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Due anni di Transafrica

– Posted in: Africa, Africa Australe, Africa Centrale, Africa Est, Nord Africa, Resoconti di viaggio

By Piero Priorini
Originally Posted Monday, September 8, 2008

 

Due anni di TransAfrica

15 dicembre 07 – 16 gennaio 08

Tutte le volte che io e Raffaella ci eravamo trovati a viaggiare nell’Africa del nord – che fosse l’Egitto, la Libia o l’Algeria durante le vacanze natalizie, o invece il Marocco, la Mauritania, il Senegal o il Mali, durante le più lunghe vacanze estive – immancabilmente, ogni volta, avevamo finito per trovare qualcuno che stava realizzando la discesa integrale del continente se non addirittura il suo periplo. Quasi sempre si trattava di coppie molto affiatate che in un qualche modo avevano abbandonato la vita ordinaria – a volte per un anno, altre addirittura per due – e stavano perciò cavalcando un proprio sogno. Le coppie più giovani, spesso, realizzavano la loro avventura prima ancora di entrare a tutti gli effetti nel mondo del lavoro, quasi il viaggio potesse essere una sorta di rito di passaggio che dalla giovinezza spensierata li avrebbe alla fine introdotti nella maturità adulta. Le coppie più anziane, invece, usavano quello stesso viaggio per segnare il passaggio da una fase della propria vita, fatta di lavoro e di responsabilità, ad un’altra, finalmente libera da impegni.

Tuttavia, non ci erano mancati incontri con coppie di età intermedia – come i due tedeschi incontrati sulla spiaggia di Dakhla – che erano riusciti ad ottenere dalle rispettive aziende per le quali lavoravano un intero anno sabbatico, avevano attrezzato una Toyota Land Cruiser, ed erano così partiti per realizzare una loro personale direttissima Berlino-Città del Capo.

Ogni volta, ad ogni incontro, l’animo mio e quello della mia compagna traboccavano di una gioiosa e benevola invidia e, spesso per giorni e giorni, non riuscivamo più a pensare ad altro. Io perché quel sogno, il sogno di montare su un camper 4×4 e partire per un tempo imprecisato lasciandomi tutto alle spalle, l’avevo coltivato da quando avevo almeno vent’anni. Raffaella perché – anche se non lo aveva mai saputo prima – possiede sangue zingaro nelle vene… un sangue che, da quando mi ha incontrato, si è rimesso decisamente a circolare, dopo 38 anni di letargia.

Ciò nonostante, non siamo mai riusciti ad aggirare il vincolo che ci tiene inchiodati alle nostre vite di sempre.

Per quel che mi riguarda, posso dire di essere stato io stesso l’artefice della vita che sto vivendo e del legame che ad essa mi unisce, avendo sacrificato a questa scelta almeno altre due opportunità. Avevo appunto vent’anni quando mi trovai ad un trivio: cosa farò da grande? Il maestro di sci e la guida alpina, come avrebbe desiderato la mia energia corporea, il giornalista giramondo, come avevano pronosticato i miei insegnanti, o invece lo psicanalista, come mi sussurrava, già da tempo, una voce interiore di misteriosa provenienza? Finì che la curiosità per il mondo dell’anima si rivelò più forte di quella per l’anima del mondo. Feci la mia scelta e questa, da allora non mi ha lasciato più libero. Ci provai due volte ad affrancarmene: la prima a trentatre anni, cercando di coinvolgere alcuni dei miei amici più cari. Avremmo dovuto lasciare tutto quello che – in termini di professionalità – allora stavamo ancora completando, allestire 4 o 5 camper, trovare degli sponsor e provare a girare il mondo, scrivendo, girando filmati e raccogliendo materiale vario (favole, ricette culinarie, musiche ecc..) che avremmo poi potuto assemblare in un insieme organico. Ma eravamo in epoche diverse delle nostre vite: non tutti avevano raggiunto la sicurezza economica, alcuni avevano bambini già troppo grandi, altri ne avevano di piccolissimi e addirittura in “ordinazione” e, sopra a tutto… bhé… il sogno era più mio che loro. Insomma… non se ne fece nulla. Forse, all’epoca, sarò stato anche un ingenuo… ma, posso dire, che se avessimo realizzato il viaggio, nel 1982, sarebbe stata una bella anticipazione di quello realizzato da “Overland” molti anni dopo.

La seconda volta che ci provai era il 1995, un paio di anni dopo la mia separazione. Vivevo allora con una giovane donna che non era ancora entrata nel mondo del lavoro, parlava tre lingue e adorava viaggiare. Questa volta puntai tutto su noi due. Misi in vendita la mia casa, riscattai l’assicurazione vita, cominciai a rifiutare nuovi pazienti e acquistai un camper americano adeguato per girare il mondo. Avevo anche trovato un paio di sponsor… quando, in maniera inaspettata, il mercato immobiliare italiano (dal quale dipendevano le mie uniche risorse economiche) crollò di netto. La proprietà che avevo messo in vendita – che era stata valutata 100 e sembrava doversi vendere nel giro di pochi giorni – fu invece venduta a 50… ben due anni dopo. Nel frattempo il mio sogno era andato in frantumi.

Interpretai la cosa come un segno del mio personale destino: non era ancora giunto il momento di abbandonare il lavoro che svolgevo. Non che pensassi di essere unico e indispensabile, questo no davvero … Ma la psicologia del profondo era il mio lavoro, la professione che avevo scelto liberamente, con tutto l’amore di cui ero capace, e dalla quale avevo ricevuto tantissimo. Non potevo ricusare le mie responsabilità.

Obbedii… ma posso giurare di non essermi mai pentito di averci provato né di aver perso, nel tentativo, una somma ingente di denaro.

Da allora sono trascorsi altri 13 anni e la mia vita è ulteriormente cambiata. Nel momento in cui scrivo sono compiutamente innamorato di una donna nel cui animo riposa il mio stesso, identico, segreto, selvaggio desiderio. Viviamo insieme da soli tre anni, da cinque abbiamo viaggiato tutte le volte che abbiamo potuto… ma non siamo comunque riusciti a dare forma compiuta al nostro sogno: partire… senza sapere né se, né quando tornare.

Non che non saremmo entrambi coraggiosi a sufficienza o, così “folli”, da lasciarci tutto alle spalle… anzi, tutt’altro. Affittando le nostre reciproche abitazioni, ora come ora potremmo anche essere economicamente liberi. Nulla ci tratterrebbe… se non un piccolissimo, delizioso, particolare: Giulia, la figlia dodicenne di Raffaella che allieta e tormenta con la sua adolescenza la nostra vita in comune e, verso la quale, ci sentiamo perciò entrambi responsabili.

E così, ancora una volta, il Diavolo o il Destino ci ha messo lo zampino. E noi, ancora una volta, abbiamo ubbidito alla vita: io continuando il mio lavoro di psicoterapeuta, Raffaella portando avanti il suo ruolo di madre.

Alla nostra comune passione abbiamo continuato a riservare il tempo delle vacanze: agosto, natale, qualche volta la settimana di Pasqua…

Sappiamo che è già tanto, tantissimo… e che in confronto a tante altre persone, possiamo ritenerci dei privilegiati. Ma quello che viviamo non è comunque il “nostro sogno”… non è la stessa cosa. Ed è per questo che restiamo folgorati ogni qual volta incontriamo qualcuno che invece ce l’ha fatta: qualcuno che ha mollato gli ormeggi e si è allontanato dai sentieri consueti. Un misto di bonaria invidia, gioia partecipativa e immedesimazione ci afferra alla gola e spesso, per giorni e giorni, non riusciamo a parlare d’altro.

In un’atmosfera emotiva di questo tipo è stata concepita la nostra anomala e un po’ strampalata “TransAfrica, come compromesso estremo tra accettazione della realtà e suo contemporaneo rifiuto.

L’idea, in apparenza, era semplice: avremmo attraversato l’Africa da nord a sud sulle orme di tanti altri viaggiatori. Solo che invece di proseguire in continuità, avendo a disposizione tutto il tempo che occorre, avremmo realizzato il viaggio a tappe, sfruttando gli stessi periodi di vacanza che avevamo sempre avuto: agosto, natale, qualche volta Pasqua. La differenza l’avrebbe fatta l’auto che, parcheggiata alla fine di ognuno di questi brevi periodi in un luogo sempre diverso, e sempre più a sud (presso missioni cattoliche, campeggi, hotel o garage), avrebbe rappresentato ogni volta il punto dal quale saremmo poi ripartiti.

