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Matmata la guelta dei fossili viventi

– Posted in: Africa Occidentale, Resoconti di viaggio

MATMATA, la guelta dei fossili viventi

di Gian Casati

 

Molti sahariani hanno sentito parlare di coccodrilli nel deserto.

A tutti viene in mente la celebrata guelta di Archei che si trova in Ciad, nella regione dell’Ennedi, dove pochi fortunati hanno potuto vedere i famosi coccodrilli.

Io stesso, nei primi anni 90 del secolo scorso, sono stato da quelle parti.

Seguendo un impervio sentiero ho potuto ammirare dall’alto la spettacolare guelta. Ho visto chiare tracce sulla sabbia, ho visto le loro fatte (gli escrementi) ma dei timidi coccodrilli neanche l’ombra.

Pur essendo un discreto conoscitore di cose sahariane non avevo mai sentito parlare di coccodrilli nel deserto mauritano e credo di non sbagliare dicendo che ben pochi sanno dell’esistenza nel deserto mauritano di questa fauna residuale.

Il deserto del Sahara “nasce” proprio in Mauritania dalle sponde dell’oceano Atlantico e si spegne in Egitto e Sudan sulle rive del Mar Rosso, più di 5300 kilometri di sabbia e rare forme di vita (per non dire cretinate ho cercato su Internet la larghezza del Sahara ma ho trovato notizie contrastanti, tra i 4000 ed i 5000 km. Ho così preso la briga di misurare con Google Earth: appunto oltre 5300 kilometri).

Le pitture rupestri ed i graffiti lasciatici dagli antichi abitatori di queste terre ci parlano di animali selvatici, di elefanti, di giraffe, di antilopi, di struzzi, di coccodrilli.

Il Sahara era dunque una enorme regione verde con laghi, fiumi, foreste, praterie, villaggi, uomini ed animali.

Gli scienziati dicono che ciò avveniva circa tra tredicimila e diecimila anni fa, in quel periodo protostorico chiamato Pleistocene.

Nei millenni successivi a poco a poco il clima inaridì, gli animali migrarono in cerca di habitat vivibili, gli umani fecero altrettanto e non rimase che il deserto.

Le sabbie e le pietraie presero il sopravvento, pochissimi animali si adattarono alle nuove dure condizioni, la maggior parte migrò o si estinse.

Ma vi furono animali che rimasero intrappolati in ambienti particolari e sopravvissero nei millenni.

I coccodrilli furono tra questi, autentici fossili viventi e nella guelta di Matmata, nel cuore del deserto mauritano ne abbiamo contati ben 13 (forse 14).

Con un fidato gruppo di amici “africani” abbiamo visitato questa guelta tra febbraio e marzo del 2019 durante un bel giro nel deserto della Mauritania.

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Avevamo lasciato i nostri fuoristrada a Nouakchott ad ottobre 2018 dopo un viaggio nell’Adrar e relativi luoghi relativamente più conosciuti dal raro turismo mauritano.

Siamo tornati a fine inverno 2018/19 per un nuovo e più impegnativo viaggio il cui primo obiettivo fu la guelta di Matmata.

Lasciamo Nouakchott, città squallida come poche altre al mondo, traffico non particolarmente intenso (non paragonabile a capitali come Lusaka, Nairobi per non parlare del Cairo) ma assolutamente caotico ed indisciplinato.

Si passa col rosso, si entra contromano in strade a doppia corsia, si gira senza freccia per imboccare sensi unici e via di questo passo. In verità avrei dovuto usare il plurale (passano, girano etc.) perché queste costanti abitudini sono impunite per i locali. Se uno di noi (è capitato, vero nonno Gus?) si comporta in modo quasi uguale viene immediatamente fermato e multato.

Lasciamo dunque Nouakchott e su asfalto, a tratti buono a tratti solcato da voragini, imbocchiamo l’unica importante strada del Paese, quella che porta verso il Mali, per raggiungere Sangarafa, ridente località paradiso dei turisti (non credeteci, la spazzatura invade ogni dove e lo squallore di cadenti abitazioni sono pari a quelle del mercato che si sviluppa lungo la strada percorsa da improbabili e fumosissimi  mezzi che da noi non verrebbero presi in considerazione nemmeno da uno sfasciacarrozze).

