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Una coppia in Transafrica – Seconda tappa

– Posted in: Africa, Africa Centrale, Africa Occidentale, Resoconti di viaggio

UNA COPPIA IN TRANSAFRICA. SECONDA TAPPA

DA BOBO DIOULASSO A COTONOU

Di Cristina e Bruno Riccardi

3/3/2018. L’aereo della Royal Air Maroc decolla dall’aeroporto di Torino Caselle durante una copiosa nevicata. Ci porterà allo scalo di Casablanca e da qui proseguiremo per Ouagadougou, capitale del Burkina Faso da dove infine, raggiungeremo in corriera Bobo Dioulasso a recuperare Tatiana, la nostra Nissan Terrano, per proseguire con la seconda tappa della Transafrica, viaggio preparato da noi due soli in “fai da te”. La sfiga che ci accompagna ultimamente è presente: a Ouagadougou ieri c’è stato un attacco jihadista all’ambasciata francese con relativa sparatoria che ha causato una ventina di morti e una ottantina di feriti. In Italia la notizia è circolata in sordina (troppo in sordina!) ma il nostro amico burkinabè Andrè che è della Polizia Nazionale, ci ha informati subito. Temiamo di trovare un clima generale molto brutto a Ouagadougou con grande tensione e controlli serrati di Polizia ed Esercito.

Durante il volo riflettiamo sul percorso che ci aspetta. In realtà avremmo dovuto fare questa tappa, prevista inizialmente fino a Libreville in Gabon lo scorso novembre 2017 ma, importanti problemi di famiglia ce lo hanno purtroppo impedito. Partiamo solo ora e col tempo di Cristina contato; pertanto la tappa la concluderemo in Benin a Cotonou, dove abbiamo preso contatti e ci aspettano al camping “Au Jardin Helvetia” per lasciarvi l’auto in deposito alcuni mesi. In ogni caso va bene così poiché in realtà, questa area dell’Africa ci interessa particolarmente e vogliamo visitarla con calma, specie il Benin, con tutti i suoi misteri. Sarà quindi una tappa non lunghissima ma intensa per le cose da vedere e scoprire.

4/3/2018. Arriviamo a Ouagadougou all’una di notte e con nostra sorpresa, i controlli di polizia e dogana sono molto rapidi. Meno male. Con uno sgangheratissimo taxi, messo in moto dal conducente collegando due fili, raggiungiamo la “Pension Sarah” non distante dall’aeroporto, molto africana ma più che decente, consigliabile. In mattinata prendiamo la corriera e nel tardo pomeriggio arriviamo a Bobo Dioulasso dove ci attende Maurizia la nostra amica torinese e tutta la famiglia di Sambo e Bibata, ragazzi e ragazze, simpaticissimi, che abbiamo conosciuto l’anno scorso.

Arrivati a casa di Maurizia come ospiti, apprendiamo che la proprietaria del garage adiacente occupato da Tatiana, signora Ami, è in lutto per la morte della madre e sono in corso i preparativi per la cerimonia funebre che inizierà la sera stessa per durare parecchi giorni. Il fatto è che per detta cerimonia, è stato allestito una sorta di grosso gazebo africano che occupa tutta la strada ovviamente momentaneamente chiusa al passaggio, il quale, con una lunghezza non inferiore a una trentina di metri, ostruisce completamente la porta del garage, impedendo di far uscire la nostra 4×4! Sotto a tale struttura, accampano a crocchi, centoventi-centoquaranta persone, molte con costumi tradizionali, soprattutto donne, che chiacchierando beatamente, mangiano e bevono di tutto. Per fare uscire la macchina dovremmo fare sgomberare questa gente e far smontare almeno una parte della struttura, cosa che offenderebbe gravemente i parenti della defunta! Maurizia ci spiega che la signora Ami, di etnia Peul, è cattolica ma di quel cattolicesimo africano che si mischia con l’animismo in un sincretismo molto colorito. La cerimonia pertanto sarà un miscuglio di usi e costumi religiosi anche perché presenti amici di altre etnie, con soprattutto, molti festeggiamenti e mangiate.  Per volontà di Ami, la salma non verrà sepolta nel cortile della casa, come ancora assai in uso in Burkina Faso, ma nel cimitero dove alcuni parenti maschi  sono andati in giornata a scavare la fossa con vanghe e picconi.

La nostra camera da letto è vicinissima alla casa di Ami e nella notte fino all’alba, udiamo tutta la liturgia del rito funebre. Iniziano prima dei tam-tam, proseguono canti in lingue africane accompagnati dalla musica di una specie di marimba di legno poi, una sorta di rosario lunghissimo, dove un uomo recita una litania e tutti gli altri rispondono sempre in lingue strane ma, stavolta, anche con qualche parola in francese. Poi ancora tam-tam e altri canti. Molto suggestivo. L’unica preoccupazione è di poter recuperare Tatiana in tempi brevi.

5/3/2018. Trascorriamo la giornata per cambiare il denaro, contrarre una assicurazione sulla macchina per trenta giorni, fare acquisti di alimentari in un supermercato di libanesi con merci e prezzi europei. Visitiamo il Grand Marchè di Bobo, molto africano e l’orfanotrofio diretto da Maurizia. Qui conosciamo una francese, Stephanie, che però abita in Baviera, la quale sta facendo il giro dell’Africa occidentale in bicicletta e in solitaria. E’ partita da Lomè in Togo ed è giunta a Bobo Dioulasso per farci quindici giorni di volontariato all’orfanotrofio, poi proseguirà per Conakry in Guinea.

Quella sera, approfittando di un momento di “calma” della veglia funebre, porgiamo le nostre condoglianze alla signora Ami e le chiediamo se può fare spostare alcune persone e relative seggiole da sotto il gazebo in modo da poter aprire la porta del garage e con una manovra non troppo semplice uscire con la 4×4, senza abbattere dei pali del gazebo.  Ami che in fondo è una donna moderna e pragmatica acconsente e così, finalmente facciamo uscire Tatiana che è coperta dallo strato di polvere di un anno.

6/3/2018. Dopo aver fatto lavare la macchina, la consegniamo al meccanico di fiducia di Maurizia per un controllo generale ed il cambio dell’olio motore e del filtro.

