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La valle dell’Omo ed il Lago Turkana di Gian Casati

– Posted in: Africa, Africa Est, Resoconti di viaggio

By Gian Casati
Originally Posted Monday, January 27, 2014

 

LA VALLE DELL’OMO ED IL LAGO TURKANA

di Gian Casati

Un viaggio africano, un vero viaggio africano. Guasti, inconvenienti, imprevisti e meraviglie sopratutto meraviglie per il gruppo composto da Ale e Martino su Toyota hzj 75 e Rosalba, Carlo ed io, Gian, su Toyota hj 61. Mete principali del viaggio: il lago Turkana (Kenya) e la regione dei Surma (Etiopia) nella valle dell’Omo, lato Ovest verso il Sudan.

19 novembre 2013

La pioggia, sono le tre del mattino, ci accoglie a Nairobi. Il nostro amico Eugenio Kirima, che ha tenuto in custodia la Toyota in questi mesi e che ci ha assistito nelle pratiche burocratiche, ci accoglie con la sua simpatica esuberanza e ci ospita nella sua bella casa in attesa che venga giorno. Poi per prima cosa andiamo dal meccanico per dei lavori programmati: sostituire un paraolio ed il foglio di una balestra (quello che fu saldato in Sud Sudan mesi fa). Mentre il meccanico si dà da fare ci rechiamo all’immigrazione sperando di ottenere il visto multiplo perché la nostra idea sarebbe quella di uscire dal Kenya (per l’Etiopia) e rientrarvi dal Lago Turkana, da Ileret per la precisione, ove c’è solo un posto di polizia ma niente immigrazione e niente dogana. Non c’è niente da fare, il visto multiplo non è ottenibile, addirittura ci timbrano il passaporto in uscita per la data “obbligata” che noi siamo costretti ad indicare loro. Ci sarebbe anche il problema del carnet ma viste le difficoltà lasciamo perdere, decidiamo quindi che rientreremo da Moyale dove c’è immigrazione e quindi possibilità di avere il visto e dove ci proponiamo di spiegare che avremo ancora il carnet “aperto” per l’impossibilità di “chiuderlo” ad Ileret.

Nel pomeriggio facciamo cambusa ed acquisti vari al fornitissimo supermarket Nakumatt; Ale e Martino raggiungono la loro macchina che hanno lasciato da Leo, un amico italiano ormai cittadino Kenyota, che abita a Kitengela, una trentina di km a sud di Nairobi.

A sera la macchina è pronta, un’ora e mezza nel demenziale traffico di Nairobi per fare meno di due km e siamo al tranquillo e confortevole Biblica Guest house (Dennis Pritt rd) per una bella dormita. Appuntamento con Ale domani mattina lungo la strada che porta a Nord. Piove.

20 novembre 2013

Sistemiamo le ultime cose e finalmente partiamo. Puntualissimi all’appuntamento incontriamo Ale e Martino. Puntiamo a Nord costeggiando il monte Kenya. Anche questa volta, come nel viaggio scorso, la coltre di nubi ci impedisce di vedere la famosa montagna. Verdissime colline, ampie coltivazioni, serre e …… piove. Siamo un po’ sconcertati perché abbiamo scelto questo periodo per il nostro viaggio in quanto secondo i sacri testi la stagione avrebbe dovuto essere secca mentre qui ci dicono che siamo proprio nel periodo delle piogge. In realtà, capiremo poi, il discorso sulla stagione delle piogge è abbastanza relativo perché varia a seconda della latitudine ed è decisamente influenzato dalla presenza di montagne. E poi anche qui ormai tutti dicono che “le stagioni non sono più quelle di una volta”!! (Anticipo comunque che man mano che procederemo verso Nord troveremo ottime condizioni meteo). Una cinquantina di km dopo Nanyuki, grosso centro che fa da “campo-base” per le escursioni sul Monte Kenya, lasciamo la nazionale A2 che porta a Nord in Etiopia e prendiamo la strada per Kangeta tra belle verdissime montagne per raggiungere il villaggio di Mukululu dove i padri della Consolata hanno un piccola missione. Siamo ad oltre 2000 metri ed il freddo si fa sentire. Riscaldati da un bel camino i padri (sono due, anzi per la precisione, il sacerdote è solo uno, padre Giuseppe perché l’altro, Giovanni, è un laico) ci offrono una abbondante cena che innaffiamo con ottimo vino barbera (!!) prodotto proprio qui. Ci troviamo in una missione come proprio ce la immaginiamo : molto isolata, piccola ma efficiente, dotata dell’essenziale e con missionari molto intraprendenti e poco “curiali”. Una magnifica stellata ci fa ben sperare per domani.

21 novembre 2013

10 gradi al risveglio ma finalmente c’è bel tempo e la giornata promette bene. Nella foresta pluviale di Nyanbene che sta alle spalle della missione andiamo a visitare le ingegnose opere idrauliche che raccogliendo le acque della foresta a regime forniranno acqua a circa 300.000 persone. E’ incredibile come la tenacia e la forza d’animo di una cosi piccola struttura (la piccola missione) abbiano potuto mettere insieme, organizzare e far funzionare una così importante opera. Oltre vedere la raccolta delle acque dalla foresta (ora abbondanti perché in questa particolare zona il mese più piovoso è proprio novembre) è stata molto interessante la visita di un tunnel scavato nella roccia. Questa galleria, alta un paio di metri larga uno circa e lunga oltre cento, ingegnosamente canalizza alla propria base l’acqua che trasuda dalla roccia tutto l’anno fornendo così il prezioso liquido anche nella stagione secca. Prima di riprendere il nostro cammino ci facciamo un bel carico di bottiglie di barbera ed acquistiamo del the locale che ci dicono di ottima qualità. Lasciamo la missione circondata dalle belle piantagioni di the e da campi coltivati e scendiamo verso il piano per raggiungere nuovamente, ad Isiolo, la strada nazionale A2. Raggiungiamo quindi Archer’s Post e ci fermiamo al campsite Umoja in riva al fiume Ewaso Ngiro. Un gin and tonic, preparato non proprio secondo i sacri canoni, ci prepara alla cena cucinata, con la sua solita maestria e fantasia, da Rosalba.

22 novembre 2013

Riprendiamo il nostro cammino verso Nord. L’asfalto, ottimo, termina (come 10 mesi fa) al ponte sul fiume (secco) Merille , una trentina di km prima di Laisamis. La savana che ci circonda è verdissima dopo le recenti piogge. Raggiungiamo Marsabit per fare gli ultimi rifornimenti (tra cui abbondante gasolio) perché prevediamo di dover avere completa autonomia per diversi giorni. Il viaggio “vero” incomincia infatti ora. Ritorniamo sui nostri passi per qualche km per imboccare la pista che ci porterà a Kargi, nella parte Sud del Chalbi Desert. Dall’alto la vista si perde sugli spazi immensi sottostanti, tra crateri di antichi vulcani. Siamo nella terra dei pastori Samburu che di tanto in tanto incontriamo lungo la pista. Il deserto pietroso è ora verdissimo e tenera erbetta cresce rigogliosa formando incredibili tappeti. Incrociamo branchi di cammelli accuditi da allegri pastori che ci sono grati per aver dato loro un po’ d’acqua da bere.

Al tramonto raggiungiamo Kargi, un agglomerato di costruzioni per lo più metalliche, senza anima. Ci fermiamo a dormire nel cortiletto della missione cattolica di padre Raymond, un sacerdote kenyota. La povera missione non offre molto ma una doccia un po’ scalcinata (un secchio tenuto sospeso da un groviglio di fili di ferro con una specie di rubinetto) la rimediamo ed una bella pasta asciutta viene cucinata nella disadorna cucina. Dopo cena padre Raymond non rifiuta un bicchierino di wisky (per confortarci nella nostra cambusa un pò di alcool non manca mai).

23 novembre

Lasciata la missione, grazie alle precise indicazioni di padre Raymond sulla pista da seguire, puntiamo verso il monte Kulal che terremo poi alla nostra sinistra per fare una pista, non segnata sulle nostra carte né su T4Africa, che ci condurrà all’oasi di Gusi Gas.

Attraversiamo una natura spettacolare ed incontaminata (non ci risulta che altri viaggiatori, cosiddetti overlanders, l’abbiano percorsa). Nel verdissimo versante sud incontriamo qualche gazzella e nessun umano. Il versante Nord è più arido e più montagnoso ma incredibilmente qui si incontra qualche essere umano.

