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Sultanato dell’Oman – Dove il deserto del Rub al-Kali nasconde la città di Ubar By Luciano Pieri

– Posted in: Asia, Cultura, Resoconti di viaggio, Storia

By Luciano Pieri
Originally Posted Friday, April 20, 2012

SULTANATO DELL’OMAN – Dove il deserto del Rub al-Kali nasconde la città di Ubar

Testo e foto di Luciano Pieri

Mi portarono nel Sultanato dell’Oman due sogni da realizzare: percorrere almeno una piccola parte del grande Rub al-Kali e visitare gli scavi della misteriosa città di Ubar.

Il Rub al-Kali, il Quarto vuoto, dicono gli arabi che ebbe inizio quando Allah creò il mondo e lo divise in quattro parti: una fu il cielo, una fu la terra, una fu il mare, la quarta rimase vuota e fu il Rub al-Kali.

La città di Ubar ha una storia relativamente più recente, si stima che fu abitata dal 3000 a.c. al 500 d.c. come ultimo rifornimento d’acqua per le carovane che, cariche di preziose merci destinate alle civiltà del Mediterraneo, si accingevano ad attraversare l’immensa distesa di sabbia del Rub al-Kali.

Il giro di affari portato dai mercanti che a Ubar facevano tappa, aveva reso cosi ricchi i suoi abitanti che, come spesso accade nelle civiltà che raggiungono un benessere esagerato, finirono con la loro superbia e la loro vita dissoluta per offendere Dio.

Si legge sul Corano che questa città, ricordata col nome di Iram, per i suoi peccati fu fatta sprofondare da Allah sotto terra.

Tutti i deserti hanno la capacità di trasformare la storia in leggenda e la leggenda in storia, ed anche la leggenda di Ubar fu raccontata dai beduini nelle lunghe notti passate intorno a fuochi di sterpi, sorseggiando tè bollente.

Il mondo della città scomparsa fu conosciuto in occidente attraverso il libro “Le mille e una notte”.

Nella novella “Racconto della fanciulla con le due cagne” la bellissima Zobeide, in viaggio da Bagdad per Bassora, per casualità impreviste, finisce in una città dove ogni essere vivente è stato trasformato in pietra nera e le merci, l’oro, l’argento sono rimasti intatti, a disposizione di chi vuole prenderli.

E’ questo il primo resoconto scritto di una città che per magia, di tanto in tanto appare e scompare per il godimento dei viaggiatori dei deserti, per i quali fantasia e realtà sono incredibilmente allo stesso livello.

Occorre arrivare al 1992 quando un team americano di studiosi specializzati in varie materie scientifiche, riesce a riportare alla luce le rovine di Ubar e spiegare in parte il segreto della sua scomparsa.

Si arriva a Muscat (Mascate), la capitale dell’Oman, con un volo da Dubai.

Mascate in arabo significa “ancoraggio” e come scrisse un grande navigatore, Ahmad Ibn Majid, nel 1490: “Mascate è un porto unico al mondo, dove è possibile fare affari d’oro ed ammirare meraviglie impensabili altrove.”

Ancora oggi la circonda una magica atmosfera.

Il fascino di un ambiente urbano caratterizzato da pochissimi grattacieli e da quartieri, di mercanti e pescatori, che sopravvivono immutati da centinaia d’anni.

Percorrendo la Corniche, si incontrano luoghi incantevoli come il Suq di Mutrah, il Forte e la Torre di Guardia costruiti dai portoghesi, la moderna “Grand Mosque” di recente costruzione ma notevole per la splendida architettura e per gli interni, con un enorme tappeto, il più grande del mondo, di 70 metri per 60, realizzato in quattro anni di lavoro da 600 tessitrici.

Partiamo da Muscat guidati da Piero Rossi, grande sahariano, ma esperto di tutti i luoghi dove la sabbia ha il sopravvento su tutta l’altra natura.

Attraverso le montagne dell’Hajar percorrendo Wadi Bani Auf, tra antichissime rocce, scoprendo fossili e pitture rupestri, arrivare nell’oasi di Nizwa è una piacevole scoperta.

Il forte che la domina, risalente al 1668 ma costruito sulle fondamenta di uno precedente dell’845, è di un colore bianco abbagliante come quello dell’abito tradizionale omanita, il dishdasha, un’ampia tunica di cotone lunga fino alle caviglie.

Due cannoni dell’epoca, spianati davanti all’unico ingresso, lo difendono ancora da improbabili attacchi assieme a una cinta ininterrotta di mura merlate dove di notte si aggirano fantasmi di antichi guerrieri, guardiani di una delle più importanti rotte carovaniere.

Il forte di Nizwa è stato sempre imprendibile in quanto, oltre alla perfetta architettura militare di difesa, aveva nel suo interno propri pozzi, sempre colmi di acqua fresca, alimentati da un torrente sotterraneo che scorreva sotto il terreno dov’è costruito.

Il torrione del forte alto 40 metri , permette l’osservazione a 360 gradi sull’oasi e sugli wadi che qui convergono.

Nelle vie attorno al forte si trova un mercato animato da venditori delle più svariate mercanzie: animali vivi, pesce, verdure, tessuti e, cosa che colpisce maggiormente noi europei, le armi, offerte liberamente.

Non ci sono solo i caratteristici pugnali ricurvi fabbricati da abili artigiani locali ma anche vecchi fucili di fabbricazione europea.

Siamo alle porte del Rub al-Kali, attraverso un monotono serir di colore grigio arriviamo velocemente alle prime dune del più grande deserto di sabbia del mondo.

Così grande che ancora oggi ci sono zone mai esplorate.