La giornata la passiamo a bighellonare e chiacchierare coi nostri amici sul percorso da farsi. Il Benin ci interessa molto per tante cose e luoghi interessanti mentre il Togo, secondo Maurizia, ha meno da vedere e la stessa ci consiglia di visitare al posto della valle di Tamberma in Togo, la confinante area di Boukoumbé in Benin, abitata dalla stessa etnia, più selvaggia e meno battuta dai turisti. Ci convince e pertanto decidiamo di evitare il Togo e passare più tempo in Benin. Nella discussione prendiamo una decisione importante, cioè quella di venire anche solo in aereo, più spesso in Burkina, per non interrompere i rapporti coi nostri amici burkinabè, cosa che ci spiacerebbe molto. In quelle circostanze, potremo poi visitare a fondo il loro Paese. Partiremo quindi per il Benin.

Nel pomeriggio il meccanico ci riconsegna Tatiana che ha tutto perfettamente funzionante, tranne il motorino della vaschetta lavavetri che non è riparabile. Pazienza, non è un grave problema.

La sera, i burkinabè probabilmente informati da Maurizia che è il giorno del compleanno di Bruno, ci fanno la sorpresa di una festicciola a base di carne di montone cucinata alla brace, per loro un lusso, buonissima. La gentilezza e la semplicità di questa gente è disarmante. Noi contraccambiamo con vestiti per i ragazzi portati dall’Italia. E’ presente anche il nostro amico poliziotto Andrè, al quale su sua richiesta, abbiamo portato una maglia ufficiale della Juventus col numero 10 di Dybala. E’ felicissimo essendo pure calciatore dilettante.

7/3/2018. Accompagnati da Andrè, impieghiamo diverse ore dal mattino al primo pomeriggio in vari uffici della dogana di Bobo Dioulasso, per regolarizzare la presenza della nostra auto in Burkina e ottenere il permesso di circolazione. La procedura è lunga e tortuosa ma ce la caviamo pagando una sanzione di 50.000 CFA, pari a circa 75 euro.

La sera festa di addio a base di birra dato che domani partiamo, destinazione Benin. Ci spiace lasciare questa gente, ma torneremo.

8/3/2018. Dopo aver salutato tutti, partiamo alle otto del mattino verso Ouagadougou e poi Fada-Ngourma dove pernotteremo prima di arrivare alla frontiera col Benin. La strada fino Ougadougou è in buono stato e si viaggia bene. Notevole il traffico di vecchi camion. La città di Ouagadougou la attraversiamo con una certa facilità impensabile a priori ma, subito dopo, troviamo la strada chiusa per lavori di ammodernamento con deviazione su una pista che va verso Fada-Ngourma, di terra rossa polverosissima e piena di cunette rallentatrici terribili e spesso invisibili. Attraversiamo così poverissimi villaggi non visibili facendo la strada normale ma ovviamente,  diminuisce drasticamente la velocità di crociera, facendoci decidere di fermarci prima che faccia buio, nella cittadina (si fa per dire) di Koupela.

A circa venti chilometri da tale meta, la lancetta della temperatura dell’acqua di Tatiana, impazzisce e comincia ad oscillare in su e in giù, arrivando fin quasi alla zona rossa di surriscaldamento. Controlliamo il liquido nella vaschetta di espansione che è al corretto livello, mentre  la ventola  gira normalmente. Mistero, che sarà? Malgrado i circa 38 gradi di temperatura, accendiamo il riscaldamento e mentiamo il ventilatore al massimo. In questo modo il liquido di raffreddamento non si surriscalda e coi finestrini spalancati, riusciamo ad arrivare a Koupela senza danni. Chiediamo di un meccanico e ci viene indicata l’officina di tal Roland che è il solito meccanico africano che lavora all’aperto in un cortile tra le capre e pure qualche maiale. Costui analizza la situazione e stabilisce che è necessario un controllo generale a tutto l’impianto di raffreddamento del motore. Dato che sono oramai le ore 18 del pomeriggio e sta facendo buio, ci dice di lasciare la macchina e tornare domani mattina alle 8, nel frattempo capirà che riparazione c’è da fare. Non lontano dal meccanico c’è un modestissimo e squallido alberghetto, “Hotel de la Gare” dove decidiamo comunque di passare la notte in quanto appiedati.

9/3/2018. Alle ore 8 puntuali, siamo dal meccanico che ha smontato il radiatore e la pompa dell’acqua. Dice che il problema deriva da un cattivo funzionamento della pompa ma che lui la riparerà, “pas de problèmes” e il lavoro sarà finito alle ore 9. Ci crediamo poco ed in effetti, in perfetto stile africano, il lavoro non finisce alle 9 ma alle 14. La macchina funziona bene e la temperatura del liquido è tornata normale. Costo 30.000 CFA, pari a circa 45 euro. Felici di aver risolto il problema e con poca spesa, partiamo per Fada-Ngourma dove ci fermiamo a pernottare al discreto “Auberge Diana”. La sera visitiamo un animatissimo mercato dove facciamo alcuni acquisti.

10/3/2018. Partiamo verso la frontiera col Benin di primo mattino e chiacchierando, riflettiamo sul fatto che sino ad ora non abbiamo visto un solo bianco turista od altro, tranne la ciclista francese incontrata all’orfanotrofio che, ovviamente, non può essere classificata tra i banali turisti ma tra i viaggiatori più duri. Sono tempi proprio brutti per tutti i Paesi del Sahel.

Usciamo rapidamente dal Burkina e entriamo nel Benin al posto di frontiera di Porga, dove troviamo Polizia gentile. Alla dogana, mostriamo il “Carnet de Passage en Douane” chiedendo ti timbrarcelo all’ingresso e constatiamo che i due doganieri non sanno bene cosa sia. Ne hanno sentito parlare ma non lo hanno mai dovuto gestire. In realtà il Benin non prevede il Carnet ma noi desideriamo ci venga timbrato in ingresso poiché lo riteniamo utile per “giustificare” il deposito dell’auto nel Paese per qualche mese. Nasce una discussione molto pacata tra noi e i due doganieri molto scettici e restii a timbrare quando, per fortuna, Bruno individua sul loro tavolo pieno di scartoffie, una ricevuta di Carnet in uscita dal Paese, in capo ad una Renault con targa dell’Arabia Saudita. Viene chiarito che, in quel caso, il cittadino arabo aveva ottenuto il timbro sul Carnet all’uscita e noi viceversa, lo vogliamo timbrato all’entrata nell’apposito spazio. Decidono quindi di timbrarci solo il Carnet e non rilasciarci la loro ordinaria autorizzazione, facendoci tuttavia pagare i diritti di ingresso in Benin di poco più di 5.000 CFA rilasciandoci apposita ricevuta. Ci spediscono con l’aria di chi si è tolto dai piedi un problema, dicendo che a eventuale richiesta della Polizia, occorrerà mostrare il timbro sul Carnet. Partiamo senza la certezza dell’utilità del Carnet in Benin e con molti dubbi su cosa accadrà quando a novembre, dovremo uscire dal Paese. La reale utilità del Carnet nei Paesi che non lo prevedono è incerta. C’è chi sostiene sia inutile e chi, viceversa, lo ritiene indispensabile per lasciarvi l’auto. Come molte situazioni in Africa, è bene raccogliere preventivamente più informazioni possibili prima di partire ma poi, la realtà vera ognuno la prova al momento sulla propria pelle, soprattutto a seconda di chi trova nelle dogane. Vedremo.