L’entusiasmo non ci permise di renderci conto di quanto stessimo forzando la situazione né del numero delle difficoltà che avremmo incontrato. Quelle che comunque prendemmo in considerazione sarebbero dovute bastare già da sole a farci cambiare idea. Ovviamente perseverammo.

Decidemmo comunque di agevolarci il compito, e senza ripercorrere la Tunisia, la Libia e l’Egitto per l’ennesima volta, sacrificando il Sudan, la cui pericolosità non sarebbe stata comunque da sottovalutare, decidemmo di iniziare il nostro viaggio da Djibouti, spedendo la nostra 4×4 via mare.

L’itinerario di massima sarebbe perciò stato:

Djibouti, Etiopia e Kenya per le festività del natale 2007.

Tanzania, Malawi e Zambia per l’agosto del 2008.

Botzwana per le feste di natale, sempre del 2008.

Namibia per l’agosto del 2009.

Sud Africa per il natale 2009.

Come non rimanere affascinati da un progetto simile?

Nei primi di settembre del 2007, appena tornati da un viaggio in Turchia, Siria e Giordania, ci buttammo a capofitto nella preparazione. Ci sentivamo sufficientemente navigati… ma come al solito lo scontro con la burocrazia dell’ACI per risolvere l’enorme problema di un Carnèt de Passages che fosse valido due anni anziché uno, e quello ben più violento con gli spedizionieri – nazionali ed esteri – che gestiscono i trasporti marittimi in container, ci misero a dura prova. Telefonate intercontinentali, e-mail, fax… ancora telefonate… nessuno sembrava mai sapere come funzionassero davvero le cose ma ognuno, a buon bisogno, faceva levitare i prezzi. Alla fine Raffaella, con la sua proverbiale tenacia, riuscì a chiudere il contratto e a portare la macchina a Genova dove il 18 novembre sarebbe dovuta partire per arrivare a Djibouti il 15 dicembre, in concomitanza con il nostro arrivo in aereo. La nave – ci assicurarono – avrebbe dovuto impiegare venti giorni per arrivare a destinazione, ma il mare in inverno avrebbe potuto rallentare il suo viaggio. D’altronde, spedirla troppo presto avrebbe significato dover poi sborsare una esorbitante cifra per la sua permanenza nel porto. Di fatto partì da Genova con due giorni di ritardo e a noi non restò che pregare di trovarla al porto di Djibouti il giorno del nostro arrivo.

I primi problemi della nostra idea forzata cominciarono a manifestarsi. Non si dovrebbe azzardare un viaggio di questa natura, in Africa, con i giorni contati.

Comunque sia il 15 dicembre, alle ore 15,20, noi arriviamo puntualissimi nel Corno d’Africa. Contavamo di ritirare la macchina il 16 e partire per il 17, in primissima mattinata. Il 23 dicembre avevamo appuntamento ad Addis Abeba una coppia di amici che, per unirsi a noi nella prima tranche del nostro viaggio, avevano preso un volo diretto e affittato una macchina con autista. Avevamo perciò i giorni contati per partire da Djibouti, entrare in Etiopia dalla statale nord-est ma deviare subito verso Lalibella, proseguire lungo la pista cinese fino al lago Tana, visitare le cascate del Nilo Azzurro ed arrivare poi ad Addis Abeba dalla statale nord-ovest.

La sera del 15, in albergo, riceviamo la telefonata dei nostri amici dall’Italia che ci comunicano che si erano sbagliati… sarebbero arrivati il 22. Un giorno in meno per la nostra deviazione verso Lalibella.

Passiamo il giorno seguente correndo come forsennati dagli uffici dello spedizioniere, a quelli dell’assicurazione, dai magazzini del porto nuovamente agli uffici dello spedizioniere… prima scopriamo che l’auto è arrivata in porto il 3 dicembre (ma come diavolo ha fatto? Non avrebbe dovuto metterci venti giorni?) e che perciò avremmo dovuto pagare una franchigia per il parcheggio… poi alla fine comprendiamo che non saremmo mai e poi mai riusciti a ritirare la macchina in giornata. Un altro giorno in meno per il nostro itinerario che avrebbe richiesto un minimo di sei giorni. Ma non ci rassegniamo: il 17 torniamo alla carica e, tra suppliche, urla e… baschic, riusciamo a ritirare l’auto per il primo pomeriggio.

Abbiamo più di mezza giornata di ritardo sulla implacabile tabella di marcia, perciò partiamo a tutta birra senza neanche aver rimontato la tenda sul tetto per non perdere minuti preziosi. Entriamo in Etiopia alle sette del pomeriggio. Il sole sta tramontando e noi dovremmo fermarci. In Africa non è consigliabile viaggiare con il buio… le strade non sono illuminate e animali, carretti e persone sbucano all’improvviso da tutte le parti. Ma noi proseguiamo, in una corsa affannosa contro il tempo. Se riuscissimo a raggiungere il villaggio di Bati come prima tappa potremmo ancora farcela. Dopo esserci persi nella notte ad un bivio non segnalato e aver ritrovato fortunosamente la strada alla fine arriviamo alla meta, per renderci conto di non avere la nostra tenda a disposizione e di dover quindi dormire sul pagliericcio di una baracca solitamente affittata ad “ore”. La mattina dopo saremmo dovuti scappare prestissimo, sempre con la tenda ancora smontata.

La notte sono agitato… le zanzare mi divorano… mi giro e mi rigiro sulle assi di legno… poi all’improvviso scoppio e sveglio Raffaella: “Cazzo… non si viaggia così. Ma cosa stiamo facendo? Rinunciamo… rinunciamo a Lalibella e prendiamocela comoda. Siamo in vacanza, non ad un rally.”

La mia donna è una roccia di granito che, quando occorre, sa farsi burro: “Hai ragione, amore mio, non fa nulla… godiamoci quello che possiamo.” E mi consola con un abbraccio.

Finalmente, rasserenato, mi addormento.

La mattina dopo è un altro giorno: facciamo colazione con calma, con calma rimontiamo la tenda sul tetto e prepariamo il nuovo itinerario che attraverserà il parco di Awash e i primi grandi laghi della Rift Valley.

Ancora oggi mi rammarico di aver perduto la visita di Lalibella e del lago Tana, e so che molto difficilmente mi capiterà di ritornarci. Ma sono fiero di aver fatto la scelta che ho fatto. Non ha alcun senso portare le proprie nevrosi in giro per il mondo.

I giorni successivi sono un incanto, il tempo è tornato a dilatarsi: visitiamo le cascate dell’Awash, le pozze calde di Filwoha e, tra un incontro e l’altro con donne, bambini e guerrieri Afar, arriviamo ad un remoto, sperduto villaggio. E qui facciamo la nostra seconda, significativa scelta etica.

Il villaggio è magnifico, gli abitanti sfoggiano miglia di perline colorate sul corpo nudo, i bambini sono eccitatissimi e tutti si accalcano intorno alla nostra macchina. Ne verrebbe una ripresa memorabile… sono emozionato. Sto per riprendere la scena quando una specie di capo villaggio pretende di avere 300 birr (l’equivalente di 30 euro) per darci il permesso di girare. Faccio buon viso e tento di contrattare, come sempre in Africa… ma il capo è indisponente e arrogante. I turisti lo hanno corrotto.

Per noi 30 euro non sono un problema e la scena continua ad essere bellissima… ma la sera precedente avevamo dato 100 birr ad un ranger che aveva passato tutta la notte armato, a guardia del nostro sonno. 10 euro per una notte di lavoro… una fortuna per la sua famiglia. E ora questo stronzo di capo villaggio esige 300 birr per una ripresa di pochi secondi. Vaffanculo, capo… tu e tutti quei turisti che hanno alimentato la tua ingordigia. Faccio un segno a Raffaella… rimontiamo in macchina e ce ne andiamo. Peccato! Un altro ricordo che sarà affidato soltanto alla memoria. Ma ancora una volta siamo fieri di noi stessi.

Passiamo il resto dei giorni visitando alcuni dei placidi laghi della Rift Valley… il tempo scorre pieno e tranquillo. Abbiamo ritrovato il rapporto con questa terra.

Il 22 dicembre siamo ad Addis Abeba, puntuali con l’arrivo dei nostri amici. La capitale è un orrore. Ci dicono fosse una cittadina adorabile… forse un giorno tornerà ad essere una splendida città. Per ora – a cavallo fra la propria tradizione e il fascino del modernismo occidentale – affoga tra case fatiscenti e nuovi cantieri, coesi da una colata lavica di automobili fumose e strombazzanti. L’inquinamento è alle stelle.

