ideale.

Il fondo quanto mai irregolare e sconnesso, ricco di avvallamenti e di toule ondoulee dovuta al passaggio dei camion e dei cingolati, procura subito nuovi guai : la barra di accoppiamento del Land accusa un secondo, preoccupante, terribile cedimento con effetti che si possono notare nelle foto allegate; è piegata ed inarcata al punto da sfiorare il terreno, così da obbligare le ruote ad aprirsi a 45° rispetto l’ideale convergenza. Inizia così un delicatissimo e lungo intervento di rimozione e di ripristino della funzionalità della barra, eseguito con grande cautela mirata ad evitarne lo spezzamento. Non è facile irrobustirla a dovere per preservarla da ulteriori guai, ma si cerca comunque di apportare con la massima perizia un intervento di emergenza che consenta alla stessa di resistere almeno fino ad Adrar ( in realtà è arrivata ancora sana e salva fino a destinazione in Italia dopo ulteriori 3000 chilometri ). Ripartiamo, aggiustando leggermente la velocità di marcia ed implementando ulteriormente l’attenzione di guida; giusto il tempo di incontrare i resti di un ulteriore campo militare abbandonato e ci attende un nuovo scavalcamento di cordone, da AA4 verso AA3, fortunatamente eseguito senza problemi. Come scendiamo dalla duna incontriamo, disteso sopra un terrapieno eseguito ad opera del genio militare, un nastro scuro dal fondo grossolanamente bitumato e ingurgitato dall’impeto dalle sabbie ( vedi foto relativa al punto 038 ). Con anticipo rispetto alle nostre previsioni ( punto A25 ) e a quello che è riportato fedelmente sulle carte IGN, ci siamo puntualmente “scontrati” con ciò che resta della pista che conduce ad Adrar. Essa è percorribile con tranquillità, almeno fino a quando essa non arriva al cospetto delle successive catene di dune, punto in cui inaspettatamente scompare addentrandosi e perforando completamente il muro di sabbia fino a riemergere, come nulla fosse, dalla parte opposta. La forza e l’ingegno dell’uomo, con i suoi escavatori e le sue pachere, nulla hanno potuto nel tempo contro la potenza inesorabile del deserto, dei suoi venti e delle sue sabbie. Dopo 243 chilometri percorsi nella giornata odierna, oramai in “profumo di civiltà”, decidiamo di goderci l’ultimo campo tra le dune di questo nostro viaggio.

Quindi ci fermiamo circa un’ora e mezza prima del tramonto, per riposarci, per non rischiare ulteriormente le macchine, per scattare qualche bella foto, per farci tutti una bella e ricca doccia ed una succulenta cenetta. Quindi mettiamo con calma a punto la nostra relazione giornaliera di viaggio che comunichiamo subito in Italia, poi annotiamo sulla carta la nostra esatta posizione, scarichiamo la traccia del giorno, pianifichiamo il percorso per l’indomani. Finalmente arriva, sospirato, il momento di illuminare il nostro campo, imbastito ai piedi e al riparo di una grande duna, con le torce rimanenti. In un clima surreale, ci gustiamo fortemente appagati questo magico momento, forse unico ed irripetibile. Domani poi si vedrà …….

La pista verso Adrar

Questa mattina ce la siamo presa proprio con calma; sappiamo che è l’ultimo giorno di permanenza nell’erg Chech, sappiamo che il viaggio, quello vero, quello che ti tiene con il fiato sospeso, quello che ti riserva il fascino della novità e dell’imprevisto, sta volgendo al termine.

Adrar, infatti, non è più così lontana, si tratta solo di riprendere la marcia con il solito ritmo, seguire i nostri punti, non perdere di vista il nastro bitumato incontrato già a fine giornata di ieri, completare gli ultimi scavalcamenti delle dune che ci separano dal capoluogo del Touat. Dopo una abbondante colazione, dopo aver riordinato i materiali nelle casse, dopo aver controllato nuovamente la barra dello sterzo, si riparte. Ora puntiamo rispettivamente prima verso A23 ( che raggiungiamo subito con facilità ), poi progressivamente fino al punto A18 che, almeno sulle nostre carte, dovrebbe coincidere con l’inizio ben marcato e definito della pista che ci porterà fino sull’asfalto. Le insidie non sono ancora finite : in corrispondenza delle ultime dune, dove la sabbia è decisamente molle e di riporto, e sotto le quali puntualmente la pista si inabissa, ci troviamo a dover affrontare alcuni scavalcamenti che ci costringono a rallentare, ad inserire spesso le ridotte per averne ragione, a sgonfiare talvolta leggermente i nostri pneumatici per poter galleggiare meglio sul terreno insidioso; e proprio quando meno te l’aspetti, quando pensi che tutto sia finito, quando credi di poterti concedere qualche distrazione e di poterti godere in pieno il paesaggio, è quello il momento che per trarti d’impaccio ti tocca ancora stendere qualche piastra sotto le gomme.