Dopo avere attraversato una bella e selvaggia zona montagnosa, arriviamo alla periferia della cittadina di Natitingou dove imbocchiamo la pista verso sud-ovest che in circa 50 chilometri, ci porterà al confine col Togo, nel villaggio di Boukoumbè, abitato dall’etnia Somba, animista e molto ancestrale, segnalatoci da Maurizia. Constatiamo che sono iniziati i primi lavori per asfaltare la pista; chissà se è la scelta migliore che poteva fare il governo del Benin. La pista larga e in parte in salita, non è delle migliori e presenta lunghi tratti di tole ondulèe molto fastidiosa. Percorriamo l’intera distanza senza trovare anima viva e nel pomeriggio, arriviamo a Boukoumbè o meglio, nel nucleo principale di case del villaggio che è sparso per diversi chilometri attorno e conta complessivamente, come ci diranno in seguito, circa 5.000 abitanti. La sensazione che proviamo guardandoci attorno è quella di essere veramente in un altro mondo. Il villaggio è poverissimo e quasi totalmente composto da abitazioni tradizionali denominate “tatà” che salgono in forma circolare o semicircolare e hanno il tetto di paglia a forma di cono. Zebù, pecore, capre, maialini, galline, pascolano tra le case e nei dintorni del villaggio. La vegetazione è tipica della zona di confine tra la savana e la foresta e vede predominare principalmente tra gli alberi, le palme, i manghi, numerosi enormi baobab e varie altre tipologie di piante africane a noi sconosciute. Esiste una sola fonte di acqua in tutto il gruppo di case, tramite una pompa a pedale realizzata con finanziamento di una organizzazione statunitense (che sforzo!). Attorno a tale pompa ci sono donne che lavano i panni, animali che si abbeverano e bambini che giocano. Notiamo immediatamente che tutte le persone, uomini e donne, hanno degli strani segni su tutto il volto, numerosissime righe che attraversano l’intera faccia e la fronte in verticale, incrociandosi con altre segnate in orizzontale. Molto particolare.

In quel luogo, l’unico posto per dormire è una struttura denominata “La perle de l’Atacora” che è costruita con materiali e con lo stile delle case “tatà”, con otto stanze disponibili tra il pian terreno ed il primo piano. E’ gestita da una piccola organizzazione locale che dispone anche di qualche guida, chiaro tentativo di sviluppare un turismo che tarda a decollare. Ovviamente prenotiamo una camera per due notti ed il gestore, un nero gigantesco anche lui con la faccia segnata, ci avverte che la corrente elettrica va e viene, anzi più spesso manca e la doccia è solo del tipo “africano”, cioè, occorre munirsi del secchiello messo a disposizione, uscire a prelevare l’acqua alla fonte e lavarsi con quella. E’ possibile mangiare ma solo riso bollito con cipolle, pomodori e carote, oltre a patate dolci fritte, con preparazione a cura di una simpatica e svampitissima donna locale. Unico “svago” è la possibilità di avere birra “Beninoise” a volontà. Turisti non ce ne sono e la struttura oltre a noi, ospita due ragazze e un ragazzo belgi di Liegi che sono nel villaggio per uno stage di sei settimane nella scuola elementare dello Stato, sita a qualche chilometro di distanza. I ragazzi, Elisa, Camille ed Arnaud, ci raccontano la loro esperienza nella scuola dove insegnano francese ed aritmetica, mostrandoci i quaderni degli alunni. Le classi sono composte tutte da oltre 40 scolari poverissimi e sono quasi prive di materiale didattico. I tre ragazzi sono simpatici e diventiamo subito amici. Ci dicono anche che nel villaggio è presente pure una scuola elementare cattolica che però non collabora con la scuola pubblica, disperdendo così le poche risorse disponibili che sarebbero meglio sfruttate in uno sforzo comune.

Quella notte, dormiamo in un clima ancestrale incredibile.

11/3/2018. Ci alziamo alla mattina presto e con una guida dell’organizzazione di nome Mathias, pure lui con la faccia segnata, iniziamo un piccolo trekking di qualche ora nel villaggio e nei suoi dintorni. La guida ci informa che il termine “Somba” per definire la sua tribù e dispregiativo. Il vero appellativo è “Betamaribè”. Dice che sono una etnia molto fiera ed individualista, per questo la comunità non abita un unico grande villaggio, ma preferisce vivere in piccoli nuclei sparsi di case, abitate prevalentemente da persone imparentate, dello stesso clan. In passato si sono opposti fieramente ai vari re di Abomey che facevano scorrerie anche da queste parti per catturare schiavi da vendere sulla costa ai negrieri bianchi. I Betamaribè sono tutti animisti e accettano la presenza di alcuni frati cattolici solo per il fatto che hanno aperto la scuola. Chi fosse diventato cattolico, continua comunque nelle tradizionali usanze religiose animiste.

Dal punto di vista della natura, la guida ci spiega che in zona, come animali selvatici sono presenti soprattutto varie tipologie di gazzelle e, in numero minore, i bufali. Pochi sono viceversa i serpenti. Per quanto riguarda gli alberi, oltre a maestosi manghi e ai giganteschi e plurisecolari baobab, alcuni dei quali col tronco cavo dove ci si può entrare come se fosse una stanza, ci sono dei curiosi grossi alberi chiamati “nerè” ai cui rami sono appesi grappoli di frutti simili a grosse fave. Aperti i baccelli, se ne può mangiare l’interno che è molto nutriente e con un buon sapore. Per quanto riguarda l’agricoltura, prevalgono modeste coltivazioni di sorgo e patate dolci, agricoltura condotta con metodi primitivi con l’uso di rudimentali zappe e forza umana.