Si prosegue per Nord- Est fino a Nbeika, 500 km circa dalla capitale, dove facciamo un super pieno di gasolio; qui finisce l’asfalto e si imbocca la pista che porta a Matmata, la guelta dei coccodrilli.

Dapprima verdi giardini (si chiamano così ma sono più o meno stente coltivazioni) poi sabbia e acacie poi pista che si confonde tra le rocce.

Facciamo campo in un ampio oued contornato da roccioni scuri con inquietanti tracce di passate alluvioni.

Al mattino breve passeggiata su questi roccioni che improvvisamente finiscono con un profondo salto a picco su una grande guelta dall’aspetto limaccioso.

Sulle rive sabbiose vediamo diversi coccodrilli che si crogiolano al sole nascente mentre altri nuotano pigramente nel lago. Ne contiamo distintamente tredici, forse quattordici.

Ci chiediamo come facciano a sopravvivere; la guelta non ha affluenti, lontana da insediamenti umani, molto difficilmente passeranno da queste parti animali domestici da poter catturare, gli animali selvatici, piccoli roditori, forse lepri (che altro può esserci da queste parti?) penso siano più che rari.

Pesci sicuramente ce ne saranno ma non credo proprio si possano riprodurre in modo da poter soddisfare la fame di tredici/quattordici coccodrilli.

Eppure questi rettili acquatici hanno resistito in queste condizioni per oltre diecimila anni.

Rimane il mistero di come abbiano fatto, mistero che è anche il fascino di questo posto ancestrale.

Ritorniamo a Nbeika per raggiungere, dopo un po’ di asfalto, la pista che raggiunge el Gheddiya, sperduta cittadina situata sull’altipiano che sovrasta la vastissima regione sabbiosa chiamata Aouker (o Aoukar).

El Gheddiya è una specie di ultima frontiera, dopo c’è solo deserto, cammelli e sabbia, sabbia e cammelli.

Ma per conquistare l’Aouker bisogna scendere dall’aspro altipiano roccioso attraverso un unico varco: il passo di Nega.

Divenuto famosissimo tra i sahariani perchè qui in una delle prime edizioni della Parigi-Dakar vi fu una spietata selezione tra i concorrenti.

Non tanto per difficoltà tecniche (come io avevo sempre creduto) ma per difficoltà di orientamento; infatti o si trova il passaggio giusto oppure si rimane sull’altipiano. Affrontato in discesa, come abbiamo fatto noi, il passo non presenta nessuna difficoltà ma anche nel senso opposto, cioè in salita, non mi pare un terreno particolarmente impegnativo, certo bisogna saper individuare il passaggio e se non ci sono tracce di recenti passaggi può essere un problema.

Nel nostro caso ci ha preceduto un pick up Toyota di locali che trasportavano nel cassone, già di suo stipato all’inverosimile, anche due poveri cammelli accucciati e legati come salami.Avevamo trovato questo pick up al pozzo prima del passo dove avevamo fatto rifornimento di acqua e l’abbiamo ritrovato diverse ore dopo ad un Oumm el Khezz, coi poveri cammelli sempre nella stessa posizione.

Il paesaggio che ci accoglie al passo di Nega è veramente spettacolare, imponenti montagne di sabbia per 360 gradi.

A parte le tracce del pick-up nessun segno di vita.

Unica nota negativa: una luce piatta e lattiginosa.

Raggiunta la pianura, uno spettacolo raro, indimenticabile ed assolutamente inaspettato: un piccolo nucleo di nomadi in transumanza. Sui cammelli tutti i loro averi stipati in una specie di baldacchino il cui scheletro è formato da quattro pali di legno durissimo (acacia?) che sostengono altri pali incrociati a formare una gabbia dove i nomadi mettono le loro poche ma essenziali cose, tappeti, tende, pentole, vestiti e poco altro.

Siamo tutti incuriositi perché nel corso del precedente viaggio nel Adrar mauritano avevamo trovato questi pali in vendita nelle rarissime località per turisti e più o meno ne avevamo compreso la funzione ma pensavamo che ormai fossero oggetti di antiquariato.

