Le insistenti domande di un amico hanno suscitato in lui il ricordo vivido di quei giorni lontani. La lunga preparazione, la partenza da casa fra parenti e amici, l’imbarco a Genova fra dozzine di camion, tutto questo fu già di per sè un’emozionante avventura. 
Impossibile da dimenticare l’espressione cimiteriale di zia Paola e di Nonna Vittoria forse convinte di non rivederlo mai più.

Non c’erano file organizzate, sulla spianata del porto, se non una vaga separazione fra mezzi pesanti e leggeri. 
Non ricorda turisti, il che oggi stupisce, in un’epoca in cui il turismo è oramai ovunque. Non allora, però, specie in primavera.
Ricorda soltanto una famiglia di olandesi con una Volvo station wagon. Tutti biondi e belli, alti e sorridenti, stavano composti parlando fra loro a bassa voce, in bel contrasto con il chiassoso marasma che li circondava. 
Accanto e attorno, un caos di persone indaffarate  a sfogliare documenti di viaggio, a discutere e gesticolare. 
Il piazzale di cemento risuonava di lingue differenti; arabo, francese e italiano, soprattutto, oltre a un po’ d’inglese.

A distanza di decenni, più che un semplice viaggio la considera un’esperienza molto significativa, perfino iniziatica che segnó profondamente la sua vita.
Ancora oggi è convinto che la persona che tornò a casa dall’Africa fosse differente e migliore, di certo più consapevole e matura di quella che quattro mesi prima aveva atteso sulle banchine genovesi.
Un particolare curioso che non saprebbe come spiegare: per molto tempo dopo il rientro gli risultò difficile parlare ad altri di quel tour se non in modo vago e sintetico.
Soltanto con gli ex-compagni di viaggio, quando in seguito si ritrovarono, fu naturale rivivere quei cento, indimenticabili giorni africani.

Aprile 1971 ma gli sembra ieri...
Da una settimana la Land Rover 109 è alloggiata nel grande garage-cantina di un  parente alla periferia della città per le operazioni di carico. 
All’epoca abitavano in centro storico e non si era fidato a lasciare la Land in strada con tutto quel materiale a bordo. 
Di conseguenza faceva la spola con il Ciao Piaggio o, volete ridere?, con l’Ape Car che un vicino gli prestava se doveva portare alla macchina dei materiali ingombranti. 
Quante volte ha scaricato e ricaricato ogni cosa per un ripensamento o per un controllo, non saprebbe proprio dire! 
Una ridda di pensieri gli affolla la mente. Ricordi indelebili, a volte nitidi e integri, altre volte frammenti nebulosi non facili da collegare.
Immagini di piste polverose e di beduini sui dromedari che si sovrappongono a sconfinate distese sabbiose o di pietre sparse dalle quali s’innalzano grandi funghi rocciosi rossi o neri. 
Oasi fitte di palme e ombrose dove sostare anche solo per una pausa al gran caldo si alternano ad alte rocce nelle quali antichi corsi d’acqua scomparsi da millenni e il vento hanno aperto stretti passaggi profondi come canyons. Oppure sono distese di dune a perdita d’occhio che il vento segna con profili netti e sinuosi. 
È un oceano di sabbia che incanta, provoca le vertigini e li fa sentire minuscoli e fragili. Un oceano che al calar del sole colora di ocra e di rosso salmone, di giallo e di mille spicchi neri d’ombra. 

Una sera fecero campo a ridosso della carcassa di un autocarro usandolo come riparo.
Scarnificato di tutto ciò che poteva essere smontato, lo scheletro brillava all’ultimo sole in forme bizzarre da scultura moderna. 
Il freddo li colse di botto come sempre capita da quelle parti. 
Accesero il fuoco con sterpi e legnetti trovati in giro; sulla semplice lamiera trovata in una discarica marocchina avrebbero cucinato agnello e cipolle comperati all’ultimo villaggio. 
Solo la mattina dopo, cercando in giro altro combustibile s’accorsero nello sconcerto generale che il camion ospitava una vasta colonia di enormi scorpioni color sabbia.   