Perciò scappiamo appena possiamo, alla volta del profondo sud etiope.

Strada… panorami memorabili… mercati dai mille colori… i primi parchi naturali… poi ancora strada e quindi pista polverosa… fino ad arrivare a Turmi. È lunedì, giorno di mercato per l’etnia Hamer. Anche se arriviamo un po’ tardi l’esperienza resterà una delle più forti tra quelle registrate in terra etiope. Gli Hamer sonno bellissimi, con tratti quasi ariani… ma con la pelle scura. In pratica sono nudi, se si eccettuano perizoma e gonnelline di pelle impreziositi da centinaia di cauri (piccole bianche conchiglie della famiglia delle cipree). E poi perline, braccialetti, collane, borracce di zucca appese alla cintura… il tutto sormontato dalle più fantasiose acconciature che si possano immaginare, ottenute impiastricciando i capelli con terra ocra e grasso animale. Un unico neo: una puzza nauseabonda che emana da ognuno di loro e che infesta tutto il mercato. D’altra parte anche il nostro odore per loro è insopportabile…

Sotto un sole implacabile giriamo per ore ed ore tra gli animati gruppi di venditori e compratori e alle quattro del pomeriggio siamo così stanchi che commettiamo la più grossa sciocchezza da quando viaggiamo: ci rifiutiamo di andare ad assistere alla cerimonia del “salto del toro”, vera e propria iniziazione attraverso la quale gli adolescenti maschi entrano nell’età adulta e, subito dopo, attraverso un curioso rituale sado-maso, vengono scelti e a loro volta scelgono la donna con la quale si accoppieranno. Sapevo tutto sul “Jumping”, forse troppo… sapevo che non era il periodo giusto dell’anno, che non avrebbe dovuto essere facile ottenere l’ammissione alla cerimonia e che comunque la richiesta economica avrebbe dovuto essere più esigua. In quei giorni avevamo incontrato troppi “turisti per caso” che ci avevano raccontato di averla vista e, insomma… temetti un “tarocco”.

Rifiutammo l’invito e tornammo al campeggio dove ciondolammo senza avere nulla di importante da fare. La sera, a cena, una guida del posto mi giustificò le discrepanze tra ciò che avevo letto e come la cosa mi era stata presentata; con molto tatto mi fece capire che la cerimonia era stata bellissima e che noi, non andando, in praticata avevamo fatto una bella cazzata.

Credo che la mancata visita di Lalibella e la perdita della cerimonia del “Jumping” rimarranno nel mio animo di viaggiatore come due ferite indelebili. Il primo giustificato dalla anomala natura della nostra TransAfrica e dal rispetto per noi stessi. Il secondo, imputabile solo ed esclusivamente alla mia stupidità.

Il giorno dopo comunque ripartiamo: ancora per piste impervie e paesaggi mozzafiato, fino a raggiungere Jimca e infine l’Omo Park. Qui vivono i Mursi le cui donne sono celebri in tutto il mondo per la curiosa usanza del piattello labiale. Nessuno sa con precisione come sia nata tale loro pratica – tra l’altro dolorosissima – ma di certo si è rivelata un affare: nei villaggi più vicini ai circuiti turistici, infatti, le donne vivono oramai dei birr che pretendono per essere fotografate nelle loro stravaganti acconciature. E data la fama di ferocia animalesca di cui godono i loro uomini e la stupidità remissiva di noi occidentali… bhé si può immaginare l’entità degli affari.

Più autentico invece l’incontro con i Borana, due giorni dopo, quando eravamo oramai prossimi al confine con il Kenya. Superba popolazione nera di confessione musulmana, i Borana occupano l’arido territorio che dalle verdi montagne etiopi degrada senza soluzione di continuità verso il deserto keniota. In questa terra, color rosso sangue, l’acqua scarseggia… e così i Borana per sopravvivere e far sopravvivere il bestiame che rappresenta la loro unica ricchezza, scavano (a mano) pozzi profondi anche fino a 30 metri, dai quali estraggono poi l’acqua (sempre a mano) con dei secchi che vengono passati da uno all’altro degli uomini che stazionano su delle scale a pioli, in una vera e propria catena umana. Per alleviare la fatica cantano. Dando così origine al mito dei “Pozzi cantanti” di Yabello. Ma come ci spiegò un ragazzo che ci fece amichevolmente da guida, ciò che per noi era folclore, per i Borana era una questione di vita o di morte.

Il 29 dicembre, di prima mattina, siamo alla frontiera con il Kenya. Il giorno prima si erano svolte le elezioni politiche… perciò chiediamo all’ufficiale se tutto si fosse svolto regolarmente e senza eccessive recriminazioni.

– No problem! – ci rassicura l’ufficiale con un sorriso da un orecchia all’altra che mostra la perfezione della sua splendida dentatura – il Kenya vanta 55 anni di tradizione democratica.

Ha ragione… e poi noi abbiamo altro di cui preoccuparci. Subito dopo la frontiera cominciano infatti i peggiori 500 km di tutto il nostro percorso: quelli della famigerata pista Moyale – Isiolo, totalmente desertica, sconnessa al limite della percorribilità e lungo la quale, nel corso degli anni, sono stati perpetrati innumerevoli assalti e rapine da parte di guerriglieri somali sbandati a danno di chiunque osasse percorrerla. Ultimamente l’esercito keniota ha ripulito la zona… ma, insomma… non siamo proprio tranquillissimi.

Perciò partiamo non appena ottenuto il visto.

Contro ogni aspettativa – se si esclude la condizione orribile del terreno che ci costringerà ad una media di 30 km orari – il percorso si rivelerà fantastico: un arida, sterminata pietraia dove crescono solo bassi e radi cespugli e qualche isolata acacia… ogni tanto degli struzzi… dromedari forse selvaggi… avvoltoi che divorano una carogna… un silenzio irreale. Non saprei dire perché, ma non proviamo nessuna tensione, nessuna paura. Ci sentiamo in pace. Siamo felici.

La sera, circa a metà percorso, raggiungiamo Marsabit, un delizioso villaggio posto sulla sommità di uno dei tanti coni vulcanici (oggi inattivi) che nel pleistocene movimentavano il paesaggio. Dormiamo in una missione cattolica e il giorno dopo ripartiamo. La pista continua ad essere orribile, ma ora siamo nel territorio dei Samburu, e non è raro perciò incontrarli mentre la percorrono. A piedi, ovviamente… e spesso con dei carichi non indifferenti sulle spalle.

Diamo un passaggio dapprima ad una ragazza la cui bisaccia, quando con galanteria tento di alzarla per riporla nel portabagagli, mi piega in due la schiena. Poi – con un incredibile colpo di fortuna – rimorchiamo due giovani guerrieri con tanto di lancia. Sono straordinari: fieri, orgogliosi, consapevoli della propria dignità e, nello stesso tempo, cordiali, gioiosi, amichevoli, scherzosi. Solo presso i Tuareg avevamo già incontrato una simile miscellanea di tratti e, possiamo assicurare, non c’è nessuno che si possa immaginare più virile. Quando alla fine mi fermo e li lascio scendere, nel salutarli registro una fitta di nostalgica invidia per un mondo eroico di cui loro sono gli ultimi inconsapevoli rappresentanti. Un mondo in cui, se si ha coraggio, è ancora facile individuare il senso della propria identità, maschile o femminile, e percepirla inserita in un più vasto ordine soprannaturale… un mondo che presto non ci sarà più.

I due giorni successivi li passiamo nel Samburu National Park. Per me i parchi non sono una novità, come per Raffaella, ma non per questo rimango indifferente all’enorme branco di elefanti che fanno il bagno nel fiume o, subito dopo, all’incontro ravvicinato con una bellissima giraffa.

Quando ripartiamo siamo ancora indecisi se tentare di raggiungere il lago Turcana (venderei l’anima al diavolo pur di visitarlo) oppure ripiegare sul più vicino Nakuru, dove stazionano milioni di fenicotteri rosa. I giorni a nostra disposizione stanno per scadere. Il 6 gennaio abbiamo prenotato il volo da Nairobi e prima dobbiamo parcheggiare la macchina che riprenderemo il 26 luglio.