Vederli dal vivo in questi “baldacchini da transumanza” è stato veramente eccitante. Una vecchia conduceva, a piedi, ça va sans dir, un cammello (lo so, in realtà dovrei dire un dromedario ma in tutto il Sahara questo quadrupede è universalmente chiamato cammello!) che procedeva carico del suo baldacchino con la caratteristica andatura altezzosa, dietro la vecchia altri cammelli, mentre giovani uomini conducevano greggi di caprette, altri di pecore ed altri ancora di cammelli.

Questi nomadi hanno sopportato il nostro assalto fotografico con grande cordialità ed allegria accettando di essere ripresi senza alcun problema.

Del resto in più occasioni abbiamo avuto modo di sperimentare l’ospitalità mauritana, i nomadi ci hanno accolto nelle loro tende, ci hanno offerto l’immancabile tradizionale thè, ci hanno addirittura fatto doni, loro che praticamente non possiedono nulla.

Peccato non poter stare insieme più tempo, ma loro non possono certo interrompere la transumanza per dare retta a noi ed anche noi abbiamo molta strada da fare e non possiamo fermarci più di tanto.

Il contatto con la gente del posto è stato uno degli aspetti più interessanti del viaggio e ciò è stato possibile grazie alla vera passione che Fabrizio (il capo spedizione) nutre per questa gente e per i nomadi in particolare ed anche grazie al cuoco ed un autista mauritani il cui aiuto è stato fondamentale per stabilire i contatti, sopratutto per la difficoltà di comunicare.

E grazie anche a Camilla che per passione studia l’arabo che ci ha reso partecipi delle notizie che scambiava coi nostri ospiti, stupiti di incontrare una turista che parlava la loro lingua.

Proseguiamo seguendo l’incerta pista, confortati di essere nella giusta direzione dalla conferma sul terreno della correttezza della rotta e dei punti che avevamo studiato su Google Earth.

Spesso Alessandro, dalle doti non comuni di orientamento e di interpretazione del terreno, precede il gruppetto di sei mezzi mentre io quasi sempre faccio da scopa. Ad Oumm el Khezz, piccola sperduta oasi con giardini verdeggianti, puntiamo per nord-est per raggiungere Tamchekket, vivace cittadina dove, tra la curiosità della gente, girovaghiamo a piedi nei vicoli del mercato sperando in qualche originale souvenir ma da qui non passa proprio nessuno e la piazza offre solo cose necessarie a chi (soprav)vive in queste sperdute lande.

Pochi kilometri e siamo ad Aoudaghost, importante centro commerciale nel IX secolo, tappa per le carovane transahariane fino all’XI secolo.

Oggi non rimangono che scarse rovine e bisogna fare un atto di fede per credere al suo passato splendore.

Lasciamo il sito e puntiamo a sud-est per raggiungere Ayoun el Atrous, buona pista tra colline sabbiose, acacie e belle rocce.

Carlo ed io siamo ultimi, ci fermiamo per fare qualche foto e perdiamo il gruppo; per fortuna le nostre radio sono abbastanza potenti e pur avendo imboccato una pista diversa rimaniamo in contatto radio e ci ricompattiamo ad Ayoun, orrenda città molto estesa e sporchissima.

Qui facciamo qualche piccola spesa e, incredibile, troviamo delle baguette imbottite di misteriose cose squisite.

Poi asfalto noioso per 290 kilometri fino a Nema dove perdiamo un po’ di tempo al posto di polizia che ci trattiene per un po’ per non so quale invenzione burocratica; si è fatto tardi e dobbiamo accamparci appena fuori la città accanto alla pista per Oualata che raggiungiamo il giorno dopo.

Questa cittadina è famosa per le particolari decorazioni delle belle case in muratura, recenti alluvioni hanno portato evidenti danni ma il fascino della località è intatto. Ero stato da queste parti una ventina di anni fa ma poco è cambiato da allora. Dopo tanti campi nella brousse alla sera alloggiamo all’Auberge Touristique, una bella casa trasformata in albergo, parola un pò grossa per questa struttura decorata in modo sopraffino ma dalle comodità pari a zero (niente acqua corrente, un solo gabinetto alla turca, una specie di doccia rudimentale, niente acqua da bere per non parlare di una fresca Coca Cola).