Ha ancora negli occhi quegli orizzonti sconfinati da un precedente viaggio. Allora però  aveva soltanto dodici anni e purtroppo ne conserva pochi e confusi ricordi. Un esagerato senso di libertà lo pervade con la sensazione che gli scoppi dentro, troppo grande per poterlo contenere.
Quando ripensa alla preparazione di quello che resta il viaggio più lungo e impegnativo della sua vita di adulto, si rende conto che, paradossalmente, forse furono giornate emozionanti quanto il viaggio stesso. 
Tutte le aspettative, i sogni,  gli interrogativi ma anche il dubbio di affrontare qualcosa più grande di loro.
Perché oggi possiamo tutti contare su tante fonti d’informazioni. Abbiamo GPS, pc portatili, mappe digitali, telefoni satellitari e apparati elettronici di ogni genere. 
Ma allora non era così  e forse questo le nuove generazioni non lo comprendono. Del Nordafrica e delle aree sub-sahariane sapevano quel che raccontavano i resoconti di europei che da quelle parti erano stati magari decine d’anni prima, all’epoca delle colonie se non addirittura nell’ ‘800. Altre informazioni su quei territori non erano facilmente reperibili salvo che per le città ( e neppure tutte) e le località turistiche.
Per spostarsi sul territorio avevano le ottime cartine della Michelin e due scatole di mappe dell’esercito francese alcune delle quali risalenti al 1950.
Per orientarsi, ogni macchina era dotata di bussola nautica ( una spesa che li aveva tramortiti!)  che in qualche occasione impazzì, forse per la presenza di magnetite in zona.
Soprattutto contavano sulle informazioni che di volta in volta avrebbero raccolto durante il viaggio. Da altri viaggiatori e soprattutto alle stazioni di polizia e dai militari. 
Impararono a loro spese che la gente dei villaggi, pur di solito gentile, a volte forniva informazioni vaghe, lacunose o perfino sbagliate.  Specie riguardo i tempi, capitava che non corrispondesse alla realtà. Forse per la diversità dei mezzi di trasporto usati o perché magari  avevano a suo tempo fatto chissà quante soste intermedie prima dell’arrivo a destinazione.  Capitava che li stessero ad ascoltare in silenzio, viso s’apriva nel sorriso oppure restava serio come una statua di gesso e un braccio s'alzava a indicare una direzione. Così si ripartiva con il dubbio che di quel discorso in buon francese l’uomo avesse capito assai poco o nulla.

“ Non staremo per fare un’immensa cazzata, qualcosa di più grande di noi? - si chiedeva nei giorni e nelle settimane che precedettero la partenza - Magari sbaglieremo pista,  ci perderemo, finiremo la benzina, moriremo come pirla di noi resterà soltanto un trafiletto nelle cronache dei quotidiani.”
Quello stato mentale ondivago e inquietante, che a volte non sapeva arginare, creava in lui una sorta di febbre che di notte ostacolava il sonno  e di giorno frenava ogni pensiero estraneo al viaggio. 
Teneva sempre in tasca la lista dei materiali già stivati e quella delle ultime cose da procurare. La consultava di continuo. A volte, preso da improvvisi ripensamenti se gli pareva di aver tralasciato qualcosa, le tirava fuori di colpo anche se magari stava parlando con qualcuno.

Finché giunse il giorno fatidico. 
Il pomeriggio precedente erano arrivati in Campagnola i due amici che gli sarebbero stati compagni.
Due giorni prima si era ritirato quello che avrebbe dovuto viaggiare con lui; la sua fidanzata, sentendo che forse sarebbero rimasti lontano “anche più di un mese (!)”, gli aveva fatto la scena.
<< O loro o me: scegli! >>
Queste le sue ultime parole e di fronte a quell’out-out, Dom(enico) aveva capitolato e s’era fatto di nebbia lasciandolo solo.
Nel rimorchietto trovavano posto le taniche per la benzina e per l’acqua, gli equipaggiamenti più pesanti e ingombranti, i ricambi, tavolo, sedie pieghevoli e la loro canadese, una Moretti pesante ma solida e gli attrezzi, una quantità di attrezzi, alcuni con sopra il nome dell’amico che ce li aveva prestati.
Sui fianchi erano agganciato 4 piastre da sabbia auto-costruite in grossa canvas e legno imbullonati insieme. C’erano anche due pale e un piccone smontato, una sega da ferro/legno e una grossa ascia utilizzabile anche come mazza. 
Agganciate alla sponda posteriore, due delle ruote di scorta: la terza stava sul cofano della Land.