Dopo diverse ore di guida, attraversate belle valli ed aride montagne, arriviamo a Gusi Gas, una vera oasi con tanto di palme e sorgenti d’acqua, circondata dal deserto. Vorremmo fermarci qui ma non troviamo alcun posto che ci ispiri e così decidiamo di proseguire verso Hurran Hurra. Siamo ancora in pieno deserto e la guida è assai piacevole. Dopo aver superato un bel wuadi con tante enormi acacie, mentre sono fermo ad aspettare Ale, noto Carlo che guarda con preoccupazione una gomma.

Tremo perché questi sguardi sono sempre forieri di cattive notizie (io lo prendo in giro dicendo che lui é di un pessimismo cosmico, ma qualche volta ci prende). Infatti la gomma si sta velocemente sgonfiando. Rapido intervento con l’aiuto di tutti ma ormai si è fatto tardi e così poco dopo in pieno bush (anzi deserto) facciamo campo. Siamo a N 03° 24′ 09″ E 036° 41′ 48″

24 novembre

Una buona pista, attraverso una natura selvaggia e molto sahariana, ci porta al Sibiloi National Park, un posto dimenticato da Dio e dagli uomini (gli uomini infatti stanno facendo andare a remengo ogni struttura ricettiva). Animali pochissimi e molto spaventati, turisti nemmeno l’anima. Siamo in riva al lago Turkana, fenicotteri ed uccelli acquatici, qualche barca di pescatori.

Ma credo che l’interesse del parco stia tutto nella storia dell’evoluzione della specie umana di cui sono stai trovati qui interessanti reperti. Dovrebbe esserci un museo, ma ci dicono che ora è chiuso. Solo la sete di conoscenza degli scienziati può spingere qualcuno fino a queste remotissime regioni….. a meno di trovare pazzoidi come noi ! Per delle “bestie” (culturalmente parlando) come me molto interessante la visita alla foresta pietrificata mentre i reperti ed i fossili, peraltro colpevolmente abbandonati alle ingiurie degli elementi, sono cosa per specialisti. Lasciata la foresta pietrificata, sfiorati da un violentissimo temporale con vento di sabbia tipo sahara, raggiungiamo Koobi Fora dove si trovano le uniche strutture ricettive del parco, strutture che paiono semi abbandonate, spettrali. Vecchie Land Rover abbandonate, Toyota sventrate, uno spettacolo un po’ inquietante. Sembra di essere, e forse lo siamo, nel buco del c… del mondo. Fa molto caldo (38°) e umido. Come cala la sera però si sta subito bene e la notte addirittura è fresca. Speravamo tutti, non dico ad un gin and tonic, ma almeno ad una coca cola fresca, invece niente di niente. Una sana doccia di acqua tiepida ci riporta al mondo.

25 novembre

Lasciamo Koobi Fora diretti verso l’Etiopia. Una bellissima pista, in qualche punto appena accennata, con qualche passaggino abbastanza impegnativo, attraversa il parco. Dall’alto ci sono scorci fantastici sul lago Turkana che ora, nelle calde ore della tarda mattina, ha perso il suo color giada (per cui è famoso) prendendo un più prosaico color marroncino chiaro.

Incontriamo qualche raro selvatico (zebre ed antilopi) e verso la fine del lago qualche mandria di vacche e di capre. Avvicinandoci ad Ileret, ultimo avamposto Kenyota, incrociamo villaggi Dassanech. Questa etnia è abbastanza pittoresca nell’abbigliamento ma è caratterizzata da capanne orrendamente assemblate con i più svariati materiali, pezzi di plastica, di cartone, di paglia etc.

Il metallo predomina come materiale per la copertura e con questo caldo non si sa come possano resistere all’interno; ipotizzo che queste capanne vengano usate solo per la notte mentre durante il giorno uomini e donne Dassanech se stiano affaccendati altrove. Arriviamo ad Ileret. Il villaggio è composto da poche capanne di lamiera ed un posto di polizia dove ci colpisce la piccola prigione (con detenuto) costituita da una specie di gabbia in pieno sole con pavimento di terra battuta senza una brandina, senza niente. Qui non c’è dogana né immigrazione e quindi, per non passare per clandestini, ci facciamo fare da un gentile militare capo-posto una dichiarazione che in sostanza accerti che siamo passati da lì. Nelle nostre intenzioni ci servirà quando rientreremo in Kenya dalla frontiera “ufficiale” di Moyale. Poco dopo Ileret si entra in Etiopia, la frontiera è una corda tesa tra due stortissimi pali con legate delle bottiglie di plastica ad evitare che uno travolga la corda per non averla vista. La pista è solo una monorotaia che attraversa una bella boscaglia, ora verdissima, con qualche ultimo scorcio sul Turkana; ad un certo punto lo sterrato sbocca improvvisamente in uno stradone in costruzione che ci porta ad Omorate. Qui dove fa bella mostra di sé il grande ponte metallico che attraversa l’Omo. Mancano però le rampe e la strada di accesso per cui per il momento non si può utilizzare. Ci rechiamo subito all’immigrazione per le formalità di ingresso nel paese. Qui esaminano i nostri visti ottenuti in Italia e notano subito che quelli di Carlo e mio hanno un evidente errore di data per cui noi due dobbiamo aspettare ordini “superiori” per poter entrare in Etiopia. Una ventina di minuti di attesa perché i telefoni non funzionano ma poi l’ok dalle superiori autorità arriva e, comunque sempre molto gentili, ci timbrano l’ingresso. Dopo l’immigrazione Ale ed io (i drivers) andiamo in dogana per ottenere un permesso temporaneo di importazione per le auto non essendo utilizzabile il carnet, che non ha il timbro di uscita dal Kenya (come sappiamo, ad Ileret non c’è ufficio doganale che possa timbrare il documento). Fa un caldo impressionante reso più atroce dall’umidità che evidentemente sale dal fiume. Ci prende un po’ di agitazione perché Oneday, l’amico etiope che conobbi nel 2008 e che dovrebbe farci da guida in questo viaggio, non è all’appuntamento che avevamo concordato. Non c’è rete per i cellulari (ma campo sì…. mistero!) e quindi non possiamo contattarlo nemmeno col satellitare (perché lui non riceverebbe). Non sappiamo bene cosa fare. Mentre aspettiamo, un sedicente elettrauto, per una cifra spropositata (mio grave errore: sempre ma sopratutto in Africa concordare prima il prezzo) dà un’occhiata al vetro elettrico lato passeggero che avevo riparato a Nairobi ma che dà ancora qualche problema. Contemporaneamente un meccanico molto più onesto ripara la mia gomma stallonandola a picconate. Io vengo preso dal panico per questo poco ortodosso modo di fare ma lui, obiettivamente, è di una precisione assolutamente chirurgica. Finalmente via sms riusciamo a contattare Oneday che non è riuscito a raggiungere Omorate (che non è servita da alcun servizio pubblico). L’amico ci dice che ci aspetta a Turmi. Ma ormai è tardi per raggiungerlo e così cerchiamo una decente sistemazione ad Omorate, cosa non facile visto che questo paesotto è veramente un postaccio. Per fortuna troviamo l’Awasa Lodge una struttura nuova ma già abbastanza conciata, comunque pulita, il che ci basta. Rosalba rifocilla la compagnia con la sua solita abilità di cuoca.

26 novembre

Lungo la strada per Turmi incontriamo Oneday che ci é venuto incontro con una motoretta. Ci accoglie donandoci mazzetti di fiori di campo, dimostrando una volta più la sua gentilezza d’animo che ben ricordavo. Grandi feste reciproche. Passiamo Turmi (con ottima e fresca coca cola) per raggiungere Dimeka perché oggi è giorno di mercato e gli Hamer (l’etnia prevalente in questa zona) affluiscono numerosi per i lori magri scambi.

Gli Hamer sono molto interessanti ai nostri occhi perché fanno parte di un’Africa antica, il loro abbigliamento, le loro tradizioni, il loro modo di vivere, sono rimasti intatti da chissà quanto tempo.