La cena è alla mauritana e cioè seduti a terra in circolo su bei tappeti, il piatto di portata, cous cous ovviamente, al centro.

Poi tutti a dormire in comodi letti, quattro o cinque per stanza.Questo auberge così spartano dà la misura di quanti turisti possano passare da queste parti.

Dopo Oualata ci aspettano 800 kilometri di deserto per raggiungere Tidjikja, la successiva cittadina “civile” con solo la piccola e sperduta Tichit ad interrompere queste solitudini.

La pista che imbocchiamo è ben segnata e non difficile, ambiente desertico, sabbia mista a cespugli simili alle nostre ginestre, rocce e pietraie.

Qualche decina di kilometri dopo Oualata un classico dell’immaginario sahariano: la carovana di cammelli. Ne incrociamo addirittura due che si snodano tra le dune per la gioia e l’entusiasmo di tutti noi.

E’ incredibile, nell’era tecno-digitale esiste ancora questa antichissima forma di trasporto.

Sul finire della giornata ci fermiamo vicino ad un accampamento di nomadi che ci invitano nella loro tenda per condividere un attimo di vita mauritana, le loro semplici ed essenziali cose riposte con cura nel “baldacchino da transumanza” ben posizionato in un angolo della grande tenda.

Ci offrono l’immancabile the, ritualmente preparato, Camilla chiacchiera con loro facendo sfoggia del suo buon arabo, relazionandoci sui loro legami famigliari.

I fotografi si scatenano cercando di non approfittare troppo dell’ospitalità e della pazienza dei nostri ospiti. Ci accampiamo presso di loro, le donne ci osservano da vicino con evidente curiosità, offriamo loro dei piccoli regali.

Lasciamo i nostri amici e proseguiamo il nostro viaggio tra sabbia e rocce fino a raggiungere   il pozzo di Aratane, dall’acqua pura e limpidissima dove ricostituiamo le scorte di acqua.

Poco dopo, a Makrugat, nel posto forse più spettacolare di questa traversata facciamo uno splendido campo in un contesto dal sapore tassiliano, alla base di scenografiche rocce traforate da enormi archi. Pura gioia per i fotografi, anche se la luce piuttosto piatta ed il pulviscolo sollevato dal vento disturbano non poco.

Da qui in avanti il vento la farà da padrone, sopratutto la mattina prima che il sole riscaldi l’atmosfera e la sera dopo il tramonto.

Montare le tende in queste condizioni è un’impresa e mangiare sabbia inevitabile.

Da Makrugat a Tichit la pista sabbiosa diventa più impegnativa e qualche insabbiata (io mannaggia!) richiede l’aiuto del verricello.

Qualche kilometro prima di Tichit nella località chiamata Aghrijit ci sono i resti un villaggio neolitico che si raggiunge dopo una bella scarpinata sulla falesia.

I componenti la geronto car Toyota (come viene chiamata, con scarso rispetto, la nostra macchina a causa della veneranda età di Carlo e mia) rinunciano alla faticaccia, io giustificato per aver già visitato il sito vent’anni fa, Carlo senza scuse. Raggiungiamo quindi Tichit; la parte antica dell’insediamento, situata in cima ad una collina, è diventata patrimonio mondiale dell’Unesco, peccato che pesanti lavori di presunto restauro abbiano omologato tutte la case di pietra ed ora tutto appaia nuovo ed in costruzione.

Questa cittadina era considerata il più bell’esempio di architettura in pietra del Sahara mauro ed anni fa quando vi passai la prima volta aveva tutt’altro sapore, con le facciate delle abitazioni in gres inframmezzato da lunghe lastre di scisto a formare delle eleganti linee orizzontali. Si prosegue su una bella pista, a tratti sabbiosa ed a tratti rocciosa, con crescente vegetazione (niente di che, intendiamoci, piccole acacie o simili) fino a raggiungere Tidjikja, grossa e vivace località dove io faccio aggiustare una gomma bucata mentre gli amici scorrazzano per le botteghe nella solita vana ricerca di ricordi.