Decidiamo di passare a Nanyuki per salutare un padre missionario compaesano dei miei amici, e Padre Franco ci toglie subito ogni dubbio:

– Ma che cosa fate ancora qui? Non avete sentito le notizie? Il leder politico dell’opposizione, Odinga, ha perso le elezioni e accusa Kibaki, il vincitore, di brogli elettorali. Essendo i due politici i rispettivi rappresentanti di due etnie rivali, si è scatenata una guerra tribale che potrebbe degenerare in una vera e propria guerra civile. Ci sono state centinaia di morti… è stato schierato l’esercito… ma la situazione non è affatto tranquilla… che ci fate voi qui? Ma dove eravate?

In effetti noi eravamo stati nel “nulla”: due giorni sulla pista prima, e due giorni nel parco dopo. Lontani anni luce dagli interessi che muovono il mondo moderno.

E ora cosa facciamo?

– Scappate se potete – ci incita Padre Franco – anche se… i voli sono tutti pieni… i turisti fuggono dal Kenya, non so se riuscirete a trovare posto.

E qui tocchiamo con mano un altro limite del nostro strampalato progetto. Se non avessimo avuto l’obbligo di tornare a casa in una data stabilita, la soluzione del problema sarebbe stata semplice: avremmo tagliato per il lago Turcana, saremmo poi passati nella più tranquilla Uganda (magari andando pure a visitare i gorilla), e da li saremmo ridiscesi in Tanzania attraverso il lago Vittoria. Così si muovono i viaggiatori liberi, adattando i loro progetti alle realtà che incontrano. Ma noi non potevamo muoverci nello stesso modo. Mille impegni ci attendevano a Roma e dovevamo perciò prendere quel maledetto aereo a Nairobi il giorno 6 gennaio.

Intanto i nostri cellulari hanno ripreso a funzionare e ci arrivano perciò, tutti insieme, decine di sms da amici e parenti che, allarmati dalle notizie lette sui giornali e dalle immagini trasmesse dalla televisione, giustamente si preoccupano e vogliono sapere come stiamo. Noi siamo ancora immersi nei silenzi dei parchi, abbiamo negli occhi i volti sorridenti dei Samburu… e alterniamo perciò momenti di confusione mentale a stati di vero e proprio panico. Dobbiamo decidere in fretta.

Per farla breve, in poche ore scarichiamo la macchina, la depositiamo nella missione della Consolata di Nanyuki e con un taxi ci facciamo portare alla casa madre della Consolata di Nairobi dove per tre giorni saremo ospitati in attesa del nostro aereo.

La città è sotto coprifuoco. La prima notte sentiamo raffiche di mitra e colpi isolati di fucile esplodere per le strade… e abbiamo paura. Ma il giorno dopo la spregiudicata serenità dei Padri, la piacevolezza del clima e la bellezza del complesso religioso, adagiato in una lussureggiante foresta di fiori, ci aiutano a ridimensionare la situazione.

In effetti siamo alle solite: l’allarmismo pilotato dei comunicati giornalistici – che per attrarre l’attenzione annoiata del pubblico occidentale e vendere il proprio prodotto devono gonfiare ad oltranza i particolari più scabrosi di ogni evento – unitamente al bisogno di rafforzare la falsa sicurezza nella quale tutti quanti ci illudiamo di vivere, distorcono la realtà piegandola alle proprie esigenze. Sono meccanismi psicologici sottili, fondati sulla individuazione del “male” fuori dal sé (in un’altra nazione, tra altri uomini di certo più primitivi, in condizioni altre dai viaggi che andrebbero fatti) e, appunto, grazie a tale proiezione, giudicato e tenuto lontano. A distanza di sicurezza. A chi si comporta secondo le regole il “male” non può capitare.

Non credo che riuscirò mai a convincere nessuno dei tanti benpensanti che la realtà, la realtà autentica, è sempre molto diversa da quella che altri vogliono farci credere.

In Kenya la situazione era critica, certo, e a conti fatti credo che ci siano stati in tutto un migliaio di morti nell’arco di tre mesi. Odinga e Kibaki hanno cavalcato bene l’odio razziale mentre cenavano insieme, nei ristoranti di lusso della capitale, per trovare una qualche forma di spartizione del potere.

Ma le violenze si sono quasi sempre verificate di notte, nei villaggi e nelle campagne, dove i diseredati di ieri eliminavano i più fortunati rivali nella speranza di poterne prendere il posto domani.

Occorreva essere prudenti, questo è ovvio, ma nulla corrispondeva alle scene che visionammo quando tornammo in Italia e che, molto probabilmente, erano il risultato di un sapiente montaggio in cui le situazioni peggiori, avvenute magari in contesti e tempi diversi, venivano invece ravvicinate e messe in sequenza di causa-effetto.

Comunque sia, il risultato della nostra forzata reclusione alla Consolata di Nairobi, fu un contatto ravvicinato con alcuni dei vecchi Padri i cui racconti ci deliziarono l’anima, la visita della città in una condizione di calma tale (il traffico era inesistente) da far risaltare la sua impareggiabile bellezza, e una tranquilla visita al mercato artigianale nel quale, unici turisti, potemmo fare dei buoni acquisti.

Il 6 gennaio, puntualissimi, prendemmo l’aereo che ci avrebbe riportato a casa e fatto concludere la prima tappa della nostra strampalata TransAfrica.

Dal 7 marzo al 16 marzo 2008

La nostra Toyota era stata abbandonata in fretta e furia: non mi ero nemmeno ricordato di svuotare il serbatoio dell’acqua e temevo che al nostro ritorno, a fine luglio, vi avrei trovato le rane. E poi non si capiva se la situazione politica sarebbe migliorata o peggiorata. Perciò, il giorno dopo essere tornati, prenotammo uno dei voli aerei per il Kenya che venivano offerti, ovviamente, a prezzi stracciati. L’idea era quella di fare un blitz di nove giorni, andare a prendere la macchina a Nanyuki e portarla di corsa in Tanzania, presso un amico italiano che da dieci anni vi lavora come tour operator.

Dai primi di gennaio fino ai primi di marzo, tutti i giorni seguimmo con ansia le vicende politiche del Kenya. Passavamo dalle stelle alle stalle in continuazione, ma alla fine, solo tre giorni prima della nostra partenza, grazie all’intermediazione dell’ambasciatore delle Nazioni Unite, Kibaki e Odinga firmarono la pace.

Venerdì 14 marzo, alle ore 2 della mattina prendiamo l’aereo per Nairobi: la nostra TransAfrica riprende vita. A mezzogiorno arriviamo a destinazione. Nel pomeriggio espletiamo le formalità assicurative. La sera dormiamo ancora alla Consolata (oramai siamo di casa) e la mattina presto un taxi ci porta a Nanyuki. Ritiriamo la macchina e la facciamo lavare, facciamo un po’ di spesa e, con calma rientriamo a Nairobi, sempre alla Consolata. La mattina dopo, prestissimo, siamo in viaggio per la Tanzania. Tutto fila liscio e siamo addirittura in anticipo sulla nostra tabella di marcia. Poco prima del confine visitiamo perciò una riserva Masai e, ancora una volta, malediciamo il tempo che non abbiamo: se avessimo potuto fermarci per almeno un paio di giorni una guida ci avrebbe condotto a piedi negli accampamenti dove i guerrieri vivono in autonomia e lontano dai propri villaggi. Come i Samburu, infatti, anche i guerrieri Masai vivono tra di loro (pur avendo continue frequentazioni sessuali con le ragazze dei vari villaggi), ma si sposeranno solo alla fine di un lungo periodo “di leva”, in genere dieci anni, e solo allora torneranno a risiedere nel recinto del proprio villaggio.

Ci accontentiamo di visitare un villaggio semideserto… dobbiamo proseguire.

Domenica pomeriggio, dopo aver superato la frontiera e preso uno acquazzone temporalesco al passo di montagna del monte Meru, arriviamo ad Arusha, in Tanzania. Contattiamo l’amico italiano e veniamo accolti in famiglia con una gentilezza e una cordialità che non avremmo mai osato sperare. La sera, tutti insieme a cena in un locale caratteristico di Arusha, Carlo ci tenta:

– Siamo al 16… avete l’aereo per il 22… potreste fare in tempo a visitare il Serengheti e il cratere del Ngorongoro. Il 21 sera tornate qui e il giorno dopo partite…

Detto fatto! Non ci facciamo pregare. Carlo è un tesoro e la mattina dopo ci prepara i voucher per l’ingresso nei vari parchi. A mezzogiorno partiamo: risaliremo la Rift Valley, costeggeremo il meraviglioso cratere e proseguiremo per il Serengheti fino a raggiungerne il centro a Soronera. Vedremo la Grande Migrazione, faremo amicizia con due simpaticissimi tedeschi, in viaggio da due mesi, e una notte dormiremo con un leone che passeggia sotto la nostra Air Camping. Poi la visita ad un mercato masai, la discesa nel cratere più famoso del mondo e una notte passata in un campeggio delizioso. Siamo appagati e commossi: abbiamo passato cinque giorni indimenticabili e l’idea di tornare in Italia ci sembra intollerabile.