Ancora ricorda l’alba della partenza da Bologna; il cielo era grigio e minacciava pioggia ma l’aria già portava il profumo della primavera. O era quello delle avventure che li stavano aspettando?
Ritirando lo scontrino attraverso lo scorrevole della 109, al casellante dell’autostrada che chiedeva dove stessero andando così attrezzati e carichi…
<< In Africa - rispose, trionfante - andiamo in Africa e non sappiamo quando torneremo!>>
Schiacciò l’acceleratore, gli occhi sullo specchietto esterno pieno dello sguardo dell’uomo, sorpreso e anche un po' invidioso.

La 109, ex British Army ma con guida a sinistra (reparti inglesi in Germania) portava ancora la livrea mimetica verde scuro, marrone e nera.
Dotata in origine di telone ora montava un hard-top metallico con finestrini laterali scorrevoli e una massiccia botola sul davanti del tetto. Trovato in Olanda esibiva uno strano color pistacchio che però a lui divertiva. Era vecchio, ammaccato, pesante ma molto solido, gli era costato poco e aveva una bagagliera incorporata in grado di reggere bene  l’Air Camping. 
Con il secondo serbatoio della versione militare la macchina poteva contare su un totale di 100 litri che, aggiunti alle due taniche da 20 montate sui paraurti posteriori avrebbe consentito circa 900 km di autonomia su strada che si sarebbero facilmente dimezzati o anche meno in condizioni di fondo difficile e di uso di ridotte e di trazione integrale. 
Oltre a questo poteva contare sulla grossa scorta trasportata dal rimorchietto della Campagnola. 
All’atto pratico usarono poco le ridotte ma molto spesso la trazione integrale. 
All’interno della Land, versione porta-radio con i due soli sportelli anteriori e priva di sedili posteriori e di panchette, non mancava lo spazio per una branda da campeggio con materasso, per una cassa termica con ghiaccio per i viveri e altre due in legno per bagagli e attrezzatura da cucina, su cui in caso di maltempo sistemava  i fornellini a petrolio. 

L’AR 59, invece, proveniva dall’Enel, era color sabbia e aveva al traino un rimorchio verde scuro ex-US Army.
Il carico era protetto da un alto coperchio in alluminio  realizzato da un amico lattoniere e chiuso con due lucchetti.
Per la notte i suoi amici useranno la canadese a terra mentre lui, salvo situazioni particolari, avrebbe sempre preferito l’Air Camping. 
Entrambe le vetture e il rimorchio montavano pneumatici 7,50 R16 a 10 tele e ne avevano tre complete di scorta e varie camere d’aria. 
La sua Land utilizzava cerchi scomponibili ( un’ira di dio di bulloni!) ma avevano anche le leve per lo smontaggio tradizionale, operazione faticosa che detestavano ma che cui dovettero ricorrere più volte.  In questi casi, un buon sistema per risparmiare fatica era di porre a terra di piatto la ruota forata e salirci sopra con l’altra vettura in modo da scollare il fianco della gomma dal cerchio.
Anche se potrà sembrare strano, in realtà loro tre non sapevano esattamente quale percorso seguire, non avevano un itinerario preciso.
Perché ignoravano a quali difficoltà si sarebbero trovati davanti e i tempi di percorrenza. Insomma, si ripromettevano di decidere giorno dopo giorno in base alle informazioni che avrebbero raccolto nel proseguo.
Le loro vetture non erano certo nuove: 10 anni la sua Land, di più ancora la Campagnola di Daniele e Fausto.
Grazie a un paio di amici meccanici si era cercato di controllare tutto il possibile e meglio possibile e Daniele aveva lavorato qualche anno in un’officina meccanica ma della sua Land Rover non sapeva quasi nulla. 
“Come si sarebbero comportate le loro macchine sulle piste? Come avrebbero retto al tôle ondulée e alla sabbia che sarebbe penetrata ovunque? Per quanto tempo sarebbero durati i loro soldi? ” Tutte domande cui non sapevano dare alcuna risposta. Ancora.