Qui ritroviamo l’asfalto, 600 kilometri di noia, che ci condurrà fino a Nouakchott, con vento fortissimo e sabbia che penetra dappertutto in una atmosfera apocalittica.

La capitale della Mauritania non offre praticamente niente al turista a parte lo spettacolo del porto di pesca, una immensa spiaggia dove la sera rientrano centinaia e centinaia di coloratissime lance di pescatori senegalesi.

Meglio non guardare come il pescato viene conservato altrimenti difficilmente la sera al ristorante si ordinerà un’orata alla griglia. A Nouakchott il nostro gruppo si divide, Camilla, Michela, Andrea e Marco tornano in Italia in aereo, Gus attende la moglie in arrivo dall’Italia, Alessandro Carlo ed io torniamo in Italia via terra attraverso Il Banc d’Arguin e poi tutto il Marocco, Francesco che non vuole “salinizzare” il suo bel camper 4×4 lo ritroveremo al traghetto a Tangeri.

La pista costiera che ci porta al Banc è puro spettacolo lungo oltre 100 kilometri.

Si viaggia sospesi tra le onde dell’oceano che si frangono sulla costa sabbiosa ed il deserto, attraverso barche e villaggi di pescatori, stormi di gabbiani e pellicani.

La guida, almeno in qualche tratto, è abbastanza impegnativa perché   la distanza tra l’oceano che pare non veda l’ora di risucchiarti ed il deserto che non vuole farti entrare, è davvero minima.

A volte proprio dove il terreno sembra migliore, e cioè dove l’onda lambisce la spiaggia, si trovano tratti di insidiosissimo fango dove controllare la macchina è molto difficile.

Queste zone hanno un colore più scuro della solita sabbia marina ma non sempre il diverso colore significa fango, a volte sono innocue alghe marine.

Chi si impianta in questo fango esce grazie al provvidenziale aiuto dell’amico verricello. Cercare di uscirne in altra maniera con la marea che si alza minacciosamente non è cosa buona e giusta.

Il tratto di spiaggia che mi ha messo un po’ di ansia è quello finale che porta a Nouamghar dove c’è la direzione del Parco Nazionale del Banc d’Arguin.

Per fortuna si tratta di pochi kilometri di spiaggia molto stretta con fango micidiale da evitare assolutamente sulla sinistra (stiamo andando verso Nord), sabbia molle sulla destra, il tutto correndo su un piano inclinato (verso l’oceano!) .

Dopo oltre 100 kilometri di godimento la pista finisce a Nouamghar.

Mentre registriamo la nostra entrata nel parco incrociamo un pescatore che ha in mano una bella aragosta (un po’ piccola per tre).

Brevissima trattativa e l’aragosta, finisce nella nostra Toyota avvolta in stracci bagnati per tenerla in fresco.

Entriamo nel parco un po’ delusi dalla mancanza di quegli uccelli acquatici per cui il Banc è famoso e dalla presenza di tanta plastica sulle rive della laguna.

Inizia un vento furioso per cui, arrivati a Cap Tafarit, una sessantina di kilometri dall’entrata del parco, affittiamo una grande tenda maura nella piccola struttura turistica qui esistente e chiudendo ogni pertugio per contrastare la sabbia portata dal vento ci barrichiamo nel nostro riparo.

A sera Alessandro, cuoco raffinato, battagliando col vento che non dà tregua prepara fantastiche linguine alla bottarga cui segue la squisita aragosta.

La fortuna ci viene incontro: Carlo sta male e decide di saltare la cena per cui a malincuore Alessandro ed io siamo costretti a dividerci equamente l’aragosta.

Qui devo aprire una dolorosa parentesi a proposito della bottarga.

All’inizio di questo viaggio il vecchio viaggiatore africano (io) convinto di sapere praticamente tutto del Continente Nero aveva preso in giro la giovane signora (Michela) che, ricavate le proprie conoscenze dalla guida della Polaris, sosteneva che la Mauritania, Nouakchott in particolare, fosse rinomata per la produzione della famosa bottarga.

Io, e per la verità anche altri esperti della realtà locale, sostenevamo che la notizia fosse pura fantasia (impossibile solo pensare alla bottarga in questo disastrato paese) e per tutto il viaggio abbiamo martoriato la povera Michela, prendendola in giro per la sua credulità.