Le donne in particolare continuano la tradizione di portare un succinto vestito di pelle (di capra?) ornato da grandi guarnizioni di cipree (le famose conchiglie che arrivano dal lontano oceano e che per secoli hanno adornato le donne africane), i capelli a caschetto di treccine impastate di ocra e una specie di burro che rende i capelli rossi e lucidi. Gli uomini, dal fisico notevole, il capo piumato e corto gonnellino, se ne stanno più in disparte a trattare i loro affari. Rispetto alla visita di cinque anni fa, il mercato “turistico” (statuette, collane, braccialetti ed altro per turisti) è un po’ più sviluppato e la richiesta di un obolo per le fotografie è più pressante (oltre che più onerosa ma si sa…. l’inflazione) ma il mercato “locale”, luogo non solo di scambi commerciali ma anche di incontro, di socializzazione, di scambio di notizie, è, come allora, animatissimo e gli Hamer compiono lunghi percorsi a piedi per raggiungerlo dai vari villaggi sparsi nelle foreste. In una specie di trattoria locale ci rifocilliamo con ottimi tibs (piccoli spezzatini) di montone e njera (il tipico cibo etiope). Torniamo quindi a Turmi al campsite Mango Camp in riva ad un fiume, in un bosco di manghi. Campeggio molto basic con docce e servizi molto scomodi da raggiungere. Ovviamo alla “rustichezza” del campeggio andando a mangiare ottimamente al vicino Buska Lodge.

27 novembre

Oggi il “programma-pensato-apposta-per-noi” (pia illusione, tutti quelli che vengono qui, non sono molti, ma ci sono, fanno questo giro) prevede la visita di un villaggio abitato dall’etnia Arbore (o Erbore) ai margini del lago Stefania. Il lago in verità non esiste più da tempo, ora c’è un vastissimo pianoro verde. Il villaggio si chiama Gondoropa;

purtroppo la sua gente è fin troppo “scafata” coi turisti. Si paga per entrare (150 birr, circa 5,5 euro a testa) si paga per fotografare i gruppi, si paga per ogni foto singola. Per la gioia dei fotografi si aggiunga che dopo interminabili discussioni sul prezzo da corrispondere la gente, a seguito di precise istruzioni impartite da capi e capetti, si mette “in posa”……sai che foto!! I “soggetti” poi sono alquanto nervosi perché cercano di accapparrarsi il fotografo per guadagnare i 3/5 birr (0,10 / 0.20 euro), attentissimi che lo scatto sia solo uno perché se per caso sono due urlano per avere il doppio compenso. Personalmente sono piuttosto sconcertato per non dire imbufalito e deluso. Non fosse per il magnifico contesto naturale che si attraversa per venire qui, direi che la visita del villaggio, a queste condizioni, non vale la pena. Ritorniamo quindi a Turmi perché Oneday ha saputo che da qualche parte nella foresta si svolgerà oggi la famosa cerimonia di iniziazione chiamata “il salto del toro”, la prova di coraggio e sopratutto di abilità che il giovane Hamer deve superare per potersi sposare ed entrare nel mondo degli adulti. Con un contatto locale andiamo verso Dimeka e poco prima di questa località prendiamo una pista che si inoltra nella foresta. Sulla pista arrancano faticosamente 4/5 macchine di organizzazioni etiopi con turisti. La cosa mi puzza un po’, vuoi vedere che la cerimonia è stata organizzata ad uso e consumo dei turisti perdendo così ogni genuinità ?? Il mio sospetto è rafforzato quando raggiungiamo il letto di un fiume asciutto dove ci sono sì donne Hamer con tintinnanti pendagli alle caviglie che ballano e cantano al suono di trombette tipo vuvuzelas ma ci sono anche diversi turisti (forse dell’est Europa) dall’orrendo aspetto (confesso di essere un po’ snob ma secondo me ci vuole un po’ di classe anche nell’essere turista). Ci sono anche fotografi locali (addirittura con Ipad e tavolette varie). A confermare i miei sospetti il fatto che addirittura ognuno deve pagare un ticket di ingresso (400 birr, 15 euro, a testa). Ci guardiamo l’un l’altro piuttosto sconcertati, ma ormai siamo qui, genuina o no, assisteremo alla famosa cerimonia. Ad un certo punto terminato questo pre-rituale di girotondi e cantilene (non sarà un espediente per aspettare l’arrivo di altri spettatori paganti?) la folla degli Hamer si incammina lungo il letto del fiume per poi prendere un sentiero che si inoltra nella foresta. Durante questo trasferimento devo dire che comincio a ricredermi su quanto pensavo circa la spontaneità della cerimonia. Vedo infatti camminare davanti a me giovani donne dalla schiena sanguinante da profonde ferite inferte da frustate (che più avanti vedrò dare davanti ai miei occhi).

Tra le donne Hamer infatti vige la tradizione (sembra osteggiata dalle autorità politiche del paese che temono che tale usanza appaia sinonimo di arretratezza culturale) di farsi frustare dagli uomini senza fiatare per mostrare il loro coraggio ed ammirazione nei confronti dei giovani maschi che poi sposeranno. Poiché ho visto nel corso della cerimonia altre giovani donne sollecitare i maschi a frustarle con lunghe verghe di legno ed ho visto i terribili effetti di queste frustate mi sono ricreduto circa la genuinità della cerimonia. Non credo proprio che le donne possano accettare simile dolorosissima tortura (senza fiatare) solo per compiacere i turisti. Penso quindi che la cerimonia fosse autentica e secondo le tradizioni Hamer.

Certo è stata fatta circolare la voce per attrarre i (comunque pochi) turisti e far guadagnare alle comunità locali qualche birr. Dunque seguiamo la folla degli Hamer che, lasciato lo wuadi, si incammina nella boscaglia fino a raggiungere una radura dove pascolano alcuni tori e dove sono state preparate alcune “porte” fatte con pali di legno attraverso le quali dovrà passare il toro “principale” affinché la cerimonia vera e propria possa iniziare. Continuano i canti (direi meglio, le cantilene) e i balli in circolo delle donne e le richieste di frustate da parte delle ragazze, frustate che avvengono davanti agli occhi inorriditi di noi spettatori stranieri. Gli uomini che se ne sono stati in disparte ora si riuniscono in cerchio strettissimo, soffocante, alcuni sono sdraiati terra, si celebrano riti sconosciuti ed incomprensibili. Dopo che il toro “principale” è stato fatto attraversare, non senza fatica, attraverso la porta rituale gli altri bovini, molto riluttanti, vengono riuniti in fila spalla contro spalla. L’iniziando, molto giovane, completamente nudo, concentratissimo e forse anche emozionato, si sottopone agli ultimi riti preparatori. Finalmente la prova ha inizio, il giovane deve saltare in groppa al primo toro e camminare sul dorso di tutti i tori in fila senza cadere, il tutto tre volte in un senso e tre volte nel senso opposto.

All’ultima prova, il giovane Hamer ormai esausto, ha uno sbandamento e sembra cadere (i tori non stanno certo fermi infastiditi dall’uomo sulla schiena) c’è tra la folla un mormorio, quasi un urlo, di preoccupazione ed insieme di incitamento.

Il ragazzo riesce a reagire ed a superare la prova, grida di gioia e di approvazione da parte degli Hamer, mormorii e commenti ammirati da parte nostra : la prova è superata. La crudeltà del rito sta nel fatto che se la prova non viene superata il ragazzo non solo non potrà sposarsi ma addirittura verrà allontanato dalla comunità o comunque si porterà per la vita un marchio di infamia. Impressionati da quanto abbiamo visto é ormai sera quando rientriamo al Mango campsite di Turmi.

28 novembre

Una bellissima pista che si snoda tra verdi e dolci colline, la vista che si perde in lontani pianori di fitta boscaglia, ci porta a Kolcho, villaggio abitato dall’etnia Karo.