L’idea iniziale, arrivati a Tangeri, era di scendere da Marocco Sahara Spagnolo e risalire attraverso l’Algeria. 
In realtà, più il tempo passava e più a loro piaceva quel che stavano facendo, il mondo che gli si apriva davanti. Nonostante qualche difficoltà e piccoli guasti cui però riuscirono sempre a rimediare. Nel caso di una balestra e di un mozzo spezzati, se ne occupò un meccanico locale, ombroso ma molto bravo.

Dopo circa un mese, superata la Mauritania, erano a Dakar, in Senegal, sulla penisola di Capo Verde, dopo aver subito una sosta forzata a Nouakott per problemi intestinali di Daniele.
Restarono alcuni giorni, accampati nel grande parcheggio di un hotel. Il 
direttore era un francese sempre in giacca nera, sempre gentile e troppo ossequioso, grasso e sudato. All’esterno la piccola insegna lampeggiante mostrava una buffa palma blu e oro.
Nella capitale senegalese rimasero qualche giorno, approfittando del parcheggio recintato dell’hotel.  Per non sentirsi troppo approfittatori avevano affittato una camera, una sola, piccola ma con bagno.
Visitarono la grande Moschea, i mercati pieni di vita e di profumi girando a lungo per la città e per il porto. Le strade erano stipate di gente, una folla di facce prevalentemente nere o brune. Rari i bianchi con i quali ogni volta ci si salutava. 
Ancora ricorda l’abbuffata di sardine grigliate in un tendone del porto, accompagnate da infiniti bicchierini di tè dolcissimo e di un’altra bevanda di cui non ricorda più il nome ma molto dissetante.

In precedenza, nell’interno, si erano fermati a una caserma dell’esercito per domandare informazioni sul territorio. Accoglienza più che cordiale, erano stati insistentemente  invitati a passare la notte con le vetture nel cortile. 
Da quelle parti, di  notte non era del tutto sicuro, ci dissero, senza altre spiegazioni. Al tramonto un soldato sprangò rumorosamente il portone di ferro e fino al mattino il parcheggio rimase illuminato a giorno.
La sera, il comandante li aveva voluti alla loro tavola ( dove peraltro mangiarono malissimo!) e prima, cosa perfino più gradita, mise a loro disposizione le docce. Dopo tanti giorni di bivacchi più o meno comodi e di sabbia che come talco penetrava ovunque ( ma proprio ovunque!) sentire l’acqua scrosciare abbondante sulla pelle fu pura libidine, un lusso quasi dimenticato. 

Lo stanzone bianco di vapore caldo risuonò a lungo dei gemiti soddisfatti e delle battute che più volte richiamarono l’attenzione; ogni tanto qualcuno metteva dentro la testa chiedendo se andava tutto bene.

Prima di ripartire regalarono al comandante una bottiglia di vino e lui, scoppiando in una grassa risata disse che l’avrebbe bevuta alla loro salute. Ma soltanto dopo il tramonto, aggiunse, per non essere visto da Allah. 
La mattina, con il fresco dell’alba e prima che il sole incendiasse l’aria, si rimisero in strada diretti a sud.

Dopo una lunga attesa in frontiera aspettando per ore il capoposto che era andato a far sesso ( così gli dissero) portandosi via i timbri per i passaporti, entravano finalmente in  Mali.
Le differenze rispetto ai territori attraversati fino a quel momento furono subito evidenti e la velocità media calò drasticamente per le pessime condizioni del fondo. Era ancora peggio che in Mauritania e i cani scheletrici che a branchi vagavano sulla strada e fra le tante carcasse di auto erano sempre più numerosi.
Anche quel Paese non era in programma; d’altronde il viaggio si stava rivelando più economico del previsto oltre che fantastico.
Va anche detto che non fu tutto merito loro; a farli risparmiare contribuì l’incontro fortuito sulla pista con i tecnici di una grande azienda italiana che stava lavorando nel Paese. Furono praticamente “ obbligati” a seguirli al loro cantiere, in realtà una vera città.
Tutto iniziò con un invito a pranzo.
<< La nostra cuoca è di Parma e cucina da Dio!>>
Difficile resistere e gli andarono dietro.
Al campo, ben organizzato, recintato come una struttura militare e dotato di una quantità di prefabbricati d’ogni genere, non mancava un’officina che a Daniele fece subito venire le palpitazioni.