Invece Michela ha scovato a Nouakchott (e non solo) la famosa prelibatezza, finita gloriosamente in pentola al Banc.

Chiudo questa parentesi col capo cosparso di cenere, Michela scusami.

La mattina successiva alla cena sontuosa proseguiamo verso Nord, il vento è calato e inaspettatamente facciamo una bellissima pista, appena segnalata da qualche rara balise, in un autentico paesaggio sahariano. 

Immensi pianori di sabbia senza traccia di vegetazione, cordoni di bellissime dune, spazi immensi.Una vera sorpresa che termina in prossimità d Nouadhibou, brutta cittadina dove c’è il terminale del famoso treno più lungo del mondo che trasporta materiale ferroso dalle lontane miniere nel deserto.

Ci sono anche industrie (cinesi) per la lavorazione del pesce che ogni giorno nuovissimi grossi pescherecci pescano in abbondanza in queste feconde acque. Molto vicino a questa zona altamente industrializzata c’è un fazzoletto di terra protetta: Cap Blanc dove, non si sa come, sopravvivono delle foche monache (pare che ne esista qui una sparuta colonia di quattro/cinque) che convivono con enormi stormi di uccelli marini.

Fine della Mauritania, fine del viaggio, fine.

Organizzazione logistica: Saharamonamour di Fabrizio Rovella

11 comments… add one
Guia April 10, 2019, 19:27

(Zio) Gian….meraviglioso racconto! Mi hai riportato con il pensiero e le emozioni al ” nostro ” Tenere’. Foto incredibili! Bellissimo!!

Bruno Riccardi April 11, 2019, 13:09

Sono stato nel sito dei coccodrilli in Mauritania, durante un giro nel deserto nel 2014. Posto molto bello. Tuttavia, siamo rimasti per tutto il giorno il loco e dei coccodrilli abbiamo solo vissto le tracce sulla sabbia. Gli animali non si sono fatti vedere, purtroppo.

Marco Garbero April 11, 2019, 14:31

Bravo Gian che non ti fermi.Ho in progetto di andare in Niger con un Tuareg.Bello leggere la tua esperienza e i tuoi pensieri,le fotografie.Tutto interessante e poetico.Marco

LUIGI LEGORI April 11, 2019, 14:51

Bellissimo il viaggio e il commento; stupende le fotografie.
Complimenti Gian, spero di vederci presto.
Luigi

vittorio Parigi April 11, 2019, 20:23

Complimenti per il bel percorso che in parte mi e’ nuovo e spero ” copiarti” in futuro ! Molto chiara e completa la descrizione ! ciao Vittorio

Gianni April 12, 2019, 08:35

Che meraviglia! Gian sei stato bravissimo e fortunato. Nessuno, tra tutti i miei amici, ha mai fatto un viaggio così.
Sarà difficile per te, dopo queste meraviglie, superare te stesso.
Gianni

Aldo Cecchini April 12, 2019, 22:34

Bellissimo viaggio, bellissimo racconto. Grazie per averlo condiviso. E infine…un po’ di invidia perche’ riesci a rimanere cosi’ giovane e avventuroso.

Lorenzo Ravano April 14, 2019, 10:16

Bravo Gian, ancora una volta un viaggio affascinante e un resoconto altrettanto accattivante. Complimenti, sempre un piacere leggerti.
A presto

alessandro April 30, 2019, 08:52

Un grazie anche alla macchina di appoggio alla Geronto Toyota………ero pieno di pannoloni, cateteri, medicine……grande Gian…grande Carletto…

Paolo August 3, 2019, 17:24

Ciao! Gian, io comprai il tuo KZJ90 tramite il comune amico Piero. Purtroppo dopo 450.000 Km il fantastico mezzo ha ceduto ma oggi ne ho uno uguale! Spero che tu stia bene e che continui i tuoi viaggi. Ti saluto e abbraccio, Paolo.

Topogigio November 17, 2019, 11:09

Bravo, bell’articolo scritto bene, ho ritrovato emozioni e posti che tanto ci avevano fatto brillare gli occhi quando in anni non sospetti con mia moglie abbiamo gironzolato soli per quel meraviglioso paese

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