Il villaggio si trova in posizione molto panoramica a picco su un’ansa del fiume Omo, e i suoi abitanti sono famosi per le loro fantasiose pitture corporali, da molti considerate una vera forma d’arte. Ma qui, in questo villaggio, tappa evidentemente obbligata nei circuiti turistici, i Karo sono, se mai possibile, ancora più petulanti ed antipatici degli Arbore. Evidentemente nessuno ha insegnato loro l’arte di proporsi in modo decente (furbo se vogliamo) anzi lo sfruttamento e la vendita della propria immagine ai fini fotografici si avvicina molto ad una forma di prostituzione. Qualcuno dice che sono venuti qui fotografi professionisti che hanno elargito senza batter ciglio somme importanti per fare i loro servizi, dopodiché i capi-villaggio hanno pensato che ogni fotografo fosse come quei professionisti e che fosse normale chiedere compensi elevati. Capisco che l’economia di questi villaggi è magra ed è normale e forse giusto sfruttare le occasioni che si presentano, capisco anche che i turisti accorrono proprio per fotografare questi popoli “diversi” ma a tutto c’è un limite. E poi anch’io sono “diverso” o almeno mi ritengo tale e mi rifiuto di sottostare a questo andazzo e fatte un paio di foto me ne ritorno alla mia Toyota aspettando che gli altri completino il giro. Oltretutto, come ho detto a proposito degli Arbore, in genere le foto fatte in questi contesti difficilmente sono “buone”, le persone si mettono in posa, le discussioni coi i capetti non finiscono mai, i soggetti nel mentre che uno cerca di studiare l’inquadratura si moltiplicano improvvisamente davanti all’obbiettivo e le pretese economiche si duplicano, si triplicano etc. perché ogni persona pretende il suo personale compenso; per non dire dell’oggettiva difficoltà ad avere a disposizione molti birr di piccolo taglio (impossibile avere eventuali resti). Il tutto come è facile immaginare, a scapito della spontaneità delle foto. Se a ciò si aggiunge che per entrare e visitare il villaggio (niente di speciale) si pagano 500 birr a macchina si può capire il mio giramento di scatole. Ne parlo lamentandomi con Oneday ma dubito che mi abbia capito. Il mio discorso è senz’altro interessato ma sono certo che questo modo di fare alla lunga danneggerà loro stessi. Lasciato il villaggio Karo scendiamo in riva all’Omo dove grandi greggi vanno all’abbeverata e da qui raggiungiamo Key Afer dove è giornata di mercato per gli Hamer ed il loro cugini Banna (o Benna) che numerosissimi accorrono per offrire le loro mercanzie. Questo mercato è particolarmente interessante perchè qui si radunano le principali etnie della regione: oltre agli Hamer ed i Banna arrivano i Karo, i Borana, gli Arbore ed i Bume. Un bel asfalto ci conduce a Jinka che è la capitale di questa regione e qui ci fermiamo al Jinka Resort, un bell’ albergo vecchio stile, un po’ démodé, nel mezzo di un rigoglioso giardino. Ampie e comode stanze, ottima doccia. Unico appunto: una vita per mangiare qualcosa.

29 novembre

Giornata dura ma affascinante. Per raggiungere Arba Minch avevamo deciso di non fare la strada principale ora asfaltata ma di percorrere una pista individuata su Google Earth che attraversa varie catene di montagne. Imboccata la nostra pista cambia subito l'”ambiente”, gli abitanti sono meno “folkloristici” di quelli della valle dell’Omo, non hanno abiti di pelle, sono decisamente più piccoli, i lineamenti sono più aggraziati, sono contadini e non pastori, le donne, piccoline, si sobbarcano carichi impressionanti, abitano in belle capanne circolari dalla base solida col tetto di paglia molto ben curato. Mentre procediamo per la pista sempre più angusta Oneday viene a sapere che più avanti le piogge hanno causato danni tali da non poter procedere oltre e così, scortati e guidati da un intrepido motociclista, ci inerpichiamo per una impervia e strettissima pista che scavalca le incombenti montagne e sbuca nell’altro versante dove una ripida stradina da percorrere con molta cautela ci porta sul fondo di un’ampia vallata. E’ tutto molto verde e coltivato e la gente che si incontra, di etnia Gamo, è estremamente cordiale ed allegra. Quando incrociamo gruppi di bambini lo schiamazzo gioioso è incredibile. All’altezza del villaggio di Felegeneway si gira a destra e si cominciano a scavalcare montagne. Mi aspetto di sbucare, da un momento all’altro, sulla Rift Valley e di vedere i grandi laghi che stanno attorno ad Arba Minch. Si viaggia sempre sui 2700/2800 mt e si continua a scollinare, su e giu’ per montagne e valli. La pista è molto panoramica, veramente stupenda ma non finisce mai, di Arba Minch neanche l’ombra. La montagna è sempre più verde ed è incredibile vedere come i Gamo, sfruttando ogni pezzetto di terreno per quanto impervio, riescano a coltivare orzo e frumento che ora, quasi pronti per la mietitura, biondeggiano alla fredda brezza serale. E’ già pomeriggio abbastanza tardi quando Oneday, che è di etnia Gamo, ci fa fermare a Bonke, un villaggio dove vivono suoi parenti e ci conduce ad una caratteristica capanna.

Veniamo accolti festosamente: i parenti di Oneday ci mostrano il loro modo di vivere, in particolare come sfruttano l’ensete (il falso banano) da cui ricavano una specie di pasta con cui fanno un ottimo pan-focaccia che è il loro cibo principale . Dall’ensete ricavano anche fibre con cui fanno corde ed altro. Le capanne, fatte con le grandi foglie del falso banano hanno un’entrata particolarissima, una specie di patio bassissimo. L’interno completamente buio ha il focolare ed una specie di séparé, da una parte i letti per la famiglia e dall’altra gli animali. Mentre ci viene offerto il pan-focaccia di ensete appena sfornato per noi ed una non meglio identificata bevanda, affluiscono numerosi parenti e conoscenti che ci fanno una gran festa.

Purtroppo dobbiamo lasciare questi amici perché il sole ormai sta tramontando e stasera dobbiamo essere ad Arba Minch (e pure non immaginiamo minimamente quanto sia ancora lontana). Diventa buio e la pista è molto lenta, stretta, con frequenti piccoli guadi, ogni tanto ci sono deviazioni ed anche Oneday ha qualche difficoltà ad orientarsi. Siamo stanchi e col buio inevitabilmente dobbiamo procedere più lentamente; la pista ad un certo punto diventa una infernale bolgia perché c’è la solita strada in costruzione. Dopo tre ore di guida al buio, veramente stanchi arriviamo ad Arba Minch. E’ tardi ma prima di arrivare all’albergo ci fermiamo ad un ristorantino per riprendere forze mangiando riso e tilapia (il pesce più diffuso in queste zone). Poi di corsa al discreto Bekele Molla, con magnifica vista sui laghi per un più che meritato riposo.

30 novembre

Mio compleanno ! Gita in barca sul lago Chamo, col senno di poi la cosa meno interessante del viaggio. Pellicani e qualche raro coccodrillo e poi il lago ma niente di spettacolare. Ritorniamo all’albergo per grandi feste di addio a Oneday che ci deve lasciare perché richiamato a casa per le cattive condizioni di salute della suocera. Scambio di regali. Con noi ora ci sarà Mamush,un grassotto personaggio che io avevo già conosciuto nel mio primo viaggio da queste parti. Mamush Ciccio come viene immediatamente soprannominato si rivelerà un’ottima guida. Oneday è gentile e ottimo amico ma Mamush, professionalmente parlando è di un altro pianeta.

Lasciamo Arba per dirigerci a Nord, attraversare l’Omo sull’unico ponte esistente e visitare la vasta regione pochissimo conosciuta che sta ad Ovest del fiume. Fatti pochissimi kilometri rimango di colpo senza freni, avviso immediatamente Mamush col mio telefono con sim etiope e procedo con terror-panico fino a Sodo, distante un centinaio di kilometri. Pigiando disperatamente sul pedale riesco ad ottenere qualcosa che vagamente somiglia ad una frenata. A Sodo una officina tutto fare smonta i freni posteriori dove un cilindretto si è rotto facendo perdere olio e pressione al circuito frenante. Sostituiscono il cilindretto rotto e cambiano i ferodi delle ganasce posteriori ridotti ormai a zero. La Toyota ora frena anche se non è più come prima, la corsa del pedale è molto lunga (a poco è servito spurgare ben bene il circuito) e la frenata non proprio brillante. Finita la riparazione ormai è buio, ci fermiamo ad un Bekele Molla (albergo della stessa catena di ieri sera).