Comunque sia il 21 sera siamo ad Arusha, dai nostri amici. Il 22 lascio la mia amata vettura 4×4 nel giardino di Carlo e a mezzogiorno un taxi ci porta all’aeroporto del Kilimangiaro. La seconda tappa di TransAfrica – neanche immaginata in fase di progettazione, e resa possibile dai costi stracciati dei voli aerei – si è conclusa nel migliore dei modi. Ora dovremo davvero aspettare fino alla fine di luglio prima di ripartire. Speriamo di sopravvivere.

Preparativi

La “Viaggite acuta” fa soffrire molto tutte le persone che ne sono affette, soprattutto se, pur non potendo muoversi, rifiutano di farsi curare.

Era il nostro caso.

I cinque mesi che ci separavano dalla prossima partenza sarebbero stati lunghissimi. Dovevamo pur sempre preparare il viaggio – questo è vero – ma, con la macchina già parcheggiata in Tanzania, tutto si presentava molto più semplice del solito. Per ingannare l’attesa cominciammo comunque a leggere le guide della Lonely Planet sui territori che avremmo attraversato e qualche bella monografia della Polaris… considerando poi che avevamo già visitato i due parchi principali della Tanzania, decidemmo di fare la prossima tappa a Maun, in Botswana, anziché a Livingstone, nei pressi delle cascate Vittoria, come in precedenza avevamo programmato. Questa decisione ci avrebbe consentito di visitare il delta dell’Okavango durante la stagione secca, senza per questo dover transitare due volte, avanti e indietro, per quella che è considerata una delle peggiori frontiere africane e che, forse non a caso, si chiama Kazungula.

Aiutandoci con i programmi Ozi Explorer e Map Source calcolammo che avremmo dovuto fare 5000 km circa, tra asfalto, sterrati e piste e la cosa cominciò a preoccuparci. È vero che l’anno che visitammo il Marocco e la Mauritania, attraversando due volte la Spagna, di chilometri ne avevamo fatti 9000 portando con noi Giulia che allora aveva dieci anni, ma le mie precedenti esperienze in Marocco e l’ausilio delle super-collaudate mappe russe caricate sul palmare in comunicazione con il GPS ci avevano fatto sentire sicuri del nostro progetto. Del Malawi, dello Zambia e del Botswana possedevamo solo carte stradali ordinarie e in Etiopia e in Kenya avevo toccato con mano l’inutilità delle mappe russe. Ci servivano informazioni più precise sulle piste che avremmo percorso. Mi attaccai al sito Internet: Sahara.it che da anni fa da supporto ai fuoristradisti italiani e del quale sono membro… trovai subito una informazione interessante. Una società sud africana, Trak4africa, aveva raccolto e convalidato tutte le tracce che tanti anonimi viaggiatori avevano registrato sul proprio GPS e che poi le avevano inviato. Le avevano corredate delle coordinate dei punti di maggior interesse (campeggi, distributori di benzina, banche, punti panoramici ecc…) e trasformate in mappe vettoriali gestibili dai GPS Garmin. Le vendevano via Internet per una manciata di dollari… Insomma, una manna dal cielo.

Dovevo solo trovare un’anima pia, esperta di computer, in grado di aggiornare il software del mio Garmin, fare l’ordinazione e installare le mappe sul mio PC. Il resto sarei stato in grado di portarlo avanti da solo. Perché non c’è proprio nulla da fare: salvo rare eccezioni, quelli della mia generazione non penetreranno mai nella logica dei computer e il loro uso risulterà per loro fonte di innumerevoli frustrazioni. Sembra poi che queste dannate macchine lo sentano, e rispondano perciò con alterigia all’affronto di non essere apprezzate, impallandosi, perdendo file preziosissimi, cambiando arbitrariamente schermate e, soprattutto, aggiornandosi ad una velocità tale da far risultare sempre inutili tutti gli sforzi fatti per comprenderle.

Come che sia rintraccio l’anima pia tra uno dei tanti amici piloti del volo libero e il poveraccio, in un caldo pomeriggio di maggio, acquisisce per me le piste di Trak4africa. Torno a casa, le scarico sul GPS e, insieme a Raffaella, cominciamo a studiarle. E così, quasi per caso, facciamo la scoperta dell’acqua calda: ci accorgiamo che Google Earth monta, a discrezione dei suoi utenti, la stessa cartografia. La preparazione del viaggio diventa allora una festa: apriamo Internet, lanciamo Google Earth, lo corrediamo delle tracce di Trak4africa e, con lo “Sguardo di Dio” proprio del sistema, ci lanciamo da altezze siderali a verificare le piste dove viaggeremo, i campeggi dove dormiremo, i guadi che bisognerà affrontare… suvvia…dobbiamo ammetterlo: a volte la tecnologia è una gran bella cosa!

Fatto sta che ci aiuta a sopravvivere: quando la “viaggiate” si fa troppo acuta accendiamo il computer e, con la scusa di studiare il percorso, anticipiamo il nostro prossimo viaggio. I mesi scorrono lenti… ma scorrono. Arriviamo ai primi di luglio ed entriamo nel vivo dei preparativi: visti sui passaporti, controllo dei medicinali, provviste, preparazione bagagli… oramai ci siamo.

Il 26 luglio, atteso con tanta impazienza, arriva all’improvviso.

Agosto 08

Arriviamo ad Arusha nel primo pomeriggio del 26 luglio, stravolti quanto basta dal solito volo notturno Roma – Addis Abeba – Kilimangiaro. Carlo ci accoglie con la consueta gentilezza e, in sovrappiù, ci fa trovare l’auto riparata dal guasto all’idroguida riportato durante la traversata dell’Etiopia. Con 150 euro risolviamo così un problema che in Italia, presso la concessionaria Toyota, ci sarebbe costato la bellezza di 1700 euro. Perché da noi – in ottemperanza al primo dogma del consumismo occidentale – il blocco dell’idroguida che perde da un paraolio si cambia… non si ripara!

La sera ceniamo con Carlo in un improbabile locale di Arusha gestito da indiani che di giorno aprono il negozio come autoricambi per tutte le marche e di notte servono invece pollo tanduri al “cruscotto”… e, dopo un sonno ristoratore di 11 ore, la mattina successiva partiamo. Entro il 21 agosto dobbiamo arrivare a Maun, in Botswana, dopo aver attraversato tutta la Tanzania, il Malawi e lo Zambia. Cinquemila chilometri africani in 24 giorni forse sono un po’ troppi… ma i soliti impegni di vita e di lavoro impongono ritmi serrati al nostro strampalato progetto.

Il territorio della Tanzania comincia a scorrere sotto i nostri occhi, sorprendendoci con la sua morfologia: la strada si snoda infatti sotto dorsali montuose inaspettate, vallate superbe e valichi fino a duemila e passa metri di quota. Nonostante la stagione secca, attraversiamo spesso macchie fittissime di verde dove si sovrappongono banani, noci tanganica, canne da zucchero, bambù, palme, manghi e giganteschi baobab.

Ma se il panorama è superbo, la percorribilità viaria è tutta un’altra musica: gli africani – è cosa risaputa – vivono sulla strada, perciò le case dei villaggi sono disposte in una lunga fila a destra e a sinistra della carreggiata dove circolano uomini, donne, bambini, biciclette, carretti, capre e maiali. Ogni 30 o 40 chilometri c’è un villaggio e, all’ingresso e all’uscita di ognuno di questi, una serie di cordoli di cemento rialzati costringe a rallentare drasticamente l’andatura. Ma non basta: molto prima e molto dopo il cuore vero e proprio del villaggio dei cartelli stradali segnalano l’obbligo di non superare i 50 chilometri orari. Ci sembra giusto… con tutto il traffico pedonale che c’è sarebbe un azzardo sfrecciare in piena velocità. Meno giusto ci sembra invece il fatto che anche qui la polizia si è fatta furba: si nasconde dietro un cespuglio o una curva, lontano dal centro del villaggio, dove oramai a piedi non circola più nessuno ma poco prima della fine dell’obbligo e, con una specie di pistola laser, misura la velocità di crociera delle auto. La prima multa l’ho beccata alla folle velocità di sessantacinque chilometri orari cinquanta metri prima del cartello che segnalava via libera. La seconda, il giorno dopo, nonostante fossi molto arrabbiato per questo loro modo di fare e, dunque, attentissimo, me la sono vista contestare per dei presunti sessanta all’ora da una pattuglia in agguato dietro una curva che, molto probabilmente, aveva rilevato la velocità del camion che avevo davanti e me l’ha poi attribuita. Non c’è che dire: questo infame modo di far rispettare il codice stradale glielo abbiamo insegnato noi occidentali, ma loro lo hanno imparato fin troppo bene. Anche qui, come da noi, la polizia è divenuta sinonimo di banditismo legalizzato perpetrato da mercenari il cui piacere personale è quello dell’esercizio del potere e il cui unico intento è quello di rimpinguare le casse comunali.