Entriamo poi a visitare delle abitazioni “tatà” costruite con mura di fango e sabbia, con le facciate esterne rifinite con un impasto di sabbia e sterco di bufalo; sulle facciate sono tracciate le stesse linee che si vedono sui visi delle persone, simboli distintivi della tribù. Queste costruzioni tutt’ora abitate, al piano terreno hanno locali ove vengono ospitate capre e galline, oltre ad ad angolo con delle lastre di pietra sulle quali si macina il il sorgo. Al primo piano ci sono altre stanzette per la vita famigliare e, infine, sul terrazzo ci sono delle specie di “cucce” alte non più di 80-90 centimetri, in ognuna delle quali si infilano e ci trovano posto per dormire anche quattro persone. Sul terrazzo ci sono pure i granai fatti a torre circolare e ricoperti con un tetto di paglia amovibile a forma conica. La genialità della costruzione sta nel fatto che, anche durante la stagione delle piogge, l’acqua non entra nel “tatà” poiché lo stesso è dotato di tetti di paglia e foglie di palma costruiti con precise pendenze, così come pure il terrazzo. L’acqua non si ferma, scorre e va.

Successivamente ci rechiamo in un punto panoramico con meravigliosa veduta verso il Togo.

Durante la camminata di ritorno la guida ci spiega che tutti i bambini, maschi e femmine, al compimento del terzo anno di età, vengono sottoposti alla pratica delle incisioni su tutto il viso effettuate con coltelli dalle lame sottili e taglientissime. Tali segni sono distintivi della tribù e rimangono visibili per tutta la vita. Ci fa ribrezzo il pensiero del dolore provato da quei bambini e dalle infezioni che possono insorgere anche se la guida ci spiega che le ferite vengono disinfettate con degli impasti dei frutti del nerè

Infine ci comunica che a una quindicina di chilometri di distanza, nel pomeriggio si terrà il rito della circoncisione tradizionale a dei ragazzi tra i 17 e i 20 anni. Se vogliamo assistervi è possibile ma è vietatissimo fotografare e filmare.

Nel pomeriggio, unitisi a noi i tre ragazzi belgi liberi dagli impegni con la scuola, partiamo assieme alla guida che ci precede in motorino e dopo una quindicina di chilometri di pista, giungiamo nel luogo ove avverrà il rito delle circoncisioni. Il sito è una vasta area pianeggiante di savana con rari baobab, dove sono presenti ad occhio, non meno di 2000 persone. Circa la metà di dette persone, sono vestiti con abiti tradizionali e sono i parenti dei ragazzi da circoncidere, gli altri sono spettatori. Gli abiti tradizionali sono coloratissimi e comprendono anche cappelli di curiose fogge, anche con piume. Un energumeno armato di fucile, visti noi cinque bianchi si avvicina e in tono minaccioso ci intima di non fotografare assolutamente…Ce ne fosse stato bisogno! La guida ci spiega che i ragazzi da circoncidere sono una quindicina. Infatti vediamo dei gruppi in abiti tradizionali che si formano e per ognuno viene posto in testa al gruppo la “vittima” vestita nei modi più incredibili. I parenti lo spingono in una corsetta ritmica e loro dietro cantano e ballano al suono di tam-tam, strane trombe di legno, fischietti. Queste specie di “trenini” vagolano a lungo nella pianura a zig zag ed è chiaro che tale parte del rito serve a portare il giovane da circoncidere ad una sorta di trance. Quando il ragazzo è pronto, lui e tutta la famiglia entrano in un quadrato tracciato con della cenere sul terreno con lati di circa 15 metri. Ogni famiglia ha tracciato il proprio quadrato e nessun altro può entrarvi. Al centro del quadrato è posto un rudimentale piccolo palco sul quale sale il ragazzo da circoncidere, un anziano della famiglia che è il circoncisore prescelto dalla famiglia stessa, armato di coltellaccio che a occhio pare lungo una trentina di centimetri e che mostra al pubblico; infine sale pure un uomo armato di fucile. Assistiamo così alla prima circoncisione che viene fatta ad un ragazzo col volto dipinto di bianco. Al poveretto viene posizionato sul collo dietro la nuca e poggiante sulle spalle un bastone in orizzontale che afferra con entrambe le mani come fosse in croce, per farsi coraggio. A questo punto, l’anziano si inginocchia davanti a lui e con le mani lo rovista alla ricerca del membro al quale in tre-quattro minuti taglia e asporta il prepuzio. Malgrado il dolore che deve essere fortissimo, il giovane non fiata e ciò è segno di coraggio davanti a tutti. Finita l’operazione l’anziano alza il coltello sanguinate, butta per aria la pelle del prepuzio mentre l’uomo col fucile spara un colpo in aria, segnale che la circoncisione è avvenuta con successo. A questo punto il giovane, più morto che vivo, è accolto dalla famiglia che lo festeggia. Lo spettacolo è assolutamente barbaro e per noi poco sopportabile. Ad ogni modo assistiamo a quattro circoncisioni. Durante la quarta, il ragazzo non emette alcun grido di dolore ma, di fatto sviene in piedi e, uomini robusti non riescono nemmeno a liberare le sue mani dalla presa sul bastone, evidentemente impugnato con tutta forza. Una delle ragazze belghe non resiste più allo spettacolo, vuole andarsene e così decidiamo di tornare tutti al villaggio. La guida ci spiega che attualmente la circoncisione può essere fatta anche presso l’ospedale di Natitingou, ma la maggior parte dei giovani preferisce il rito tradizionale per dimostrare il loro coraggio anche se è causa di violente infezioni. Allucinante.

La sera ceniamo coi belgi a base di patate dolci e alla luce di torce, dato che l’elettricità è andata in tilt.

12/3/2018. Salutati i belgi, partiamo di buon mattino verso Natitingou per proseguire sulla statale, in discrete condizioni, verso sud alla volta di Abomey, la capitale del ferocissimo regno di Dahomey, noto per la crudeltà dei suoi re verso il popolo e la cattura degli africani dell’interno da vendere come schiavi prima ai portoghesi, poi a olandesi, inglesi e francesi. Per la strada incrociamo un gran numero di vecchi camion stracarichi di cotone grezzo che in parte viene perso a batuffoli, i quali si depositano ai lati della strada come fosse neve. Questo biancore ai lati della carreggiata, molto curioso, lo riscontriamo per circa 500 km. Lungo la strada abbiamo modo di vedere ogni tanto casse da morto, piazzate davanti alle case a ridosso della strada. Sono chiuse e quindi non si capisce se contengano la salma o meno e tanto meno si capisce cosa stiano a fare li. La cosa più comica è quando dobbiamo sorpassare un motorino che porta sul portapacchi posteriore una bara piazzata di traverso. Riusciamo a fotografarla. I Beninesi devono avere un rapporto tutto particolare con la morte e il mondo dei defunti.