<< Ma porc… ma guarda là, - lo sentirono dire - torni e frese modernissimi … trapani…alesatrici…perfino una piegatrice per lamiere e saldatrici di ogni tipo… tutto, qui c’è proprio tutto… CHE MERAVIGLIA!! >>
<< Beh, attorno a noi è il nulla - spiegò  quello che ci faceva da guida, un piccoletto in tuta grigia – resteremo qui a lungo e occorreva essere autonomi per l’ordinaria manutenzione e non solo, perchè alla fine molte cose ce le siamo fatte da noi. Là in fondo – e fa un vago gesto con la mano - abbiamo la zona “ elettricità “ e accanto anche qualcosa per lavorare il legno >>. Quel “qualcosa” era in realtà una vera e propria falegnameria. 

Poco più tardi erano a tavola in un’atmosfera chiassosa e ridanciana perché ognuno voleva dire la sua a iniziare dalla cuoca, felice ed emozionata per l’inattesa presenza di tre ospiti italiani.

<< Dopo il caffè - prese a un tratto la parola il capo cantiere, un corpulento ingegnere milanese - avevo pensato che potremmo dare un’occhiatina alle vostre macchine: tanto in questo momento l’officina non ha molto da fare >>
Stupiti, i ragazzi scambiarono sguardi di puro sconcerto. 
“ Occhiatina?? In che senso? ” si chiesero, muti, tutti e tre nello stesso istante.

<< Ma sì, - continuò il Capo - da quello che vedo, i vostri fuoristrada non sono, come dire, appena usciti dal rodaggio - risata generale - e vi aspetta ancora tanta   pista e tanta sabbia, non avete idea quanta!, davanti a voi. Il nostro Enrico - e indicò l’azzimato ometto che li aveva accolti in officina  e che a sentirsi coinvolto aveva già preso ad assentire vigorosamente - il nostro Enrico, dicevo, che di meccanica sa TUTTO,  sarà felice di fare un completo controllo delle macchine. E… Enrico, si ricordi di fare lo stesso anche per il rimorchio, che l’ho visto molto carico. Magari potremmo vedere di dare un po’ di muscoli a quelle balestre… un foglio o due in più, magari… Lo stesso vale per le macchine: una bella radiografia generale e se qualcosa non ci convince, sostituiamo o ricostruiamo ex novo. Si faccia dare una mano dai suoi così appena finito i ragazzi  ripartono più tranquilli. 
E… ragioniere - rivolgendosi a un tipo sui 50 dal vistoso riporto di capelli grigi - abbiamo un box libero, vero? Mi pare che sia da quattro…>>
Ancora oggi, dopo quasi mezzo secolo, si chiede come dovessero apparire le loro facce a chi li stesse guardando, mentre non potevano credere alle loro orecchie. 

In realtà restarono un giorno in più, per dar tempo ai meccanici di rimediare a quelle che definirono “un paio di cosette che non ci convincono”.
Le “cosette” compresero l’intero spinterogeno della Campagnola, tutte le cinghie, gli ammortizzatori della Land, sostituiti con altri più solidi e anche un cuscinetto che a sentir loro faceva un rumore strano. Oltre alle balestre del rimorchio, sostituite con altre recuperate da un camioncino demolito.

<< Ha sentito, vero, l’Ingegner Vittorio? Tutto dev’essere  sistemato a dovere. Non mi metta nei pasticci che quello è un preciso. >>
Stringendosi nelle spalle e con l’espressione di chi non vuole problemi, l’ometto in tuta grigia  gli girò le spalle  rimettendosi al lavoro.
I due giorni al campo italiano passarono in un baleno. 
Alla partenza, in una mattina ventosa ma già tanto bollente da asciugare le parole in bocca, gli addii, di solito imbarazzanti, furono per fortuna rapidi per un inatteso imprevisto tecnico che stava impegnando il campo.
Ciliegina sulla torta di un’accoglienza spettacolare, tutti i serbatoi e le taniche della benzina, incluse quelle del rimorchio e anche i contenitori dell’acqua, erano stati riempiti fino all’orlo! 
Due ore più tardi si ritrovarono fermi sulla pista con altri mezzi  che l’esercito stava organizzando in carovana. 
Lì incontrarono gli stessi francesi simpaticissimi conosciuti  pochi giorni prima mangiando pesce grigliato.  
Molte altre ore trascorsero prima che i militari dessero il via con modi spicci, quasi sgarbati.
Tre giorni più tardi, arrivati sulla carovaniera principale, di comune accordo decisero di restare assieme ai francesi, con i quali nel frattempo avevano fatto amicizia.