Della Tanzania conserveremo il ricordo di uno dei territori più belli tra quelli da noi visitati, ma anche del costo abnorme e – a noi sembra – ingiustificato dei suoi parchi (che va sommato ad una esorbitante tassa di soggiorno auto), dello sfruttamento metodico del turismo e dell’arroganza delle autorità. Peccato… perché la sua gente, invece, è stata cordiale, gentile e curiosa nei nostri confronti.

Il 30 luglio lasciamo la Tanzania ed entriamo in Malawi. Ci accorgiamo subito che l’atmosfera è cambiata: i villaggi sono molto più puliti e curati, le persone più sorridenti, la polizia ci saluta e, se occorre, cerca di facilitarci in ogni modo.

Un dato curioso e – a nostro giudizio – molto significativo: contrariamente a quanto accade in tutti gli altri stati africani, per entrare in Malawi non occorre pagare alcun “visto”.

Proveniamo da un territorio bellissimo e il primo tratto del Malawi non ci colpisce perciò più di tanto: piatto, monotono, insignificante. Ma non appena comincia il grande lago tutto cambia. Molto caratteristici i villaggi dei pescatori, strepitosa la spiaggia bianca che divide l’azzurro scintillante dell’acqua dal verde intenso della vegetazione, piacevole la strada che, quando abbandona la costa del lago, si inerpica sulle montagne che gli fanno da corona. Ogni volta che ci fermiamo troviamo gente ospitale, gentile, spiritosa con cui è una delizia passare anche pochi minuti. Attraversiamo la città di Mzuzu, posta a mille e cinquecento metri di quota e rimaniamo incantati: come Arusha, la città è immersa in una vegetazione lussureggiante e arricchita da una quantità infinita di fiori di tutti i colori. Poi quaranta chilometri in discesa, in mezzo a boschi verdissimi e siamo a Nakata Bay, uno dei villaggi lacustri più famosi del Malawi. Dormiamo in uno delizioso camp site situato sulla sponda sinistra della piccola baia e contiamo di rimanere anche il giorno dopo, per fare il bagno, andare in canoa e riposarci. Ma la mattina, quando ci svegliamo, il cielo è coperto. Facciamo una breve passeggiata in città… poi con una delle solite nostre decisioni improvvise, scegliamo di ripartire. Chiudiamo l’Air Camping e via… di nuovo sulla strada. Prima saliamo ancora di quota e attraversiamo un bosco di alberi della gomma, poi scendiamo tornando a costeggiare il grande lago. Intanto il tempo è cambiato: il cielo è azzurro e il sole fa brillare la superficie dell’acqua. Mentre sfrecciamo lungo la strada con la coda dell’occhio mi sembra di vedere un angolo di paradiso. Rallento, mi fermo, torno indietro e mi infilo in una stradina laterale. Sotto una decina di alberi giganteschi dai quali pende un groviglio inestricabile di liane si trova un cottage in pietra con il tetto di paglia. Un prato verdissimo immette sulla spiaggia semideserta. Lontano, a destra e a sinistra, isolate capanne di pescatori.

Siamo incantati… così quando arriva il proprietario e ci chiede 10 dollari per una notte non ci pensiamo due volte. Trascorreremo lì la prevista giornata di riposo.

Prima mangiamo qualcosa, poi finiamo a camminare sulla spiaggia: fotografiamo le caratteristiche canoe del Malawi… parliamo con le poche persone che incontriamo… un pescatore, mentre ripara le sue reti, ci da lezioni di saggezza… degli uomini mi invitano a provare la loro canoa e quando alla fine regaliamo loro l’equivalente di tre euro, fanno salti di gioia come se avessero vinto al superenalotto. Nell’atmosfera dilatata, rarefatta e pigra del pomeriggio facciamo il bagno e alla fine ci stendiamo a prendere il sole. Rientriamo in casa verso le cinque. Il letto è accostato alla grande e bassa finestra dalla quale, con un solo sguardo, si può cogliere il verde del prato, il bianco della spiaggia e l‘azzurro del lago-mare.

Facciamo l’amore davanti alla finestra aperta. Poi rimaniamo a lungo abbracciati con il volto rivolto verso l’esterno… quando all’improvviso, per entrambi, il velo della realtà ordinaria si infrange, lasciandoci attoniti sull’orlo dell’eternità colta nell’attimo. La pienezza e l’autenticità degli incontri fatti nel pomeriggio, la pace del luogo, l’amore che ci uniti l’un l’altra, la magia della finestra è come se ci avessero proiettato oltre la superficie della bellezza esteriore fin quasi a cogliere l’essenza ultima della realtà. Che, tuttavia, non siamo in grado di afferrare.

Lungo le nostre spine dorsali si rincorrono ondate successive di brividi. Sento Raffaella piangere per la commozione, ma io non sono meno turbato di lei. Anzi: la mia mente passa incessantemente da uno stato di quiete assoluta, in cui si lascia assorbire dalla perfezione del momento che stiamo vivendo, ad una frenetica attività durante la quale si interroga sui massimi sistemi. Perché il Bene, perché il Male, perché lo svolgersi della Storia quando tutto è così semplice, così evidente, così facile da raggiungere? L’eternità colta nell’attimo, la perfezione del momento, la profondità dell’amore… questo, e solo questo, è ciò di cui potere, ricchezza e sesso non sono che stupidi surrogati.

Perché non lo comprendiamo?

Perché gli orrori delle guerre?

Perché i soprusi indicibili dei sistemi religiosi, politici e commerciali?

Lo so e non lo so. Una parte di me si percepisce innocente e ingenua come se fosse appena nata… un’altra parte, invece, si sente ingombrata e appesantita da tutto quello ha conosciuto ed elaborato nel corso di una vita fin troppo intensa … A tratti è come se il Tutto mi si rivelasse nella sua evidente semplicità… ma non appena tento di spiegarmelo, inevitabilmente si articola, si complica e si oscura.

Guardo dalla finestra. Afferro la pienezza incantata del momento che sto vivendo, e subito dopo la perdo… mi arrabbio con me stesso… ma sento anche che non potrebbe essere altrimenti…

Mi stringo a Raffaella.

Parliamo appena… un sussurro ogni tanto, solo per confidarci che stiamo vivendo la stessa, indicibile esperienza.

La luce, fuori, scolora… sono le sette di sera… il lago-mare si tinge di rosa poi, nel buio, non resta che il suono ritmico del suo respiro.

Ci svegliamo come da un sogno: ci alziamo dal letto. Dobbiamo preparare la cena. Domani riprenderemo il nostro cammino. Come già altre volte ci è capitato, la magia del viaggio ci ha colti quando meno ce lo aspettavamo regalandoci una esperienza che diventerà un patrimonio inalienabile per ognuno di noi due.

Il giorno dopo la strada abbandona di nuovo il lago e poco prima del bivio per la capitale torna ad essere piatta e monotona. Prima di girare per Lilongwe scendiamo ancora una volta verso il lago ma troviamo solo resort, lodge e camp site che hanno monopolizzato il territorio chiudendolo entro recinti protetti. Sta arrivando la modernità.

Disgustati giriamo i tacchi e ce ne andiamo. Ancora non sapevamo che quello era solo l’anticipo di una realtà che presto sarebbe diventata inevitabile.