01 dicembre

Compleanno di Rosalba! Lasciamo Sodo e puntiamo verso Ovest attraversando l’acrocoro etiope, montagne e montagne ricoperte di rada boscaglia, arida e piuttosto brulla. Inizialmente troviamo uno sterrato molto polveroso percorso da lentissimi camion che portano materiale al cantiere dove è in costruzione la diga (anzi tre) che tanta preoccupazione genera per l’impatto ambientale che inevitabilmente avrà sulle numerose etnie che popolano la zona e che dipendono dal fiume Omo (e sull’equilibrio del lago Turkana che viene alimentato dallo stesso fiume).

Attraversiamo l’Omo sul ponte di ferro e proseguiamo attraverso belle montagne contando di arrivare per sera a Mizan Teferi, riguadagnando cosi una giornata di ritardo che abbiamo sul nostro programma.

Arrivati al paese di Abba Kella (Chida secondo T4Africa) Mamush viene a sapere che lo sterrato che avremmo dovuto percorrere non è transitabile a causa dei lavori per la costruzione di una nuova strada. Non dovrebbe essere un grosso problema perché pur percorrendo due cateti in luogo dell’ipotenusa di un triangolo, a Jima dovremmo incontrare l’asfalto che ci velocizzerà il raggiungimento di Mizan Teferi. Porco cane, non sarà proprio così! A Jima in effetti troviamo un bell’asfalto che ci fa attraversare una regione di belle foreste dagli enormi alberi ma, dopo Bonga dove pure buco una gomma a sole ormai tramontato, guidiamo nel buio per una strada letteralmente massacrata da devastanti piogge e da grandi lavori che hanno letteralmente sventrato il percorso. Ale può essere un po’ più veloce di me avendo un mezzo più adatto a questo genere di percorso e ogni tanto mi deve aspettare. Dopo oltre due ore di guida in condizioni massacranti finalmente arriviamo a Mizan Tefery. Prendiamo alloggio in quello che sembra l’unico albergo decente di questa caotica e sporca cittadina, l’hotel Salayish. Speriamo in un ottima cena per recuperare un po’ di forze, per rilassarci dopo le lunghe ore di guida e soprattutto per festeggiare il compleanno di Rosalba, ma ormai la cucina è chiusa e dobbiamo accontentarci di una omelette; a questo punto pensiamo di tirar fuori comunque la bottiglia di champagne che avevamo segretamente e gelosamente tenuto in serbo per festeggiare Rosalba e che avevamo tenuto in fresco (si fa per dire!) con l’ottimo sistema della calza bagnata. Ma Rosalba ha avuto la stessa nostra idea ed è più svelta di noi e ci precede tirando fuori a sorpresa uno champagne per festeggiare lei e me. Per colmo ma mostrando una sorprendente comunità di intenti mentre noi abbiamo portato in regalo per lei una tecnologica lampada frontale, lei per me ha pensato ad un regale molto simile : una mini-lampada (ma molto efficiente) da portare all’orecchio. Pasteggiamo dunque a champagne rendendo così meno triste la nostra omelette. A questo punto decidiamo che la seconda bottiglia di champagne verrà scolata domani sera, non sarà poi un grosso sacrificio! Oggi abbiamo fatto la bellezza di 478 km. in quattordici ore di guida, quasi un record considerato lo stato delle piste.

02 dicembre

Per prima cosa facciamo riparare la gomma bucata ieri sera. Qui la gomma viene stallonata non a colpi di piccone come ad Omorate ma, incredibile a dirsi, con una vera macchina stallonatrice. Andiamo quindi all’ufficio del turismo per ottenere il permesso di entrare nella regione. Il permesso, pare, è una formalità necessaria ma l’ufficio è un disastro perché non ci sanno fornire alcuna informazione sulle piste che dovremo prendere di cui, confessano candidamente, non sanno nulla. Lasciamo Mizan Tefery con direzione Sud; si attraversano foreste dagli immensi alberi e poi a Bebeeka grandissime piantagioni di caffè i cui arbusti vengono coltivati nella foresta diradata in un misto di sole e ombra. Prendiamo una pista non segnata né sulle mappe né sul gps che, grosso modo, va dapprima verso Ovest per poi piegare a Sud seguendo parallelamente il confine col Sud Sudan. Purtroppo gli stupendi panorami e la foresta sono rovinati dai vasti incendi che i locali, cosi come usa in tutta l’Africa, appiccano nella foresta per ottenere pascoli, per rinnovare i terreni , causando però grossissimi danni all’ecosistema e con grave pericolo per gli animali selvatici e non. A Dima, ultimo paesotto prima del nulla, facciamo riparare la gomma che Ale ha bucato qualche ora addietro e da qui, seguendo le precise indicazioni ricevute dai locali, ci dirigiamo verso Tulgit in pieno territorio Surma. Quest’etnia di pastori che nomadizzano nel bush è nota per la sua fiera bellezza e per il piatto labiale portato dalle donne, oltre che per la cruenta cerimonia di iniziazione del Donga (battaglia con lunghi bastoni che non di rado si conclude con la morte del perdente). Aspettiamo con curiosità l’incontro con loro, augurandoci in cuor nostro che l’approccio non sia così problematico come coi Mursi, loro antipatici cugini che stanno dall’altra parte dell’Omo o come coi Karo di cui ho detto. Confidiamo nel fatto che questa regione praticamente non conosce il turismo (coi relativi guasti). Il primo incontro con un Surma è in qualche modo shoccante per un’altra ragione : lungo la pista incrociamo un giovane Surma, alto, bellissimo, fieramente appoggiato al suo lungo bastone e…………assolutamente nudo! Più avanti troviamo altri ragazzi più giovani, anch’essi nudi ornati in vita solo da una sottile fila di perline. Arriviamo che ormai è tardo pomeriggio a Tulgit che mi immaginavo fosse un villaggio importante, essendo conosciuto come centro dei Surma. Invece è un posto di polizia, una missione cristiana e poche sparse capanne. In una specie di radura sono radunati molti Surma cinti solo da una coperta a proteggerli dal freddo notturno (al solito siamo in altura), sono tutti incuriositi ed affabili. Qui ogni tanto qualche turista arriva (in questo momento ce ne è uno!) ma nessuno ci arriva coi propri mezzi e quindi siamo oggetto della curiosità generale. Veniamo ospitati con cortesia ed allegria dal locale posto di polizia e qui facciamo campo.

3 dicembre

Scortati da una guida-interprete locale ci incamminiamo tra le coltivazioni di miglio e sorgo per visitare un villaggio Surma, un paio di capanne ed un albero delle riunioni. Siamo alquanto sorpresi perché di solito i villaggi, anche i più piccoli, sono costituiti da diverse capanne. La guida ci spiega che i Surma vivono così, in capanne sparse nella foresta. Sinceramente non saprei dire se ciò sia vero o se non avessero voglia di avere estranei tra i piedi ma effettivamente in questa zona non ho visto insediamenti definibili “villaggio”. Per cercare di evitare le solite discussioni e le estenuanti trattative per fotografare, qui abbiamo proposto alla guida ed al capo-villaggio un sistema che abbiamo imparato dal capo di El-Molo, villaggio di pescatori sul lago Turkana. Il sistema consiste nel concordare preventivamente col capo-villaggio una somma forfettaria per girare e fotografare liberamente senza limiti e/o petulanti richieste. Per loro è una novità assoluta e dopo un’iniziale titubanza e diffidenza il “contratto” viene stipulato e finalmente possiamo fotografare liberamente senza assilli e strepiti.