Poco male, è il divertimento di una giostra che non vuol finire.

Ben presto, comunque, il terreno non tarda a migliorare; le sabbie lasciano progressivamente posto ad un fondo più compatto sul quale scorre ora una pista che, con il passare dei chilometri, assume sempre più corpo e maggiore praticità di percorrenza. Davanti a noi si aprono lunghi rettilinei che tagliano una landa aria e desolata che ci consentono, tra una sbandata controllata ed un controsterzo appena accennato, di viaggiare a velocità talvolta superiori a cento chilometri l’ora.

In prossimità di ogni piccola deviazione, di ogni marcato cambio di direzione, di ogni incrocio di piste, il satellitare continua infaticabile a segnalarci con anticipo il giusto cammino.

Non si fà a tempo ad intravedere sulla pista una curva all’orizzonte, che il plotter ti anticipa con decisione la nuova direzione; arrivi sul braccio della curva ed il gps, con i suoi tre squilli inconfondibili, ti avverte che sei piombato, con precisione inverosimile, sul waypoint preventivato.

Il Garmin III Plus addirittura già ti prospetta la cartografia della zona e ti riporta, pari pari, la pista che stiamo percorrendo: oltremodo stupefacente.

La cosa che non finisce di stupirti è considerare che stai percorrendo una traccia incassata nel terreno, quindi senza possibilità di spostamento laterale, e che, nonostante tutto, finisci per passare proprio esattamente sopra il punto indicato dai cristalli liquidi; ciò significa che le carte sono oltremodo fedeli, che noi le abbiamo settate benissimo nei nostri pc e che i punti presi e caricati sui nostri gps sono stati rilevati in anticipo con cura e perizia. Una soddisfazione non da poco !

In questo nostro sforzo siamo stati ulteriormente aiutati da un grande, inaspettato evento : il segnale differenziale e di disturbo che normalmente veniva volutamente scaricato sull’apparecchio ricevitore dal gestore dell’intero sistema per diminuirne la precisione di rilevamento delle coordinate con l’effetto di produrre uno scostamento artificiale della posizione rispetto all’esatto punto corrispondente sul terreno, è stato tolto poco prima della nostra partenza dall’Italia.

La conseguenza, nel nostro caso specifico, è di grandissima rilevanza : tutti i nostri punti di transito acquisiti sul terreno, nonchè la nostra traccia plotter dell’intero viaggio risultano rilevati con enorme fedeltà di acquisizione !

Mentre ragioniamo e riflettiamo su questa importantissima innovazione, dopo circa 108 chilometri, ci si fanno incontro le prime palme ed alcune case; raggiungiamo così il nostro waypoint A10 e, di conseguenza, l’asfalto ( punto 015, come da foto ) . Sono le ore undici e trenta.

Telefoniamo subito in Italia, rassicurando tutti coloro i quali ci hanno ci hanno pensato, anche con trepidazione, durante questi lunghi sei giorni di permanenza nell’erg Chech, nonchè seguito con passione ed interesse nel corso degli otre 1300 chilometri di fuoristrada percorsi.

Chiusa la diretta con Sahara el Kebir, ritorniamo a dedicarci a noi, a complimentarci, a felicitarci.

Scattiamo le solite foto di rito, prendiamo i soliti, consueti appunti ( scorte di gasolio e di acqua rimaste, totale distanze percorse, ecc. ), pensiamo alla versione da raccontare al primo posto di controllo militare e ……… si riparte per il lungo ritorno.

Raggiungiamo velocemente Adrar; tutti ci salutano, bambini, giovani, donne ed anziani. Lo fanno pure i militari di controllo allo sbarramento che ci invitano a proseguire senza soste facendo ampi cenni con le braccia e gesticolando con l’intero corpo, meglio così. Alle ore 14.00 ci ritroviamo seduti al tavolino a degustare un favoloso tè alla menta sul viale principale di Timimoun, esattamente lì da dove, davanti allo stesso tavolino e nello stesso contesto, una settimana prima partiva la nostra avventura. Come in un incantesimo, pareva che qualcuno avesse improvvisamente spostato le lancette del tempo sui quadranti e sul datario dei nostri orologi, quasi a volerci dire : “voi per l’erg Chech non siete mai partiti, né tanto meno immaginatevi di esserci stati; esso è un posto magico e leggendario, remoto ed inesplorato, dal quale a voi umani non è concesso farvi ritorno”.

Lì per lì tutto mi pareva incredibilmente, formidabilmente vero; ora, a ripensarci bene, forse non saprei ………..

 

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