Lilongwe è una piccola capitale, senza infamia e senza lode. Nel campeggio del “golf club” facciamo però un incontro interessante: una coppia di inglesi di almeno 70 anni sono parcheggiati vicino a noi con un mini camper Westfalia 4×4. Sono partiti un anno fa dall’Inghilterra e hanno attraversato i paesi scandinavi, hanno raggiunto Mosca, sono scesi per la Romania e poi hanno attraversato Turchia, Siria, Giordania, Arabia Saudita, Egitto, Sudan, Etiopia, Kenya, Tanzania e Malawi. Seguiteranno sul nostro stesso itinerario, raggiungendo Cape Town e poi… risaliranno attraverso la Namibia, l’Angola, il Congo, la Nigeria, ecc, ecc… Sul mini camper c’è scritto: “Da Capo Nord a Cape Town”.

Li guardiamo con tanta, tanta ammirazione e un pizzico di invidia.

Ci fermiamo per una sola notte a Lilongwe e il giorno dopo entriamo in Zambia. A Chipata, sessanta chilometri dopo il confine, giriamo per uno sterrato che ci condurrà nel South Luangwa National Park. Quando arriviamo al campeggio, nel pomeriggio inoltrato, due elefanti circolano liberamene tra le tende mentre nell’acqua del grande fiume sulle cui sponde si adagia il campeggio, fanno il bagno decine di ippopotami. Quando nel buio della sera cominceranno anche loro a girare tra le tende, illuminati dalle torce elettriche dei guardiani che in questo modo allertano i campeggiatori, presumiamo che la visita al parco del giorno dopo sarà indimenticabile. Sbagliamo in pieno… forse perché è la stagione secca… o forse perché abbiamo ancora negli occhi i parchi della Tanzania… fatto sta che la visita è deludente. Ma non per questo meno cara.

Quando il giorno dopo riprendiamo la pista ci fermiamo in uno dei tanti anonimi villaggi che incontriamo. Come al solito siamo accolti con estrema ospitalità e cortesia: ci viene mostrata la vita della comunità e noi cominciamo a renderci conto di come, in questa parte dell’Africa, molto più che altrove, si sovrappongano due realtà opposte e contrarie. O, meglio, due economie. Da una parte quella legata all’industria del turismo, determinata dai gestori dei lodges esclusivi, dai tour operator che monopolizzano i safari e dal costo abnorme della benzina che, ovunque, nel paese, fa levitare i costi delle merci importate. Dall’altra quella rurale della gente comune, che vive in capanne di fango e paglia, senza corrente elettrica, senza acqua corrente e riscaldate a carbone. Che circola a piedi per il paese o, al massimo, in bicicletta. E che vive di pomodori, cipolle, noccioline, pollame, uova e banane. La televisione – con la sua malefica influenza – non è ancora arrivata… ciò nonostante tutti hanno perso il contatto con le proprie radici culturali e vestono di stracci occidentali importati da chissà dove. Tuttavia la loro non è povertà, bensì una condizione di semplicità e naturalezza che sembra povertà solo quando è paragonata alla nostra opulenza occidentale.

Trascorriamo un paio d’ore deliziose nel villaggio e ci rifacciamo così della delusione vissuta nel parco. Poi due giorni interi di strada, a tratti buona e a tratti meno buona, fino a superare Lusaka e a penetrare nello Zambesi National Park. E anche qui, siamo da capo… i campeggi costano un boato, la chiatta mobile che traghetta i veicoli da una parte all’altra di un piccolo affluente dello Zambesi per noi, viaggiatori autonomi, verrebbe a costare cinque volte il costo ordinario; la benzina è duplicata.

Disorientati e disgustati azzecchiamo la scelta giusta: ci fermiamo in un camp site bellissimo situato prima del parco e prima ancora del passaggio del fiume. E il giorno dopo affittiamo un motoscafo che ci porterà in safari sullo Zambesi. Un’altra perla per il nostro viaggio. Il fiume è di una bellezza commovente… ampio, azzurro, lento e maestoso. Nelle sue acque decine e decine di ippopotami, coccodrilli e uccelli pescatori… sulle sue rive giganteschi pachidermi che si abbeverano. Quando il tramonto del sole incendia le acque abbiamo come l’impressione di cogliere l’anima stessa del grande fiume. Rientrando ci sentiamo appagati e soddisfatti come raramente ci sta capitando in questo strano viaggio. Qualcosa non è come ci aspettavamo che fosse… le atmosfere non sempre sono come quelle che credevamo di trovare… qualcosa ci sfugge… non capiamo…

Cinquecento chilometri ci separano ora da Livingstone e dalle cascate Vittoria. Detto così sembra una bazzecola, e invece ci occorreranno più di nove ore di macchina per raggiungere la nostra destinazione. Negli ultimi cento chilometri, poi, l’asfalto stradale diviene così rovinato che vediamo le automobili viaggiare sulla banchisa sterrata, ai lati della strada, mentre al centro, tra una buca e l’altra, come se nulla fosse vediamo camminare i pedoni. Spettacoli africani.

Stremati arriviamo a Livingstone, e ciò che fino a quel momento era stato poco chiaro finalmente ci si rivela: i lodges nei quali entriamo per passare la notte sono sfavillanti, opulenti, sfarzosi, oseremmo dire faraonici… immersi in un verde curatissimo, traboccanti di fiori, con gli ambienti serviti da camerieri ossequiosi. In alcuni di questi non bastano 1500 dollari per passarvi la notte. Anche i campeggi adiacenti non sono meno curati… solo che tutto è esaurito, monopolizzato dai tour operator che portano in giro centinaia di persone a cui affittano poi la tenda per dormire. Quando finalmente troviamo un campeggio libero, molto fuori mano, lontano dal fiume, polveroso e con la vegetazione secca, ci sentiamo rifiutati.

Che strano… in Senegal, in Mali, in Mauritania, in Algeria o in Libia abbiamo soggiornato in campeggi ben più miseri di questo, dove sarebbe stato un lusso avere anche soltanto l’acqua corrente al bagno. E ora, in questo ben curato campeggio dalle luci soffuse ci sentiamo dei paria… ma certo… ecco… tocchiamo con mano l’effetto creato dal consumismo: nell’Africa del nord i miseri campeggi erano del tutto adeguati alla realtà sociale che esisteva fuori dai loro cancelli. Quello che offrivano era solo la loro protezione. In questa parte d’Africa non è così. Nei lodges c’è l’opulenza, la comodità curata fino a diventare lusso sfrenato, l’ostentazione delle proprie possibilità economiche, lo sfarzo del potere. A Livingstone c’è di tutto: volo in elicottero, in cesna o in deltaplano. Rafting, jumping, pesca in barca, golf, safari a piedi o a cavallo, arrampicata sulle gole dello Zambesi e persino safari a dorso di elefanti. In pratica la città è un immenso Luna Park dove la cosa più importante è sfilare quanti più soldi possibili ad ogni turista.

Mi rendo conto che non ho alcun diritto di giudicare: di parchi giochi è pieno il mondo e il turismo rappresenta più del 65% della ricchezza dei paesi sudafricani.

Ma come autonoma individualità ho invece il diritto di risentirmi, perché non voglio comprendere né tanto meno accettare che un santuario della natura come “il fumo che canta” (così gli indigeni chiamavano in origine le cascate Vittoria) debba essere trasformato in un mega-centro commerciale. Sarò pure antiquato e patologicamente romantico, ma condivido l’intuizione profetica che Bruce Chatwin ebbe più di ottant’anni fa: se viaggiare nel mondo può essere paragonabile ad un atto di preghiera, il turismo allora è una bestemmia. E come lui mi chiedo: “Che ci faccio io qua?” Tutto ciò da cui tento di allontanarmi ogni volta che parto qui è come concentrato, occupa ogni spazio e mi fa sentire preso alla gola e strangolato peggio di come mi sento a casa mia. Non è questa l’Africa che amo.

Come che sia… il giorno dopo accettiamo di alimentare il Moloc e prenotiamo un volo in elicottero. E ancora una volta la natura ci parla: le cascate Vittoria sono qualcosa di sublime e la loro osservazione, prima dall’alto, poi dal basso – passeggiando lungo il sentiero che fiancheggia la strada – ci regala momenti di intensa commozione.

Insomma: oscillando tra momenti di esaltazione e momenti di delusione e malcontento il nostro viaggio prosegue. Il giorno passato alle cascate Vittoria è stato magnifico? Bene… siamo pronti per la successiva delusione.

La giornata era cominciata bene avevamo lasciato Livingstone e avevamo appena percorso i 60 chilometri di asfalto liscio come un bigliardo che ci separavano dalla frontiera del Botswana quando, a 500 metri dalla dogana ci ferma la polizia. Non ho la cintura di sicurezza allacciata. Vaffanculo… da queste parti non le porta nessuno, ci hanno già fermato decine di volte senza nulla obbiettare… Va bhé, paghiamo sta multa.