Lasciamo Tulgit salendo le montagne che la contornano e scendiamo a Surma Kibishi che è la capitale dei Surma (questo sì che appare un agglomerato di una certa importanza). Qui veniamo a sapere che la pista, che in pochi kilometri dovrebbe portarci a Maji sulla strada che da Mizan Teferi scende a Sud per terminare all’Omo all’altezza di Omorate, non è percorribile perché distrutta dalle piogge (ma a novembre che piogge ci sono state ?). Ci viene indicata una pista che presto diventa solo una traccia in molti punti praticamente invisibile e sicuramente da tempo pochissimo utilizzata od addirittura non utilizzata. Questa pista scende a Sud parallela al Sud Sudan che dista, in linea d’aria, una trentina di kilometri. Ci troviamo in un’Africa meravigliosa e primordiale, spazi senza confini, colline e colline di boscaglia che ammiriamo con stupore. Mancano solo gli animali che sicuramente in passato abbondavano, ora notiamo solo delle fatte di elefante non molto recenti ma comunque di questa stagione. Procediamo per questa pista con un filo di ansia perché sono ore che non incontriamo né persone né animali e la pista è sempre più incerta. Finalmente, superate colline e montagne, arriviamo in una zona pianeggiante, piuttosto brulla e polverosa, dove incrociamo diversi villaggi abitati da Dassanech. E’ ormai tempo di fare campo, cerchiamo di fermarci presso una scuola cristiana che però non può ospitarci. Per fortuna qualcuno incontrato sulla pista ci suggerisce di andare al posto militare di Kibbish. Questo avamposto protegge il confine Etiopico dal vicinissimo………….cosa? Secondo la carta geografica confiniamo col Sud Sudan, secondo i militari invece sull’altra sponda del fiumiciattolo c’è il Kenya. In effetti al di là di un piccolo corso d’acqua c’è il cosiddetto Triangolo di Ilemi, una regione amministrata dal Kenya ma rivendicata dal Sudan. Siamo ospitati molto cordialmente e dopo le fatiche della lunga giornata con gran goduria ci facciamo una graditissima doccia con l’acqua pompataci addosso da gentili militari. Il comandante ci invita l’indomani mattina ad andare insieme ad una loro camionetta ai vicini villaggi Nyangaton lungo l’Omo che giusto avevamo intenzione di visitare. Il comandante dice di essere pronti per le 7 di domattina.

4 dicembre

Sveglia prima del solito e niente prima colazione per essere pronti alle 7. Ma siamo in Africa e la puntualità anche tra i militari è solo uno stupido retaggio del mondo occidentale. Così, dopo aver aspettato per un bel po’, ce ne andiamo da soli verso i villaggi che avevo individuato su Google Earth e di cui avevo preso i punti. Siamo appena partiti che mi si accendono improvvisamente un po’ di spie sul cruscotto ad indicare che qualcosa non va. Con Ale, che se ne intende un po’ più di me, decidiamo che le spie indicano che l’alternatore non carica più le batterie. Siamo in mezzo al nulla assoluto e nessuna riparazione sarà possibile per molto tempo. Sono quindi costretto a staccare gps, computer e a limitare al massimo l’uso dei vetri elettrici. Per fortuna pare che la Toyota HJ61 non abbia alcun componente elettrico necessario perché il motore funzioni, nemmeno la pompa del gasolio. D’ora in avanti, per metterla in moto, dovrò fermarmi solo dove ci sia un po’ di pendenza oppure farmi spingere. Per mia fortuna questo motore, che ha sul groppo oltre 300.000 kilometri e venticinque anni di vita, richiede anche a freddo una spinta minima per accendersi. E’ comunque un guasto che, chiaramente, non mi lascia tranquillo; anche il non poter usare i vetri elettrici è un bel problema perché fa molto caldo (38/39° di giorno) e in macchina si soffoca. Comunque al momento c’è poco da fare se non andare avanti. E così arriviamo al grosso villaggio di Kangaten sull’Omo dove prendiamo la guida (obbligatoria, pare) per visitare Lokatapan un bel villaggione poco distante, abitato dall’etnia Nyangaton. Anche qui, dopo qualche faticosa trattativa per l’inedita proposta, trattiamo coi capi-villaggio il pagamento forfettario dei “diritti di immagine” e cosi possiamo fotografare con soddisfazione in lungo ed in largo a nostro piacimento (si paga comunque anche qui un “diritto di ingresso” nel villaggio).

Raggiungiamo quindi il traghetto (uno scalcinato ponton) che ci porterà ad Omorate attraversando l’Omo. Per traghettare, saranno poco più di cento metri di fiume, dobbiamo pagare uno sproposito: 270 euro a macchina, quando amici alcuni mesi fa pagarono 200 $ a macchina. Cerchiamo di trattare il prezzo ma non c’è niente da fare, o si paga o si sta dall’altra parte del fiume. Evidentemente se ne approfittano perché per un migliaio di kilometri non c’è possibilità di attraversare il fiume e poi evidentemente cercano di massimizzare i guadagni perché fra non molto sarà operativo il nuovo ponte ed il loro business sarà finito. Ma prima di imbarcare le macchine noi drivers dobbiamo attraversare il fiume con una barchetta per andare all’immigrazione di Omorate per ottenere il “permesso” di traghettare le macchine, cosa abbastanza incomprensibile visto che siamo in Etiopia e proveniamo dall’Etiopia. Attraversato infine l’Omo, per raggiungere la frontiera di Moyale dobbiamo transitare ancora per Turmi, Dimeka e Key Afer. Da qui, visto che c’è asfalto, decidiamo di raggiungere Konso per ricuperare un po’ di tempo visto che siamo un po’ tirati e Martino, che rientra qualche giorno prima di noi, ha l’aereo fra tre giorni a Nairobi. Ben presto però siamo sorpresi dal buio ed io devo procedere senza fari attaccato al sedere di Ale. Non è per niente divertente anche se il traffico è limitatissimo. Tutti dicono, giustamente, di non guidare di notte in Africa, guidare senza fari poi! Martino ex rallista con un torcia cerca di indicarmi il ciglio della strada…meglio che niente. Dopo un paio d’ore di sofferenza e tensione finalmente arriviamo a Konso e la nostra fatica è premiata. Alloggiamo infatti al bellissimo e nuovissimo Kanta Lodge, una rivisitazione in chiave moderna, comoda e lussuosa, delle caratteristiche capanne dei Konso, l’etnia che abita in questa zona. Una bella doccia, una zuppa di lenticchie e una buona cena sono un meritato premio. Per la tensione accumulata però stento a prendere sonno, una cosa inedita per me che vengo preso in giro (non sarà sana invidia?) perché normalmente mi addormento nel giro di tre secondi.

5 dicembre

Da Konso ci dirigiamo verso Yabelo, sulla strada nazionale che conduce alla frontiera di Moyale. Una bella pista che avevo già fatto in condizioni ben peggiori per le piogge; ora la stagione è secca e non ci sono impegnativi guadi come allora. Inizialmente il paesaggio è un po’ monotono per poi rianimarsi, grandi acacie, enormi termitai rossi, tappeto verdissimo alla base. Si supera un passo al di là del quale c’è un paesaggio quasi alpino, strane conifere, mandrie che pascolano in verdi prati. Arriviamo a Yabelo dove inizia l’asfalto che ci porterà alla frontiera. Mamush mi dice che qui ci sono dei somali molto bravi come elettrauto che potrebbero riparare l’alternatore. Ci fermiamo ed il meccanico somalo , ascoltato il probabile guasto, dice che in un’ora sarà in grado di farci ripartire. In realtà ci vorrà molto più tempo per smontare l’alternatore e constatare che la rottura riguarda un componente (l’interruttore di minima?) di cui non c’è ricambio. Viene quindi rimontato l’alternatore, la situazione rimane identica a prima, niente ricarica alle batterie. Perse tre ore per niente. Sempre partenze a spinta o in discesa e niente accessori in funzione. Ripartiamo e andiamo a vedere El Sod un cratere vulcanico con in fondo un laghetto di nere acque da cui i locali estraggono un prezioso sale. Ero già stato da queste parti con Rosalba nel 2008 e oggi devo constatare che da allora molte cose sono cambiate. Ora si paga anche per respirare. Si paga per entrare nel paese, si paga per parcheggiare, si paga per scendere nel cratere e si paga anche per ….non scendere (infatti se non si scende viene comunque preteso un obolo per la locale associazione delle guide!). A questo punto, già nervoso per i problemi alla Toyota, mi prendo una solenne incazzatura per questo modo di fare e comincio a urlare con l’ultimo esoso esattore e me ne torno, schifato, alla mia macchina. Mamush che ha capito perfettamente la situazione, il mio nervosismo e le assurde richieste dei locali, interviene facendo presente che è la seconda volta che vengo da queste parti portando gente e che dovrebbero essermi grati. Incredibilmente ottengo l’esenzione dai tributi pretesi!! Poi, più calmo, ricordo a me stesso che comunque siamo in Africa e chiedo scusa a Mamush (ma solo a lui!). Ritorniamo sulla statale, superiamo su un bel colle panoramico le rovine di un fortino italiano risalente al periodo coloniale, ultimo avamposto prima del Kenya, ed arriviamo a Mega che è un centro abbastanza grosso e dove contiamo di trovare una buona sistemazione per la notte. Invece la stamberga, unica sistemazione che troviamo, ha delle camere orrende mentre il cesso è quanto di più orribile (con enormi scarafaggi che emergono dal buco) si possa immaginare. L’ho fotografato a mo’ di documento ma ci vorrebbe anche un memorizzatore di effluvi per rendere meglio l’idea di quel posto. Sistemiamo le macchine presso il posto di polizia e a parziale compenso per l’orrenda sistemazione mangiamo ottimamente in un localino molto africano e animatissimo. La notte invece sarà un inferno dovendo dormire insieme a Carlo in un letto da una piazza e mezzo, che per di più ha una specie di conca proprio nel mezzo.