Purtroppo abbiamo dovuto perdere un paio di ore nella cittadina di Natitingou presso un ufficio della telefonia locale MTN, per ricollegare i nostri telefoni che nel villaggio erano “morti” impedendoci sia di telefonare che di navigare. Il tempo perso ci impedisce di giungere in giornata ad Abomey e quindi, facciamo tappa a Dassa dove alloggiamo in un albergo decente, l’“Auberge de Dassa ”. Finalmente riusciamo a farci una doccia pur se con pochissima acqua, ma mangiamo abbastanza male. Nota positiva è che Bruno riesce a bere un whisky.

13/3/2018. Arriviamo ad Abomey dove troviamo alloggio nel modesto ed africanissimo “Hotel chez Monique”segnalato pure dalla Lonely Planet. E’ umile e con doccia africana, però è gestito da alcune donne disponibili e simpatiche ed ospita qualche turista francese ed inglese. Il cortile interno dell’alberghetto è spettacolare. Vi sono ospitati diversi alberi della flora africana, ad ognuno dei quali è appesa una maschera di legno autentica di scultura tradizionale e voodoo. Numerose sono pure le statue di legno che rappresentano l’olimpo animista delle credenze locali. In un angolo del cortile, le gestrici cucinano la cibaria per gli ospiti su griglie con fuoco a legna e in pentoloni anneriti. L’ambiente è suggestivo e la cucina buona.

In tarda mattinata e fino a sera, visitiamo il centro della cittadina e il Museo storico. Il centro è composto da un groviglio tortuoso di vie e viette non asfaltate, sulle quali si affacciano abitazioni poverissime in uno strano stile misto africano-coloniale. La povertà è tangibile. Di tanto in tanto, appare una casa più lussuosa, costruita spesso con stile pacchiano, abitazione evidentemente della scarsa borghesia locale. Giunti al palazzo reale, ci appare una costruzione di grandezza notevolissima che, più che espandersi in altezza, si espande in larghezza ed è circondata da un muro molto alto. Il palazzo non è visitabile se non dal lato dove si può entrare in un enorme cortile che contiene il Museo storico di Abomey. Obbligatoriamente si può visitare quella parte del palazzo e il museo, solo accompagnati da una guida ufficiale e senza fare foto. A noi capita una simpaticissima donna di nome Christine che, molto colta ed in francese perfetto e comprensibile al meglio, ci conduce a visitare il museo e i suoi cimeli, raccontandoci la storia del regno del Dahomey. In sostanza, fu un regno guidato da re sanguinari, dall’inizio del 1500 e fino al 1900 quando arrivarono i colonialisti francesi che ne deposero l’ultimo. Questi re regnavano sul loro popolo in maniera dispotica e crudele. Soprattutto, si dedicarono alla cattura delle genti di tribù confinanti da vendere come schiavi ai negrieri, facendoli camminare con le caviglie incatenate per un centinaio di chilometri fino a Ouidah sulla costa. Il pezzo forte del museo è il trono di uno di questi re che poggia su quattro teschi umani in segno di padronanza assoluta sul popolo, anch’esso in condizione vicina alla schiavitù. La guida sostiene che senza i re del Dahomey, il mercato degli schiavi verso le Americhe non avrebbe potuto raggiungere lo sviluppo enorme che ha avuto, in quanto gli europei non gradivano troppo avventurarsi all’interno a condurre le scorrerie, per paura di essere sopraffatti dalle tribù, preferendo comprare schiavi dai re del Dahomey che, di fatto, lavoravano per loro.

14/3/2018. Partiamo per la costa per fare tappa da “Au Jardin Helvetia” dove lasceremo la macchina per alcuni mesi e da dove faremo base per visitare le numerose cose da vedere in zona.

Arriviamo così in mattinata sulla “Route de peche”, “Strada della pesca” che è una pista sabbiosa che lambisce l’oceano e partendo dai sobborghi della periferia di Cotonou, si spinge a ovest per una cinquantina di chilometri fino a Ouidah, capitale del voodoo e principale punto di imbarco degli schiavi verso le Americhe. Lo spettacolo che ci accoglie è stupendo. Questa pista di sabbia gialla corre tra palme da cocco altissime e, di tanto in tanto, appaiono gruppetti di poverissime case di pescatori locali che si scorgono intenti a tirare a riva  in gruppi di 20-30 persone delle enormi reti. Ci sono barche coloratissime al largo oppure a riva messe in secco. Posto meraviglioso e totalmente privo di turisti. Il navigatore ci conduce “Au Jardin Helvetia “ che si trova sulla pista a 11 km da Cotonou e qui, amarissima sorpresa.

“Au Jardin Helvetia” ci era stato segnalato come camping gestito da svizzeri, in grado di tenere in garage la nostra macchina per alcuni mesi, cosa ovviamente di massima importanza per un viaggio a tappe come il nostro. Facemmo delle ricerche sul web, trovando ottime referenze, foto molto belle e addirittura un filmato su youtube che mostra una sorta di paradiso terrestre tra le palme sull’oceano. Li contattammo per e.mail e loro, gentilissimi, ci risposero facendoci il preventivo – caro –  di 40 euro/mese per tenere Tatiana e ci riservarono un bungalow “luxe” per i giorni che desideravamo restare a partire dal 14 marzo. Il loro preventivo, stampato su carta intestata a colori con relativo logo, due indirizzi mail, numeri di telefono, ecc. ci servì come lettera di invito per ottenere il visto per il Benin. Alcuni giorni prima del nostro arrivo, ci inviarono una e.mail per conferma alla quale rispondemmo positivamente.

All’arrivo in zona, il navigatore indica in modo preciso il luogo dove è ubicato il camping e noi pensiamo ci sia un errore poiché vediamo solo un mucchio di baracche abbandonate e distrutte per cui procediamo ancora. In breve però ci rendiamo conto che il navigatore non sbagliava; torniamo indietro e scopriamo che quell’ammasso di bungalow distrutti in mezzo ai rovi tropicali è proprio il “Jardin Helvetia”al quale però era stata tolta l’insegna all’ingresso che è sbarrato da quattro sedie. Compare una donna nera che ci stava aspettando e che abita all’interno del camping in una baracca con la famiglia. Ci dice che la padrona (la svizzera) è assente e tornerà solo a sera tardi però, le ha lasciato la chiave di un bungalow per mostracelo. Attraversiamo rovi, sporcizia di ogni tipo sparsa dappertutto, vecchi frigoriferi arrugginiti, vecchie poltrone rotte, materassi, tutta roba abbandonata all’aperto, e arriviamo al famoso “bungalow luxe”, La struttura è completamente marcia per l’acqua piovana che vi è entrata, i vetri tutti rotti e sparsi sui resti del pavimento, il bagno tutto rotto e indecente, il letto matrimoniale anch’esso in pessimo stato e privo di materasso. Il materasso di spugna sporchissimo, è appoggiato ad un muro, senza fodera e  con uno squarcio gigantesco nel centro. Ragnatele enormi, vecchie di anni, scendono dal tetto e si appoggiano sul letto. La donna, a nostra domanda e abbassando lo sguardo, ci dice che nel camping non c’è acqua corrente e neanche l’elettricità. Andiamo quindi a visionare quello che dovrebbe essere il “garage” per la nostra 4×4 e constatiamo che trattasi di una baracca col tetto semicrollato e che ci piove dentro abbondantemente, sporchissima e piena di cianfrusaglie, dove albergano lucertoloni, insetti tipo calabroni e, probabilmente pure qualche serpente. Vi giace abbandonato un vecchio furgone privo di ruote. Per entrarci con Tatiana, dovremmo spostare a mano un bel po di quintali di pali di legno che posati per terra di traverso davanti alla porta, ostruiscono il passaggio. Ovviamente siamo adirati e riempiamo di domande la donna che per non rispondere finge di non capire bene il francese. Telefoniamo alla padrona che, ovviamente, ha inserita la segreteria telefonica e non risponde. Per fortuna non abbiamo mandato soldi per la prenotazione.