Fu una scelta saggia, dettata non solo dalla reciproca, palpabile simpatia ma anche per la sicurezza di tutti. Infatti il percorso si sarebbe rivelato a tratti impegnativo e in più di un’occasione i veicoli dei loro amici, un grosso camion 6x6 a doppia cabina e un furgone Saviem ex-armée francaise, si dimostrarono di grande aiuto almeno in un’occasione.
Era quasi il tramonto, che da quelle parti  dura poco, e loro erano ancora sulla pista, ritardati non so più da cosa, quando, appena dopo una curva Daniele, che in quel momento era in testa al gruppo, si ritrovò davanti un gran mucchio di sabbia. Nel tentativo di evitarlo sterzò piantandosi però fino ai mozzi in una conca di sabbia sottile come polvere. Lì l’enorme verricello anteriore del camion, ma ne aveva uno anche dietro, fu miracoloso ed estrasse la AR59 come il tappo da una bottiglia di spumante.

Il Mali si rivelò un Paese estremamente povero e i villaggi attraversati mostravano un volto dell’Africa che ancora non conoscevano. 
Poche capanne di fango, sterco e paglia, strette  a volte dentro recinti spinosi, e tanta polvere che stendeva su  ogni cosa un velo grigio. Anche le persone apparivano dello stesso colore, coperte dalla stessa polvere, come grigi fantasmi, in movimento o accucciati davanti alla porta di casa.
Sempre però tanta gentilezza e un’ospitalità immediata e spontanea anche quando per comunicare c’erano soltanto il sorriso e l’italica gestualità.
Solo di rado capitò loro di incontrare  sguardi seri, quasi corrucciati. Quando succedeva, sentivano quegli occhi seguirli a lungo, non capirono mai se per semplice curiosità, diffidenza o malcelata antipatia.
Era giugno inoltrato, il caldo si faceva sentire ogni giorno di più. Sarebbe stato preferibile viaggiare di notte ma il rischio di imbattersi in qualche sorpresa, animali vaganti o situazioni ben più rischiose, li dissuadeva dal farlo. 

Il lungo rientro da Bamako a Toudenni li avrebbe portati a passare per Timbouctu, la leggendaria Timbouctu. Era un territorio immenso dove le distanze si misuravano in giorni  se non in settimane, non in chilometri che comunque erano sicuramente più di tremila.  In quella come in altre, analoghe circostanze, le grosse scorte di benzina e di acqua, costituirono sempre per loro fonte di tranquillità. 