06 dicembre

Raggiungiamo velocemente Moyale posto di frontiera col Kenya. Alcune voci ci dicono che al di là del confine ci sono disordini, immagino si tratti di qualcosa simile ai nostri scioperi. Andiamo all’immigrazione per iniziare le pratiche di uscita dall’Etiopia ma veniamo cortesemente invitati ad aspettare perché manca l’elettricità e i computer non funzionano e quindi non si possono fare le formalità di uscita. Sul momento siamo solo sorpresi perché nessun computer ha registrato la nostra entrata nel paese e si tratterebbe di mettere solo un timbro sul passaporto. Africanamente pazienti aspettiamo, mentre le voci di problemi in Kenya si intensificano. Stiamo bevendo qualcosa di fresco ad una specie di bar quando cominciamo a sentire distintamente vivaci scoppi di mortaretti come ad una festa di paese nel Sud d’Italia, anzi no sono chiaramente scariche di armi automatiche, kalashnikov. Una pausa di qualche minuto ed ancora intense scariche. Amici più esperti di me stimano che gli spari avvengano a circa un kilometro e mezzo da noi. Ci guardiamo in faccia e decidiamo all’istante : se anche gli scontri cruenti dovessero cessare presto, la situazione non può tornare sufficientemente tranquilla in pochi giorni. Decidiamo di girare i tacchi e tornare ad Ileret, unica frontiera possibile col Kenya. Nemmeno a pensare di utilizzare quelle pericolosissime verso la Somalia. Questa scelta, obbligata, significa per Martino, che era previsto rientrasse anticipatamente, perdere l’aereo a Nairobi e per noi fare un lunghissimo giro per rientrare dal lago Turkana, uno scherzo di ben 1177 km di piste insidiose per raggiungere Laisamis (sulla statale per Nairobi) che dalla frontiera avremmo raggiunto dopo 342 km di strada sterrata. Ma tant’è, non c’è scelta. Certo dovremo correre perché, anche senza eventuali contrattempi, il tempo per il rientro è piuttosto tirato e la mia macchina non è nelle condizioni ideali per fare tappe forzate (qualche giorno fa ho perso anche la parte terminale della marmitta). Riprendiamo i nostri passaporti dall’immigrazione (ove realizziamo che i computer funzionano perfettamente e quindi la mancanza di elettricità era una balla colossale per non dire che di fatto la frontiera era chiusa), riprendiamo a bordo Mamush che non ci aveva ancora lasciato e ritorniamo sulle strade e piste appena percorse i giorni precedenti. Durante il tragitto Martino giustamente decide di lasciarci perché rientrando via Addis Abeba sicuramente guadagna un paio di giorni rispetto al rientro con noi via Nairobi. Mamush dimostra ancor più la sua efficienza e durante il viaggio organizza per Martino il rientro via Addis Abeba. Ancora tutti insieme superata Yabelo a sera siamo ancora a Konso, ancora al bellissimo e confortevole Kanta Lodge.

07 dicembre

All’alba Martino e Mamush ci lasciano, mentre noi ripassiamo da Key Afer, Dimeka, Turmi (che ormai conosciamo a memoria per averlo attraversato ormai innumerevoli volte), Omorate dove ci fermiamo al solito bar. Qui ormai siamo di casa e veniamo festeggiati come vecchi amici. Quindi alla dogana e all’immigrazione, dove ci rivedono con una certa meraviglia, per le rapidissime formalità di uscita. Imbocchiamo quindi la pista per Ileret. Anche al solito posto di polizia ci accolgono con una certa sorpresa anche se hanno saputo dei disordini di Moyale. Sempre cortesissimi ci rilasciano un lungo papiro che attesta la nostra impossibilità di varcare la frontiera di Moyale ed il nostro reingresso legale in Kenya. Dopo Ileret prendiamo la bella pista che aggira il Parco Nazionale Sibiloi. Gli scorci paesaggistici sono molto interessanti ma non possiamo fermarci neanche un po’ perché il tempo ci è tiranno. Al tramonto decidiamo di fare campo e per sicurezza, anche se siamo lontani da ogni insediamento umano, ci allontaniamo dalla pista andando ad infrattarci in una conca abbastanza profonda pensando di essere al riparo da ogni eventuale intruso. Invece….come spesso capita in Africa dal nulla sbucano una decina di piumati Dassanech tutti belli armati di kalashnikov che si accucciano avanti alla nostra tavola imbandita osservandoci in silenzio. Rosalba è alquanto preoccupata che ci facciano “la festa” e non mi crede molto quando le dico che se avessero avuto cattive intenzioni non avrebbero perso tempo e ci avrebbero……”fatto” subito! Infatti non ci disturbano e dopo averci a lungo osservato, mangiato la pasta da noi offerta, averci chiesto un compenso per le foto fatte e preteso gli immancabili regali, se ne vanno (ma dove mai andranno ?) nella notte.

08 dicembre

Il tempo stringe e così leviamo il campo molto presto. La pista che aggira il parco è molto lenta ma piacevolmente “sahariana”, mi ricorda in molti punti le leggendarie piste algerine. Ogni tanto si incontrano branchetti di babbuini e qualche gazzella e gente Turkana con le loro greggi. Pur non fermandoci mai, nella mattinata facciamo pochi kilometri a causa della pista lentissima e poco tracciata. Sappiamo che il lago Turkana è vicino ma lo incontriamo solo nel primo pomeriggio. Fa molto caldo e, malgrado una incombente infezione ad una gamba per una piccola abrasione non ben curata, la tentazione per un bel bagno è irresistibile. La pista sempre lenta e appena segnata segue il lago, lo spettacolo cambia in continuazione, annoiarsi è impossibile sia perché la guida richiede molta attenzione sia perché il paesaggio è entusiasmante. Dapprima grandi spiagge bianche con centinaia, migliaia forse, di fenicotteri, incredibile e sorprendente il sincronismo con cui si muovono ricercando il cibo nelle basse acque.

Poi avvicinandoci a Loyangalani la costa si fa rocciosa, piccole isole rocciose punteggiano il lago, prima villaggi di gente Turkana, poi su strisce di terra che si allungano nel lago, villaggi di pescatori El Molo, un’etnia formata da pochissimi individui che parlano una lingua molto diversa da quella usata nella regione. E’ un’ etnia studiata dagli antropologi per la sua sorprendente specificità. Malgrado la mancanza di tempo non possiamo resistere a fare qualche foto, con molto rimpianto perché luoghi e persone meriterebbero ben altra attenzione e sopratutto tempo. A Loyangalani ci concediamo una rapida sosta per una bella coca cola ma subito via per la sassosa pista che per un po’ costeggia il lago; ancora bei villaggi, grandi acacie tra sassi neri, isole ed un paesaggio vulcanico primordiale che mi richiama alla mente (l’ho già detto in precedenti resoconti,mi ripeto, scusatemi) le amate isole Eolie. Siamo incantati ed entusiasti e ci ripromettiamo di tornare in questi luoghi dedicando loro il tempo che meritano (promesse di marinaio? speriamo di no!). Lasciato il lago si sale per una pista sassosa per raggiungere un altipiano via via sempre più verde. Acceleriamo un po’ il passo perché le meraviglie del lago ci hanno un po’ distratto e la strada è ancora tanta. Al tramonto siamo a South Horr e qui ci fermiamo all’ottimo Samburu Camp dove prendiamo delle comode bandas. Doccia per toglierci di dosso chili di polvere.