Ce ne andiamo furibondi, domandandoci se la proprietaria sia una pazza poiché, con tutta evidenza, nessuno si fermerebbe in quel camping e men che mai, ci lascerebbe l’auto per dei mesi. Perché mai ci ha prenotato? Mah…

Il problema che dobbiamo affrontare ora è assai complicato. Infatti, se è relativamente facile trovare da dormire e fare base per visitare la zona, è assai più difficile trovare chi è disponibile a tenerci Tatiana fino a novembre. Ci sovviene che qualche chilometro prima in direzione Cotonou, avevamo visto un cartello indicatore con la scritta “Motel Casa d’Italia”. Torniamo sui nostri passi, raggiungiamo il cartello e ne seguiamo le indicazioni. A poche centinaia di metri, entriamo in un villaggio, di fatto estrema periferia occidentale di Cotonou, chiamato Togbin. Qui individuiamo il “Motel Casa Italia”, piccola struttura nuovissima con sole tre stanze, denominate rispettivamente: Torino, Roma e Venezia ma con altre tre in costruzione che saranno: Milano, Firenze e Napoli. I due ragazzi che lo gestiscono sono felicissimi di darci una stanza (ovviamente la Torino in base alla nostra provenienza) con letto matrimoniale, condizionatore, bagno e doccia, tutto nuovissimo e pulitissimo, tra l’altro a soli 10.000 CFA al giorno, pari a circa 15 euro. Ci spiegano che il motel ha quel nome poiché il proprietario è amante dell’Italia.

Dopo esserci rifocillati, spieghiamo ai ragazzi il nostro problema e la necessità di trovare qualcuno disposto a tenerci l’auto. Loro dicono di essere disponibili a tenerla nel cortile del motel ma, a riguardo devono sentire il proprietario e lo chiamano telefonicamente. Lo stesso dice che alle nove di sera del giorno dopo, verrà al motel e sarà felice di parlare con degli italiani.

Ceniamo in un modesto ma nuovo ristorantino davanti al motel dove una svampitissima ragazza ci serve un pollo con patate buonissimo ma combinandone di tutti i colori.

15/3/2018. La mattinata è totalmente dedicata a Cotonou dove ci rechiamo per fare il biglietto aereo di ritorno, impossibile a prenotarsi diversamente,  e ad informarci presso l’ambasciata della Nigeria sulle modalità per ottenere da loro il visto per il Paese, informazioni che saranno utili per la prossima tappa di novembre, evitando così le complicazioni che fa a riguardo l’ambasciata nigeriana in Italia.

La prenotazione del volo presso la Royal Air Maroc che è la compagnia che pratica i prezzi migliori, è un incubo. Perdiamo più di due ore per il fatto che il loro programma è bloccato e devono intervenire dei tecnici. Poi scopriamo che non sono attrezzati per ricevere il pagamento con la carta di credito e non possono accettare euro, ma solo franchi CFA! Dobbiamo così recarci a cambiare 800 euro in CFA e, con una mezza borsata di banconote, finalmente, pagare alla cassa. Sono stati però gentilissimi! C’est l’Afrique.

L’ambasciata nigeriana a Cotonou è una specie di fortezza circondata da un muro altissimo, probabilmente una ex caserma. L’ingresso è un portone di ferro rigorosamente chiuso dove non può passare nessuno. Di fianco al portone, c’è uno spioncino a finestrella con sbarre d’acciaio, dal quale un energumeno da informazioni ai malcapitati. Non c’è altra possibilità se non conferire con lui. Chiediamo gentilmente se possiamo entrare per informarci sul rilascio di visti e lui, mentre infila le stringhe ad una scarpa appoggiata alla scrivania, scorbuticamente ci dice di mostrargli il permesso di soggiorno in Benin rilasciatoci da almeno sei mesi. Gli diciamo che siamo cittadini italiani e abbiamo solo il visto turistico di un mese del Benin e, ovviamente, non il permesso di soggiorno. Lui ci dice che se è così ha ordine di non farci entrare e che tutte le informazioni che ci occorrono, sono “attaccate al muro”. Bruno inizia ad innervosirsi e gli chiede di essere più chiaro. L’energumeno si alza, esce dal portone di ferro, ci conduce ad una decina di metri lungo il muro della “fortezza” dove in una  bacheca con vetri, sono affissi dei fogli in inglese e francese, indicanti tutte le modalità per ottenere, con riserva, il visto per la Nigeria. Se ne torna dentro, spranga il portone e pure lo spioncino con l’evidente intenzione di non conferire più con noi.

La lettura delle informazioni in bacheca non chiarisce assolutamente nulla in più da quello che avevamo appreso dall’ambasciata nigeriana a Roma. L’ottenimento del visto è cosa complicatissima. Decidiamo di soprassedere e affrontare  la questione al rientro in Italia.

Il pomeriggio lo trascorriamo sulla spiaggia dei pescatori, luogo veramente paradisiaco, dove troviamo dei ragazzini neri che fanno il bagno. Cristina si butta e l’acqua è caldissima e rifocillante. Non c’è l’ombra di persone diverse dai pescatori, zero turismo. Bellissimo.

Verso sera ci telefona la svizzera, magari delusa che non ci siamo fermati nella sua meravigliosa struttura, alla quale facciamo tutte le rimostranze e lei dice che forse non aveva ben compreso le nostre esigenze! Ci fu una copiosa corrispondenza scritta….Incredibile.