A parte i beduini che lo hanno navigato da sempre grazie al cammello, da loro chiamato Ata Allah (Grazia di Dio), il primo europeo che riuscì ad attraversarlo su di una rotta che scendeva da nord a sud, fu l’inglese Bertram Thomas nel 1931; il secondo fu ancora un inglese John Philby, il terzo, Wilfred Thesiger, nato ad Addis Abeba ma da un diplomatico inglese, che a partire dal novembre 1945 lo attraversò in varie direzioni.

L’impresa riuscì grazie ai suoi amici bedù e fu raccontata nel suo capolavoro “Arabian sands”, testo base per chi ama il deserto.

Questo libro mi portò nell’Oman e lì trovai dune di una bellezza da togliere il fiato, al di sopra di ogni aspettativa anche per un amante del Sahara come sono io.

S’inizia un percorso, saliscendi in mezzo a dune di sabbia rossa, altissime; insabbiamenti difficoltosi da risolvere, Piero decide di usare un grosso canapo per uscire dalle situazioni più difficili.

E’ la prima volta che vedo una tecnica così, ma funziona.

La sera, appollaiato su di un’alta cresta ho sentito il suono della sabbia, come di una grande orchestra composta di violoncelli e viole.

Come tutti i deserti anche il Rub al-Kali ha le sue particolarità che lo distinguono da tutti gli altri, in questo caso sono il susseguirsi ininterrotto delle dune ed il colore rosso della sabbia.

Usciamo dalle dune verso sud per un paesaggio piatto e grigio arrivando al villaggio di Shisr dove al margine di case bianche, un’area recintata racchiude la città perduta di Ubar, patrimonio mondiale dell’umanità, coordinate N 18°15’301 E 53°38’947.

Per quanto tempo è stato cercato questo luogo, sopravvissuto nei secoli grazie ai racconti dei beduini intorno ai fuochi che scaldano le fredde notti nel deserto e grazie ai Rawi, cantastorie itineranti, che nella città del Cairo medievale intrattenevano mercanti, pellegrini, carovanieri, che in religioso silenzio, accovacciati all’ombra dei muri delle moschee, ascoltavano le storie che di volta in volta divenivano romantiche o fantastiche o ricche di suspence.

Storie che preferibilmente parlavano di Ubar, delle sue nascoste ricchezze, del popolo di ‘Ad, misteriosa razza di giganti ai quali il profeta Hud annunciò una tragica fine a causa dei loro peccati contro Dio.

Attualmente a chi visita Ubar si presentano i resti di una piccola città circondata da mura, con i basamenti di otto torri, di una cittadella fortificata e di innumerevoli magazzini e negozi.

Il centro di questa città è sprofondato in una immensa caverna e questo, probabilmente, fu l’inizio della sua leggenda.

Ubar non finì perchè saccheggiata o distrutta da truppe nemiche o decimata da una epidemia o demolita da un terremoto, ma sparì nella sabbia.

Ci vuole molta fantasia per rivederla nella sua ricchezza passata, con la gente che si operava nei traffici e con le carovane che di qui transitavano cariche delle preziose merci.

Sì, ci vuole molta fantasia ma, secondo me il bello sta proprio qui.

Ripartiamo verso sud per raggiungere la città portuale di Sallalah che fu il principale punto per l’esportazione della mirra e dell’olibano, incenso della più pregiata qualità, venduto a quei tempi a peso d’oro sui mercati del Mediterraneo.

Siamo nella regione del Dhofar, una anomalia climatica nel meridione del Rub al-Kali, dove una catena montagnosa ferma le nubi del monsone che con le loro piogge creano un piccolo eden di verde.

Ai piedi di queste montagne crescono le piante dell’olibano, vegetazione spontanea impossibile da coltivare.

Per proteggere questa immensa ricchezza gli abitanti ammantarono questi luoghi delle più terribili leggende, fra le quali quella dei serpenti volanti.

Khor Rori, a 40 chilometri ad est di Sallalah, era l’antico porto della città di Sumhuram, da dove partivano le navi cariche di olibano.

Fu fondata sotto il regno di Hadramaut e fu citata, nel I° secolo d.c., in un antico testo greco sulla navigazione marittima; qui approdavano anche le navi romane che venivano a caricare.

Durante gli scavi, iniziati nel 1952, furono rinvenute tavole contenenti le leggi di stato che disciplinavano la produzione ed il commercio dell’incenso.

Questo luogo che, grazie al fiordo naturale, era un perfetto approdo per le navi di quei tempi, è attualmente scavato e studiato da una missione archeologica dell’Università di Pisa.

Ritornare a Muscat lungo la costa è una scoperta continua di luoghi e situazioni entusiasmanti: pescatori che approdano direttamente sulla spiaggia aiutati dal traino di vecchie fuoristrada, accolti da migliaia di gabbiani pronti a buttarsi sugli scarti di pesce; deserti costieri di sabbia bianca, abbagliante, che si immerge direttamente nell’Oceano Indiano;

cittadine costiere di case basse, ordinate, bianche, dove la vita si svolge con una lentezza purtroppo ormai dimenticata nel nostro mondo.

In una di queste, Sur, esiste ancora un cantiere navale dove, con le tecniche antiche si costruiscono i Dhow, le barche di legno che da sempre e tuttora navigano nel mare degli emirati ed oltre.

Prima di giungere alla capitale Muscat, è interessante una fermata alle rovine di Qalhat, II° secolo a.c., col mausoleo di Bibi Miriam, visitato e commentato nei loro diari da due grandissimi viaggiatori del medio evo, Marco Polo ed Ibn Battuta.

 

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