09 dicembre

South Horr, abitata dai Samburu, è una bellissima oasi con grandi acacie sotto le quali ora si stende un riposante tappeto verde, diversi torrenti scendono dalle montagne che la sovrastano, grandi letti di fiumi ora secchi la attraversano. Superata l’oasi di qualche kilometro prendiamo a sinistra la pista che corre grosso modo da Ovest ad Est lungo una grande vallata tra due catene di montagne, alcune molto alte e dall’aspetto vagamente dolomitico. Incontriamo molti pastori Samburu, alti, eleganti, molto pittoreschi e molto affabili a conferma che da queste parti non passano turisti. Bianche penne infilate in fasce coloratissime contornano la loro fronte. Diversi guadi e qualche passaggino impegnativo vivacizzano la guida. La bella pista finisce a Laisamis dove ritroviamo la strada che avremmo dovuto fare se la frontiera di Moyale non fosse stata chiusa. Tanto per soffrire ancora un po’ ci tocca una brutta tole ondulée fino al ponte sul fiume Merille dove inizia un magnifico asfalto che ci porterà fino a Nairobi ed oltre. Dopo giorni di piste l’asfalto viene accolto con sollievo da noi e sopratutto dalla vecchia Toyota, anche se in realtà l’asfalto ben presto stufa ed io, forse fin troppo rilassato, devo combattere col sonno. Ma col poco tempo che abbiamo la bella strada ci consente di macinare kilometri. Ripassiamo sotto il monte Kenya. Come le altre volte piove ed il monte è invisibile, avvolto dalle nuvole. Io sono sempre senza ricarica delle batterie e devo centellinare l’uso del tergicristallo, viene buio ed io sto appiccicato ad Ale con solo fioche luci di posizione accese. Non siamo lontani da Nairobi ed il traffico si fa intensissimo ed in queste condizioni sarebbe follia continuare. Per nostra (mia sopratutto) fortuna circa 25 km prima della cittadina di Thika troviamo l’ottimo Trotters Resort dove alloggiamo in belle stanze. Piove a dirotto.

10 dicembre

Poco dopo il nostro resort inizia l’autostrada per Nairobi con le sue demenziali strisce pedonali precedute da micidiali dossi rallentatori. L’approccio alla città è da incubo, la coda si forma a circa 10 km dalla capitale ed è da delirio, per guadagnare un paio di metri tutti, sopratutto i pulmini ed i mezzi di trasporto pubblico, guidano in modo folle. Finalmente raggiungiamo Nairobi dove Ale con fare da consumato tassista kenyota ci guida all’ufficio dell’immigrazione dove dobbiamo regolarizzare la nostra posizione di visitatori quasi clandestini, entrati senza visto. Malgrado la chiarissima lettera della polizia di Ileret ed il fatto che i “moti” di Moyale fossero conosciuti, l’ottenimento dei visti richiede oltre due ore di burocrazia, rimbalzati da una stanza all’altra dell’ufficio. Col visto finalmente in mano raggiungiamo la cittadina di Kitengela dove abita Leo, un piemontese dalle molteplici iniziative che si è trapiantato qui con la famiglia diventando cittadino kenyota. Da Leo, amico ed custode della macchina di Ale, lasciamo Carlo e Rosalba mentre Ale ed io proseguiamo per la non lontana Tanzania, tappa necessaria per rinnovare i nostri carnet in scadenza. Piove, a tratti anche molto forte, i miei tergicristalli sono sempre più fiacchi e devo procedere senza usarli fermandomi spesso per togliere con uno straccio un po’ d’acqua dal parabrezza. Il lato positivo della pioggia è che non fa il caldo opprimente di qualche ora addietro quando ormai senza cristalli elettrici ogni tanto per non soffocare dovevo guidare con la portiera un po’ aperta. Arriviamo alla frontiera con la Tanzania e terminate le formalità di uscita dal Kenya al momento di ripartire la Toyota, anche con l’aiuto di volenterosi spingitori non ne vuol sapere di andare in moto, defunta. Fantozzianamente al traino di Ale attraversiamo la frontiera e decidiamo di procedere così, rifiutando cortesemente l’offerta di aiuto di uno stuolo di improvvisati meccanici. Mancano 25 km al primo paese, Longido: non è per niente piacevole guidare senza servofreno e senza servosterzo con il costante pericolo di tamponare Ale. E’ ormai praticamente buio quando arriviamo a Longido. Dato che la Toyota finora è partita istantaneamente alla prima anche leggera spinta e poiché mi risulta che né il motore né la pompa del gasolio abbiano bisogno di elettricità per funzionare penso che il problema consista nell’intasamento di qualche filtro dovuto ad acqua o sporco nel gasolio e così una ventina di neri si infilano nel vano motore della mia macchina, smontano, soffiano, spurgano, avvitano e svitano (anzi il contrario). Alla fine del lavoro prova a spinta, il motore si avvia per una frazione di secondo e poi muore, sconforto generale !! A questo punto ad Ale viene una geniale idea : perché non telefoniamo all’amico Maurizio (Ferri, magico preparatore di fuoristrada di Milano)? Detto fatto. Maurizio ipotizza che il problema stia nell’elettrovalvola che chiude l’afflusso del gasolio quando si spegne il motore. Questa valvola per rimanere aperta richiede un minimo di energia elettrica. Maurizio consiglia di provare a ricaricare le batterie se possibile oppure tentare una complicata manovra con le batterie di Ale. Non si sa come, magie dell’Africa, troviamo un carica-batterie che a Milano diremmo di “Carlo Cudega” (non so se si scrive cosi) cioè antidiluviano. Mettiamo sotto carica le mie batterie ed andiamo a dormire, dopo aver mangiato dell’ottimo riso con tilapia e trovato due buone stanze al Beshas restaurant e Guest House di Longido. Andiamo a dormire senza la certezza che la diagnosi di Maurizio ed il conseguente rimedio siano quelli giusti. Nella notte, diluvio.

11 dicembre

Partirà, non partirà? dubbio amletico. Montate le batterie, aziono l’avviamento e la vecchia Toyota, bumm, va immediatamente in moto, comme il faut !! Ritorniamo verso il Kenya, piove, e chi se ne frega, i tergicristalli vanno! Il breve percorso verso la frontiera è movimentato da una enorme giraffa maschio che in mezzo alla strada, spaventata, fatica a trovare una via di scampo. All’uscita dalla Tanzania nessun problema mentre la dogana kenyota che ben ricorda la nostra ridicola uscita di ieri sera ci fa qualche storia sostenendo che la nostra uscita/entrata fosse finalizzata solo per rinnovare i vari permessi. Blandamente neghiamo l’evidenza ed il funzionario, che ci pareva alquanto burbero, dopo averci detto che eravamo passibili di una multa ci fa entrare senza dover corrispondere alcun extra. Arriviamo quindi a Kitengela da Leo che ci offre un ottimo pasto “italiano” e mi mette in contatto con un suo esperto meccanico che si occuperà di aggiustare, oggi stesso se troverà il ricambio,l’alternatore. In realtà il pezzo non si trova ed io riparto (ancora a spinta) per Nairobi con l’alternatore sempre rotto. Lascio la Toyota dal fido Eugenio dopo oltre 5.500 km di viaggio. Stanotte, anzi domattina alle 4.45 si parte. Per non approfittare troppo della cortesia e ospitalità di Eugenio verso le 22 ci facciamo portare al vicino aeroporto di Nairobi in attesa dell’imbarco.

12 dicembre 2013

Inizia uno snervante viaggio di ritorno, il volo delle 04.45 viene dapprima spostato alle 7 e poi alle 8, per una tempesta di neve, veniamo a sapere, su Istanbul nostro scalo. Alle 8 ci imbarcano ma poi stiamo in aereo per oltre un’ora e mezza in attesa di poter partire. Io sono abbastanza in crisi , la mia infezione è progredita e la gamba si è gonfiata un bel po’ ed un viaggio tanto disagevole non è il massimo. Ad Istanbul per fortuna l’agibilità dell’aeroporto è stata ripristinata e quindi possiamo poi volare in orario su Milano. Non nevica né piove, ma che freddo!

P.S. ho disegnato una cartina, scusatemi per il mio stile elementare, con le località più significative visitate. Le proporzioni, le distanze etc. sono completamente sballate ma lo schizzo serve a far capire (almeno così mi auguro) di cosa parlo e dove più o meno si trova una certa località. Con alcune guide che hanno un taglio più culturale che pratico (Polaris per non far nomi) ho fatto fatica a capire dove si trovavano località che suscitavano il mio interesse. Con questo disegno spero di essere stato utile.

 

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