Alle 21, arriva in motel il proprietario di nome Achille, che scopriamo essere persona gentile, brillante e funzionario del Ministero dell’Economia e delle Finanze oltre che benestante. Ci dice di avere frequentato un corso di un anno al BIT di Torino e da li è nato il suo amore per l’Italia. Non parla italiano se non qualche parola, poiché il corso lo fece in francese. Ci racconta il suo progetto del motel e dell’ingrandimento previsto. Anche se non lo dice, è chiaro che come altri in zona, spera nello sviluppo turistico di una costa bellissima. Dice che presso il motel non può tenerci l’auto ma, conosce un garagista che sicuramente ce la terrà. Perfetto. Ci accordiamo per andare dal garagista a concordare tra un paio di giorni. Infine ci comunica di non farci troppe illusioni per l’ottenimento di un visto nigeriano dall’ambasciata in Benin. La Nigeria ha di fatto chiuso la frontiera ai residenti in Benin e per entrarci, le regole sono severissime, evidentemente le applica anche agli stranieri. Lo ringraziamo.

16/3/2018. Dedichiamo la giornata alla visita di Ganviè, grosso villaggio di circa 35.000 abitanti, costruito interamente su palafitte, nelle acque del lago Nokouè ad una trentina di chilometri a nord di Cotonou. Il luogo detto “Venezia d’Africa” è incredibile e molto particolare. Ci si arriva solo in barca e con la guida e noi, pigliamo tal Eric, una guida ufficiale che accompagnato da due fratelli minori che pilotano il barcone a motore, ci conduce a Ganviè tra i vari canali trafficatissimi di piroghe e tra le case su palafitte, tutte di legno, poverissime. Eric è guida esperta, parla un ottimo francese e ci racconta che il villaggio è stato fondato nei primi anni del ‘700, dalla tribù dei Tofinù che la abitano tutt’ora, per sfuggire alle razzie dei re del Dahomey che volevano ridurli in schiavitù per venderli ai bianchi. Il luogo fu prescelto per il fatto che i cacciatori di schiavi di Abomey per un tabù religioso, non potevano avvicinarsi all’acqua del lago. Facciamo un lungo giro osservando la poverissima esistenza condotta nell’isola dove gli uomini pescano e le donne portano il pescato sulla terraferma per venderlo al mercato. Il lago che è collegato all’oceano, a seconda delle stagioni ha acqua in prevalenza dolce o salata e quindi, è popolato sia di pesci di acqua dolce come pesci di mare. La sua profondità non superiore a 2 metri, lo rende molto pescoso e idoneo a costruirci palafitte. La comunità vive soprattutto di pesca e di un po di turismo. Scendiamo tre volte dalla barca per vedere dei lavori di artigianato e la statua del re fondatore che, dicono, sia campato 130 anni, fosse un uomo alto 2,20 metri ed è tutt’ora molto considerato. Il luogo è assolutamente particolare ed è il sito più turistico che abbiamo visitato sino ad ora, anche se la “massa turistica” è di proporzioni minime rispetto a ciò che siamo abituati in Europa. Oltre a noi incontriamo infatti solo una classe di liceali inglesi in visita. Eric che è nativo di Ganviè ed è cattolico, è furibondo con i cristiani, sia cattolici che protestanti, a suo dire solo in cerca di businnes. Ci mostra le chiese molto belle, la  cattolica e la protestante oltre alla moschea. Tali edifici dall’apparenza solidissima, maestosi e costruiti in muratura, contrastano terribilmente con le misere baracche di legno e bambù sulle palafitte, dove la gente vive in estrema povertà e condizioni igieniche spaventose. Eric dice: “Vivono quotidianamente in condizioni disperate ma vanno a pregare in luoghi lussuosi, però io credo in un Dio che non può accettare queste cose.” Il suo  rancore verso i cristiani è dovuto al fatto che “le chiese cristiane sono state costruite con soldi pubblici e raccolta di fondi, mentre si potevano costruire case e ospedali.” “E la moschea dei musulmani?” Domandiamo noi. Ci risponde, “…no, quella per costruirla ha messo tutti i soldi Gheddafi che era venuto in vista; alla povera gente di qui non è costata nulla. Quello era un grand’uomo e lo hanno ammazzato.”

Sbarchiamo sulla terraferma e visitiamo il mercato del pesce molto lussureggiante dove le donne di Ganviè vendono il pescato dagli uomini. Sono presenti anche molti venditori di verdura e altri generi. Le donne di Ganviè infatti, vendono i pesci e tornano a casa dopo aver acquistato verdure e generi di prima necessità. Mercato, potremmo dire, tipico della “preglobalizzazione”.

17/3/2018. Dedichiamo la giornata alla visita di Ouidah, cittadina sulla costa a circa 90 chilometri a ovest di Cotonou, famosa per essere la capitale del voodoo e principale punto di imbarco verso le Americhe degli schiavi catturati dai re del Dahomey. La cittadina è inserita nei circuiti turistici ma, per la verità, oltre a noi durante la nostra permanenza non abbiamo incontrato alcun turista.

Partiamo visitando il “Tempio dei pitoni”dove ci accoglie un giovane uomo che fa da guida e parla il francese in modo poco comprensibile. Costui si offre come guida per tutti i siti della città chiedendoci 45.000 CFA che riteniamo troppi. Inizia una trattativa che si conclude accordandoci su 20.000 CFA, pari a circa 30 euro, non troppo per noi e forse, gran guadagno per lui. Il “Tempio dei Pitoni” è un luogo del voodoo dove 50-60 serpenti sacri, mezzi addormentati sonnecchiano aggrovigliati a gruppi. Dato il modo di parlare del tizio, non capiamo granché sulla sacralità del luogo. Ad ogni buon conto si fa fotografare con un pitone al collo, cosa che ripete anche Bruno con grande ribrezzo di Cristina. Un po troppo turistico tutto l’insieme. Partiamo quindi per la “Via degli schiavi” che in quattro chilometri porta dalla città all’oceano e ripete il percorso che facevano gli schiavi incatenati. La via parte dalla piazza dove si teneva il mercato degli esseri umani e continua passando diversi siti molto tristi come la fossa comune dove venivano sepolti quelli che non ce la facevano, tutt’ora occupata da 5.000 salme, l’albero dell’oblio, attorno al quale gli schiavi uomini dovevano roteare per nove volte e le donne sette, per dimenticare completamente il loro passato. Lungo la via ci sono innumerevoli statue che raffigurano la tristissima condizione degli schiavi. Sulla spiaggia infine, è stato costruito un grande monumento ad arco, denominato “Porta del non ritorno” che simboleggia e ricorda le crudeltà della tratta e l’abbandono definitivo della terra d’Africa per quegli sventurati. Tutto il percorso è tutelato dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità.