Fu una tratta lunga e impegnativa della quale ha ricordi confusi.
Ogni volta che potevano si aggregavano ad altri veicoli. In un paio d’occasioni fu ancora la polizia o l’esercito a trattenerli, anche per più giorni, di nuovo in attesa di formare un convoglio che sarebbe poi stato scortato da almeno una loro camionetta. 
Erano bivacchi forzati che alla fine diventavano occasioni di incontro con persone delle più varie etnie. Certe lingue non le avevano mai neppure sentite nominare: 
bambara, mandingo, tuareg, fula o peul, sonink, wolof, pular, serer e soninke, mandjak e hassaniya.
Capitò a volte che qualche casuale compagno di viaggio si sorprendesse della loro giovane età e in più di un’occasione si sentirono adottati da quella variegata comunità in continuo mutamento. 
Potrà sembrare strano ma, seppur circondati da perfetti sconosciuti, non avvertirono mai la solitudine, mai si sentirono veramente in pericolo. 
Ricorda in particolare una donna, non so quanto anziana perché pareva senza età. La fronte era altissima ed elegantemente bombata all’attaccatura dei capelli ancora folti, gli occhi lunghi e circondati da un reticolo di rughe profonde, la pelle color cuoio antico, uno strano tatuaggio rossiccio sulla guancia. Lo sguardo era intenso, luminoso e … bello. I lineamenti ci sembrarono un misto di somalo ed eritreo ma con qualcosa di più, forse d’indiano.
Quando la videro la prima volta sedeva su di un bidone da olio, eretta, composta e muta come una regina sul trono. I capelli grigi e bianchi parevano fili di ferro, ben ordinati e tesi sul cranio.
Nonostante l'estrema semplicità delle vesti, si aveva la sensazione che la figura emanasse un’aura di energia e autorevolezza o forse era la sua immaginazione che galoppava o un riflesso dei fuochi.
Gli uomini avevano nei suoi confronti un atteggiamento particolare. Gli parve che le stessero volutamente distanti, riluttanti ad avvicinarla. Quando lo facevano, la loro postura esprimeva rispetto, forse timore, il che è sorprendente in un mondo dove le femmine contano, di solito, assai meno di un cammello. 
Le altre donne le si accostavano, si chinavano su di lei, chiedevano cose, forse istruzioni. L’anziana rispondeva a monosillabi o con un cenno, spesso senza neppure guardarle, a volte con un’occhiata soltanto.
Loro annuivano e al gesto della mano si ritiravano.
Lui, il ragazzo alto e biondo, continuò a osservarla a lungo. Era sicuro che lei se ne fosse accorta fin dal primo istante, perché la sorprese più volte a osservarlo.
Avrebbe voluto che gli facesse segno d'avvicinarsi, avrebbe voluto conoscerla, almeno sentire la voce di quella che le altre donne chiamavano Sayyda, Signora. 
Lei invece restò ferma, non fece nulla e  quel momento magico, com’era arrivato passò; qualcosa lo distrasse e quando con lo sguardo la cercò di nuovo, la donna misteriosa se n'era andata e non la rivide più.
Ancora oggi si pente di non aver fatto nulla, di non aver mai saputo chi fosse. 

A volte gli capitava di parlare, in inglese o in francese, con qualcuno che non capiva dove fosse esattamente questa “Italia” che loro nominavano. Li vedevano bianchi e già questo bastava da solo a suggerire che arrivassero da molto lontano. 
Ci fu sempre simpatia nei loro confronti e la curiosità di sapere qualcosa del Paese da cui provenivamo, della famiglia. 
Ecco, spesso domandavano della famiglia, di quanti figli avessero; nonostante fossero tanto giovani, a quella gente pareva strano che non ne avessero.
Spesso erano loro stessi a cercare nel gruppo qualcuno che potesse fare  da interprete. Quando capitava, le domande fioccavano, si accavallavano, a volte fino a mettere in difficoltà il traduttore. Allora si scatenava l’ilarità generale. Gettando indietro la testa ridevano di gusto. Con schiocchi sonori battevano le mani sulle cosce e non mancavano incomprensibili commenti  nelle lingue più strane.

Quando il sole calava oltre l’orizzonte i fuochi erano già accesi.
Le donne trafficavano fra involti e ceste, i bambini si ricorrevano nel gioco o erano impegnati in qualche servizio per i grandi. C'era chi alzava tende o stendeva tiranti per ricoveri di fortuna che li riparasse dal gelo notturno. Altri erano vaghe forme nell'ombra, già avvolti nelle coperte e li vedevi ogni tanto scuotersi e cambiare posizione.
Nell'aria spandeva l'odore di cibi e di spezie nel tintinnare delle stoviglie. Accanto al fuoco, qualcuno allungava un pezzo di saghella o di pain de sable,  arrivava l’immancabile te dolcissimo e aromatico e qualcun’altro porgeva datteri che si scioglievano in bocca come miele.
Se capitava che un granello di sabbia scricchiolasse fra i denti, chi li aveva offerti magari se ne accorgeva. Un’alzata di spalle, un gesto fatalistico con la mano, lo sguardo imperscrutabile e vagamente ironico.
A volte sorrideva, altre volte no.
<< Domage  >> mormorava e con quella sola parola ti sentivi a casa.