I miei dati vengono riportati dagli agenti su un semplice foglio bianco… strano! Esigo il verbale… ci spiegano che hanno finito i fogli. Poi ci chiedono l’equivalente di 50 dollari… Ancora più strano. Qui in Zambia nessuno potrebbe pagare una multa così salata. Bluffiamo spudoratamente e dichiariamo loro che in Italia non si è mai sentita una multa così alta. Sono sorpresi e confusi… e alla fine ci chiedono: “Quanto vorreste pagare?”

Adesso è tutto chiaro. Sono solo dei poveracci che tentano di sbarcare il lunario. Li giustifico molto più di quelli tanzaniani, ma il sopruso mi fa comunque imbestialire. Raffaella mercanteggia come solo una marocchina doc. saprebbe fare e alla fine regaliamo loro venti dollari.

Siamo alla dogana di Kazungula. Usciamo dallo Zambia, traghettiamo, ed entriamo in Botswana. Dobbiamo pagare una misera tassa per l’inquinamento, ma dobbiamo pagarla in pula. Peccato che sia sabato e l’ufficio di cambio perciò sia chiuso. Oggi non è proprio giornata. Restiamo bloccati più di un’ora finché un’anima pia di passaggio non ci cambia dieci dollari in sessanta pula. Possiamo proseguire.

Arriviamo a Kasane e anche qui troviamo tutti i campeggi esauriti. In teoria bisognerebbe prenotare. Stiamo cominciando a stancarci di questa parte di Africa. Comunque, gira gira, riusciamo ad impietosire i gestori di un campeggio che ci sistemano vicino alla grande capanna bar-ristorante. L’ambiente sembra carino. Apriamo la tenda e facciamo i nostri progetti per i giorni successivi. Per pochi pula ceniamo al ristorante e alle 21,30 ci infiliamo nei nostri sacchi a pelo Ma come ho già detto era sabato… e il volume della musica, che fino a quel momento era stato discreto, comincia ad alzarsi in proporzione al tasso alcolico che circola nelle vene degli avventori.

– Non ti preoccupare, tesoro – mi consola Raffaella – vedrai che presto sarà tutto finito. Le persone vengono qui per i safari… si parte all’alba.

Infatti… alle undici sono tutti ubriachi fradici e quando alle due di notte vengono finalmente spenti gli altoparlanti, le urla, le risate e gli schiamazzi proseguono per un’altra ora buona. La nostra peggiore giornata in terra d’Africa è così terminata.

Si vede che abbiamo pagato pegno abbastanza perché i giorni successivi sono un incanto: prima un safari pomeridiano sulle acque del Chobe river, poi tre giorni in fuoristrada, attraversando il Chobe National Park, Savuti Marche e la Moremi Game reserve. Vediamo panorami superbi e incontriamo una quantità incredibile di animali: elefanti, bufali, ippopotami, gazzelle, giraffe, impala, facoceri e miliardi di scimmie. Un unico neo: per quanto giriamo non riusciamo ad avvistare leoni. Ad un certo punto, pur di scovarne uno, ci infiliamo in una delle più remote piste della Moremi reserve, ma a parte l’adrenalina al pensiero di un guasto meccanico in quella zona remota del parco, alla bellezza selvaggia del percorso e al “quasi tamponamento” di una giraffa, di leoni neanche l’ombra.

La sera del terzo giorno dei turisti tedeschi che avevano girato intorno ad uno dei pochi campeggi della riserva ci raccontano entusiasti di aver assistito alla caccia e alla uccisione di un elefante da parte di alcuni leoni… proprio lì, vicino al campo.

Devo faticare non poco per dissuadere Raffaella dal tagliarsi le vene…

Il 15 agosto arriviamo a Maun. Abbiamo 4 giorni di anticipo, ma anche molte cose da fare.

Il 16 ci regaliamo un volo in cesna sul delta dell’Okavango, e il 17 una intera giornata in mokoro, le tipiche canoe di legno delle popolazioni indigene. Un’altra giornata da sogno trascorsa scivolando leggeri sulle acque cristalline di uno degli ecosistemi più incontaminati del mondo. Il mokoro vi si muove agile, silenzioso, quasi sfiorando la superficie dell’acqua, incurante della bassa vegetazione o delle ninfee che incontra al suo passaggio. Qua e là, prati di fiori rosa galleggianti, specchi d’acqua libera e immota, vasti campi di basse cannule acquatiche. Un silenzio irreale sembra avvolgere tutto il delta, spezzato solo dal richiamo di qualche uccello o dal barrito degli elefanti. Una pace profondissima sembra essersi impossessata del luogo.

Sarà l’ultimo bel ricordo di questa parte d’Africa: una natura sublime trasformata in business e amputata della cultura umana che aveva contribuito a produrre. I neri che oggi la abitano, infatti, non hanno conservato più nulla delle proprie origini e – da un punto di vista estetico – sono solo delle brutte imitazioni dell’anonimia occidentale. Come mi fa osservare Raffaella, salvo rarissime eccezioni, non c’è nulla di più sciatto e pacchiano della gente di colore vestita all’occidentale. Calzoni, magliette, gonne, camicette e scarpe con il decolté… tutto assortito alla meno peggio, senza alcun gusto e nessuna cura. Qui siamo lontani anni luce dall’eleganza leggiadra delle tradizionali vesti maschili e femminili dei marocchini, dei senegalesi, dei maliani, dei tuareg algerini e libici, degli etiopi, dei samburu kenioti o dei masai tanzaniani. Qui siamo agli antipodi dalla curiosità reciproca, dal piacere dell’ospitalità, dal gusto della differenza. Da un punto di vista sociale, potremmo essere in Norvegia, in Australia o in Canada… sarebbe la stessa cosa.

Ma tant’è. Forse per noi, alla fin fine, sarà importante aver fatto questa esperienza. Aver scoperto che senza l’uomo che la abita la terra più bella si immiserisce, perde valore e diviene perciò preda dello sfruttamento più bieco. Man mano che scendevamo verso sud ci siamo resi conto che il nostro viaggiare avrebbe dovuto essere sempre più rigidamente programmato e burocratizzato. Con mesi di anticipo avremmo dovuto sapere dove saremmo stati quel determinato giorno, quanto tempo ci saremmo fermati e in quale direzione avremmo proceduto. In un qualche modo ce la siamo cavata,

ma il fatto è che le successive tappe del nostro viaggio non si profilano certo migliori: ipotetica la soluzione dei problemi determinati dall’incombente scadenza del nostro carnet de passage, incerto il modo con cui ottemperare agli obblighi dell’assicurazione provvisoria dell’auto, sempre più complesso far coincidere le date dei voli aerei con i giorni utili per trovare aperti i vari uffici governativi e, infine, far combaciare il tutto con il clima giusto per trovare transitabile quella determinata pista. Più che una vacanza il nostro viaggio sta rischiando di diventare un lavoro.

La responsabilità per questo stato delle cose in buona parte va ricercata nella ingenuità beota del nostro progetto ma, anche, nella chiara volontà espressa dai paesi del sud Africa di monopolizzare i propri territori a favore del turismo organizzato. Il viaggiatore autonomo non interessa nessuno e nessuno dunque si sforza di favorirlo.

Non è questa l’Africa che sognavamo. La “nostra Africa” si è come esaurita sulla linea dell’equatore… oltre c’è stata solo la bellezza struggente, melanconica e nostalgica di una terra orbata dei suoi figli prediletti e, come una prostituta, costretta ad offrire le proprie grazie al migliore offerente.

Siamo a Maun e mancano ancora 2 giorni alla nostra partenza per l’Italia. Nell’ozio forzato che fa seguito al nostro girovagare forsennato e frustrante da un ufficio di polizia a quello doganale, dagli uffici delle due uniche assicurazioni della città di nuovo a quello doganale, prendiamo coscienza che stiamo rischiando di tradire lo spirito che fin’ora ha animato il nostro viaggio e, sebbene a malincuore, decidiamo di cambiare i nostri programmi. Il prossimo natale, da Maun punteremo diritti verso Windhoek, visiteremo quanto più possibile la Namibia centrale e poi scenderemo dritti verso Cape Town, in Sud Africa… e da lì – via mare – cercheremo di far tornare in Italia la nostra auto 4×4 con una tranche di vacanze in anticipo.

Sogniamo di tornare ad esplorare l’Africa nord-occidentale.

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