Nel pomeriggio la guida ci porta fuori città nella boscaglia dove c’è un tempio voodoo retto da un sacerdote, a suo dire, particolarmente potente. Arrivati, noi rimaniamo sulla soglia ed egli entra per chiedere il permesso al nostro ingresso. Dopo un quarto d’ora circa, ricompare dicendoci che il permesso è negato. Ci porta pertanto in un altro tempio non molto distante e stavolta, il permesso di ingresso lo otteniamo. Il tempio è una piccola costruzione di cemento e fango, circondata da un recinto ancestrale di canne dove gironzolano delle capre. In una calura insopportabile, la moglie del sacerdote e alcuni bambini sonnecchiano sdraiati sotto una tettoia di paglia. Arriva una donna che ci fa spogliare tutti a torso nudo (a Cristina viene lasciato il reggiseno) e consegna ad ognuno una specie li lenzuolo bianco, sporchissimo, col quale gli uomini devono cingersi i fianchi e Cristina fianchi e petto. A questo punto ci fa togliere pure le scarpe e a piedi nudi, entriamo nel tempio. Ci attende una piccola stanza in parte occupata da un altare rudimentale, probabilmente in cemento. Accanto all’altare sta il sacerdote seduto, anche lui a torso nudo e, prima di parlarci, ci fa cenno di inginocchiarci, toccarci per tre volte la fronte con le mani, tre volte il petto e tre volte il pavimento. Poi dobbiamo abbassare la testa, sino a toccare il suolo con la fronte. A questo punto, abbiamo il permesso di metterci a sedere su un rialzo di cemento e parlare. Il sacerdote, di età giovanile almeno in apparenza, ci dice che possiamo fargli tutte le domande che vogliamo sul voodoo. Inizia così un dialogo tra domande e frasi dette dal sacerdote dal quale se ne ricava che il voodoo è una religione di bene e pace, tutta orientata alla felicità degli uomini. Sull’altare, incredibilmente, ci sono bottiglie di gin e coca cola semipiene, cestini rudimentali con erbe secche, pezzi di gallina seccati, pastoni di strane polente di vari colori, il tutto mescolato un po come un immondezzaio. Pensiamo siano doni ma il sacerdote dice che sono oggetti e beni portati li per ricevere la benedizione che si estenderà a chi li ha portati. Poi ci accompagna fuori e ci mostra altri due tempietti dove viceversa, ugual mercanzia a quella di prima, era depositata come dono al voodoo. Infine ci fa vedere dall’esterno in terzo tempietto, dove noi non possiamo entrare e, anche lui, può entrarvi solo camminando all’indietro. Tutto l’ambiente è molto sporco e l’aria è impregnata da un forte odore di caprone. Il sacerdote inoltre, regge un bastone con attaccati dei ciuffi di peli, probabilmente di capra, che muove in continuazione. Da quel bastone esce un lezzo insopportabile. Finita la visita, senza aver capito granché del voodoo, offriamo 1000 CFA al sacerdote che accetta molto volentieri, ci rivestiamo e torniamo al motel.

Nel tardo pomeriggio, accompagnati dal proprietario del motel, andiamo dal garagista di nome Jean Louis che ci terrà la macchina fino a novembre. Il garage nuovo e in buonissimo stato, è attrezzato pure per il lavaggio. E’ piccolino avendo solo una quindicina di posti al coperto, tutti occupati da grossi SUV, e un’altra decina di posti nel cortile recintato dove terrà tra le altre auto anche Tatiana, coperta con un telo impermeabile. La situazione ci piace e concordiamo la tariffa mensile di soli 10.000 CFA, circa 15 euro, stabilendo di lasciarvi la macchina il 19 marzo sera, dato che dovremo prendere l’aereo il 20 marzo.

18-19/3/2018. gli ultimi due giorni del viaggio, li trascorriamo scorrazzando in lungo e in largo sulla “Strada della pesca” vicinissima al motel. Facciamo un sacco di foto. Scopriamo lungo la pista un locale denominato “Liz’ Creole” di proprietà di una dirompente signora della Martinica di nome Rose, che ha sposato un uomo del Benin e aperto nel 2009 il locale. Il locale è una sorta di “Taverna dei sette peccati,” formato da un rudimentale bar con bancone strapieno di bottiglie di liquore, attorno al quale, direttamente sulla sabbia della enorme spiaggia, sono posizionate delle tettoie ricoperte da foglie di palma che fanno ombra, con tavoli per sedersi, dove viene servito dell’ottimo pesce alla griglia cucinato dalla stessa Rose. Subito c’è reciproca simpatia e Bruno assaggia i famosi e ottimi rum della casa, uno con 51 gradi e un altro con addirittura 59 gradi, veramente prelibati. Chiacchierando, Rose ci dice di temere che la splendida “Strada della pesca” abbia il tempo contato in quanto un gruppo del Qatar e un altro cinese, hanno in mente di fare una grossa speculazione su quei 50 chilometri di spiaggia, costruendovi resort per turismo di lusso, ovviamente dopo aver fatto sgomberare lei e tutti i poveri pescatori. Molti a Cotonou sono favorevoli pensando che arrivi sviluppo ma lei non molla. Si è già data da fare per organizzare una resistenza in tutti i modi coi pescatori. Ci lasciamo scambiandoci gli indirizzi di posta elettronica.

Auguriamo ogni bene a Rose e ai pescatori ma temiamo fortemente che per loro sarà molto dura.

La sera del 19 marzo, consegniamo Tatiana al garage.

20-21/3/2018 Il volo parte da Cotonou, fa scalo a Lomè e poi a Casablanca. Il 21 mattina arriviamo a Milano Malpensa, soddisfatti per una tappa della nostra Transafrica culturalmente meravigliosa specie per l’incontro, sempre interessante, con le umanità più varie. La prossima  è prevista a novembre e riguarderà il percorso fino a Libreville in Gabon. Probabilmente Cristina non potrà parteciparvi poiché a settembre intendiamo farci un giretto in Etiopia col conseguente esaurimento di tutti i giorni di ferie per lei disponibili nel 2018. Un amico di entrambi, si è già dichiarato pronto a partire con Bruno per la nuova tappa. Vedremo.

1 comment… add one
Luca Andrea September 10, 2018, 12:13

Mi complimento per il preciso resoconto, molto ben scritto: trasmette veramente le emozioni che dovete aver provato.
Resto in attesa della terza parte!
Luca Andrea

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